Entusiasmo e
ricerca:due elementi di crescita professionale
di
ANNALISA BARATTA*
La "pratique
reflechie" di un'insegnante, che ripercorre le tappe significative della
sua formazione, dalle prime esperienze d'insegnamento negli anni '70,
segnate dalla complessità delle istanze sociali. Una professionalità
costruita sul campo, accresciuta accettando le continue sfide che il
lavoro a scuola presenta, un'identità consapevole delle incertezze di
una società inquieta, e che ha trovato, nell'incontro con altre
professionalità, un valore aggiunto alla propria formazione.
Ho iniziato così, a Milano, nelle
cosiddette scuole a tempo pieno, isole felici che sperimentavano
pratiche didattiche e modelli organizzativi innovativi. In quelle
scuole, il fermento diffuso altrove diventava sperimentazione possibile.
E il neo insegnante per vocazione, come me, veniva coinvolto in collegi
docenti interminabili, in fiumi di discussioni, in gruppi di studio
notturni, in commissioni di lavoro, in convegni; insomma una scuola per
far crescere, ma anche una scuola per crescere.
Nelle mani, nella testa e nel cuore Lettera ad una professoressa di don
Milani.
Mi affascinavano la ricerca in campo didattico, la relazione pedagogica,
i processi di democratizzazione della scuola che, con i decreti
delegati, sembravano inserire le problematiche della formazione e
dell'istruzione nella complessità delle istanze sociali.
Queste le mie prime esperienze, comuni a
chi entrava nella scuola negli anni 70 e per me, come forse per
molti, la fortuna di incontrare e lavorare con persone di grande
esperienza, ricche di competenza e di entusiasmo, in grado di
coinvolgere nella ricerca di metodologie nuove, disponibili al confronto
anche con i colleghi più inesperti, con le famiglie e il territorio.
Insegnanti di tutti i gradi di scolarità impegnati nella costruzione di
un modello di scuola, allora ancora non del tutto chiaro, fondato sulla
ricerca di elementi di continuità nel percorso formativo, sul
rinnovamento metodologico, sulla individuazione degli aspetti formativi
delle discipline. Era una ricerca che presupponeva l'apertura ed il
confronto dentro e fuori della scuola, con il mondo del lavoro e con
un'utenza nuova che, immessa nella scuola dalla riforma del '62 che
istituiva la media unica, ne avrebbe scardinato, di fatto ed attraverso
un faticoso percorso legislativo, la staticità e le gerarchie.
Identifico nella parola ricerca la chiave di interpretazione di quegli
anni: ricerca teorica, ricerca metodologica, ricerca inter-disciplinare,
ricerca di soluzioni e spazi organizzativi innovativi. Ma non bastava
l'entusiasmo, erano necessari rigore, studio, lavoro, creatività,
impegno, disponibilità, confronto, responsabilità, passione: era
necessario essere credibili. Erano queste le qualità di quei "vecchi"
colleghi che ricordo, ora che sono anch'io una "vecchia" collega, con
grande stima; a loro sento di dovere molto della mia formazione.
Convivevano allora ancora due modelli di scuola che, dietro
all'apparente scontro sui temi del "latino sì, latino no; grammatica sì,
grammatica no; contenuti sì, contenuti no; voto sì, voto no ecc.",
nascondevano un più profondo travaglio tra il bisogno di rinnovamento e
la volontà di salvaguardare il noto, in qualche caso, forse, solo la
paura dell'ignoto. Erano queste posizioni, sicuramente schematizzate e
riduttive rispetto alla complessità delle problematiche cui facevano
riferimento, che agitavano i collegi docenti ed i consigli di classe,
dando luogo ad un confronto-scontro ma anche, inevitabilmente, al
cambiamento.
E, così, qualche vecchio doposcuola, luogo della ripetizione della
lezione del mattino, cedeva il passo alle attività integrative perché
motivanti e formative ed a quelle mirate al metodo di studio,
trasversale alle discipline. Nei corridoi, gli insegnanti cominciavano a
programmare attività interdisciplinari; e la diatriba sull'utilità del
latino, del quale molti insegnanti della scuola media si sentivano
defraudati, cedeva il passo alla ricerca di strumenti didattici
innovativi, suggeriti dagli sviluppi della linguistica.
Torno alla mia esperienza, dura, ma gratificante, del far scuola, negli
anni successivi, nei paesi dell'hinterland milanese, luoghi dormitorio
di grande e recente immigrazione, con alunni portatori di dialetti e
consuetudini diverse, spesso profondamente nostalgici della loro terra
del sud, soli, sia pure con tanti fratelli, con tanti problemi.
Incalzati dalle situazioni, dalla necessità di dare risposte a bisogni
reali, sorretti dall'entusiasmo di operare per un cambiamento portatore
di senso, aggrappati agli spazi ed alle indicazioni metodologiche dei
"nuovi" programmi del 79, abbiamo
anticipato i temi che sono oggi di attualità nella pianificazione
dell'offerta formativa: la centralità dell'alunno, la valorizzazione
delle diversità, l'integrazione, e ci siamo tuffati nella linguistica
per non mortificare il multilinguismo dei nostri alunni e per potenziare
la loro conoscenza della lingua italiana.
E' stata la fase, nota a molti miei coetanei, del volontariato a tutto
campo, per sopperire ad un'organizzazione scolastica rigida e
verticistica, che non prevedeva spazi organizzativi di confronto e
programmazione. Sperimentavamo una nuova professionalità, nuovi ruoli,
interrogandoci sui confini e sui possibili spazi di azione dell'essere
insegnante.
Anticipavamo allora, col nostro entusiasmo, i temi che oggi hanno
trovato diritto di cittadinanza nella scuola: collegialità,
progettualità, formazione, programmazione, autonomia nella definizione
del curriculum formativo.
Si usciva quindi dalla materia e dalla
classe, luoghi storici della professionalità docente, per ritrovare,
forti delle potenzialità della propria disciplina, l'unitarietà del
sapere, presupposto fondamentale per pensare l'alunno come personalità
globale, alla quale dare risposte sinergiche e il più possibile vicine
alle sue necessità. Anche la legislazione seguiva il nostro percorso:
la legge 517 del 1977, l'istituzione del
tempo prolungato del 1979, i nuovi programmi, con l'indicazione,
non più solo di contenuti, ma di metodologie, sostenevano i nostri
sforzi.
Nel recepire il cambiamento, il legislatore delineava il profilo di una
professionalità docente complessa, non più ancorata solo alla conoscenza
della disciplina, ma sempre più coinvolta in un processo sistemico.
Gli anni '90 hanno segnato, infatti, la
svolta, il passaggio dal volontariato alla definizione della nuova
professionalità docente. Ed è anche in questa direzione che
colloco la mia esperienza triennale di formazione nel campo del
bi-plurilinguismo in Val d'Aosta; un'avventura molto significativa sul
piano umano e professionale, condivisa con un gruppo di colleghi
simpatici e preparati, sui temi della didattica della lingua e delle
lingue, che ci ha indotto a riflettere sulla complessità delle
competenze indispensabili alla nuova figura di docente: ricerca-azione,
monitoraggio, strumenti di valutazione di processi, strumenti di
comunicazione e di relazione, tecniche di conduzione di un gruppo di
lavoro. L'IRRSAE aveva pensato al tema del bilinguismo anche in termini
di formazione delle cosiddette "figure di sistema", da inserire appunto
nel sistema - scuola con funzione di supporto e coordinamento. La
ricerca, spesso più avanti del legislatore, aveva ormai decretato la
fine della scuola come struttura piramidale e la nuova ipotesi
organizzativa richiedeva docenti con competenze complesse, non solo
disciplinari.
Oggi sono davvero lontani i tempi in cui era possibile trincerarsi
dietro lo scudo della libertà di insegnamento per chiudere la porta
della classe e procedere in maniera quasi autistica all'acquisizione di
elementi di giudizio da portare in sede di valutazione: fuori dalla
porta qualcuno avrebbe pensato a risolvere i problemi organizzativi e
burocratici.
In questo percorso ho visto anche cambiare quelli che qualcuno definisce
i nostri "clienti", alunni sempre più inafferrabili: sono i ragazzi
della globalizzazione, del bombardamento mediatico, del computer e di
internet, della comunicazione frammentata e lapidaria, dei messaggini da
cellulare, dell'incertezza di una società inquieta, della crisi di
valori.
Per catturare questi nuovi, mutevoli e sfuggenti interlocutori la scuola
sta di nuovo faticosamente cercando un suo ruolo, una sua nuova
fisionomia. In questa fase, difficile e controversa anche dal punto di
vista legislativo, è arrivato il dPR 275
del 1999 che, ai sensi dell'art.21 della legge 59, ha sancito, insieme
all'autonomia didattica ed organizzativa delle singole istituzioni, il
principio dell'autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo delle
istituzioni scolastiche. Contrattualmente, inoltre, sono stati definiti
i confini della nuova, multiforme, professionalità docente.
Oggi l'autonomia scolastica e la "verticalizzazione", concretizzata
negli istituti comprensivi, hanno aperto spazi di nuova progettualità e,
per chi crede come me, nella formazione come processo organizzato in
continuità e nel valore dell'incontro tra professionalità diverse,
rappresentano uno stimolante campo di azione.
In questo nuovo quadro, ripercorrendo le esperienze di questi trent'anni
di insegnamento, e non solo, mi sono sentita pronta, un po'
presuntuosamente, ad accettare ancora una volta una nuova sfida. Ho
valutato di poter rinunciare a quella parte della mia professionalità
costituita dalla didattica e dal rapporto diretto con gli alunni, per
provare anche l'esperienza, complessa e stimolante, del coordinamento
del nuovo, articolato sistema - scuola.
Ho deciso, perciò, di sperimentare anche il ruolo del dirigente
scolastico, forse, come momento di sintesi della mia formazione e ho
accettato di ritornare, in qualche modo, ad una situazione di precariato
privo di certezze.
*Insegnante di
Materie letterarie.
Formatore dell'area bi-plurilingue.
Dirigente incaricata nell'a.s.2001-2002 dell'Istituzione scolastica
M. Ida Viglino di Villeneuve. |