Riflessione
preliminare sul tema
Guidano
questa riflessione sul rapporto fra gratuità e sistema educativo
le domande di fondo formulate dal presidente del nostro Comitato
scientifico Nicolò Lipari. "E’ possibile leggere il dovere in
chiave di gratuità? E’ possibile vivere le istituzioni non più
come strutture ossificate e castranti, ma come luoghi da
vivificare in funzione di una disponibilità volontaria?"
Questa
possibilità, che a tutta prima sembra ridursi ad un ossìmoro o ad
un imbroglio di parole, va esplorata da diversi punti di vista:
filosofico, teologico, psicologico, sociologico, giuridico,
pedagogico e politico. Sono compiti che in qualche modo questo
convegno nazionale affronta nella loro totalità.
Per quanto
mi riguarda, noto che un primo criterio per stabilire la
sussistenza di questa possibilità sta nella verifica empirica
dell’esistenza di comportamenti di persone che vivano di fatto il
dovere e le istituzioni in chiave di gratuità. Ab esse ad posse
datur illatio, dicevano i medievali. Poiché non c’è dubbio che
almeno qualcuno si comporti in questo modo, il problema sta
nell’esplorare anzitutto le condizioni di questa esperienza e poi
le condizioni della generalizzabilità di questo comportamento.
Ci si può
quindi impegnare nel pensare ad una legittimazione teorica di
questo agire ispirato a gratuità, attraverso riflessioni
riconducibili ai punti di vista sopra indicati, a partire dalla
psicologia di chi viva questa esperienza; e/o nel pensare ad una
sua diffusione nella prassi, attraverso interventi di tipo
testimoniale, didattico, divulgativo, con forme varie di
incentivazione, anche sul piano istituzionale.
E’ questo
il lavoro che si compie fra l’altro in FIVOL e in tutte le sedi in
cui la preoccupazione per l’inadeguatezza dell’apparato
istituzionale a tutti i livelli, si trasforma in impegno sia a
capire, sia ad educare e ad educarsi non solo come scontenti
consumatori di diritti e svogliati esecutori di doveri, ma come
persone produttrici di senso comunitario e di nuova cittadinanza.
L’obiettivo è quello di diventare e di aiutare gli altri a
diventare, oltre che persone colte e coscienti, "cittadini
praticanti", e cioè rispettosi delle istituzioni e impegnati a
custodirle e a migliorarle. I versanti insomma sono due: il primo
è di tipo giustificativo, il secondo di tipo esecutivo.
I
significati del gratuito, in rapporto all’educazione
Sul piano
giustificativo nel nostro caso ci limitiamo ad accennare
alla fenomenologia di questi comportamenti, quantitativamente
minoritari ma qualitativamente notevoli, rintracciabili in
persone, associazioni, istituzioni raramente segnalate dalla
cronaca, e a ricordare alcune caratteristiche del ‘sistema
educativo’ così come sono previste dal nostro ordinamento, in
rapporto al tema dell’educazione alla gratuità; sul piano
esecutivo si tratta di sviluppare con intelligenza, con
coerenza, con generosità e con coraggio (virtù che purtroppo non
stanno sempre insieme), iniziative ed esperienze che non sono di
oggi, ma che in questo tempo dispongono almeno di alcune forme
d’incoraggiamento e di alcuni strumenti istituzionali.
In ogni
caso occorre intendersi preliminarmente sul significato della
gratuità e dell’aggettivo gratuito. I quali non fanno
pensare anzitutto alla connessione con i valori forti del
volontariato, come prevede il nostro convegno, in particolare
nella sua prima sessione: gratuito, in prima battuta vuol
dire per lo più immotivato, privo di ragione plausibile,
senza senso, come quando si parla di violenza gratuita e di offese
gratuite; e per altro verso significa non costoso, gratis,
che si può avere senza pagare, e che quindi non sembra valere
molto.
Questa
accezione debole o negativa è dovuta al fatto che di solito si
pensa al gratuito in contrapposizione alla razionalità burocratica
o funzionalistica, al mercato e agli obblighi di legge o di
costume, più che in rapporto alla grazia intesa come
bellezza, come amabilità, come dono, come libertà interiore, come
originaria bontà, che avanza oltre le previsioni della burocrazia
e della politica, come esperienza di umanità sorgiva e addirittura
del divino che è in noi, e che si realizza donando. Come ha
scritto in un suo tema un bambino di cui non ricordo il nome, con
una frase che è stata utilizzata dal suo insegnante per intitolare
un libro: Dio ha fatto il mondo gratis.
Nella
ricerca etimologica si è trovato che il latino gratis
verrebbe da una voce indoeuropea di carattere religioso che
significa "cantare inni": e corrisponde al greco chàris,
donde il latino chàritas, che significa amore, distinto sia
dalla filìa, sia dall’èros.
Anche
riferiti alle accezioni deboli o negative prima ricordate, i
termini in questione hanno a che fare con l’educazione e col
sistema educativo. Basti pensare, in negativo, al bullismo e a
tutte le forme di violenza "gratuita", e cioè sgraziata, che
affliggono le nostre scuole; e in positivo a quanto sia
desiderabile una vita familiare, scolastica, associativa, pubblica
in cui si faccia bene il bene, con grazia e cortesia, senza
imposizioni e ribellioni e senza mercanteggiamenti e sotterfugi.
Il
concetto di sistema educativo e le sue vicende culturali e
istituzionali
In senso
ampio il sistema educativo di cui parla il nostro tema comprende
senz’altro anche la famiglia e gli altri enti educativi, come le
chiese, le associazioni giovanili, i mass media e altre enti
pubblici e privati che, pur non essendo centralmente educativi,
svolgono anche un ruolo accidentalmente educativo (o diseducativo
come talora è più corretto definirlo).
Il termine
sistema educativo non è solo un contenitore verbale di
buone intenzioni, ma è l’espressione giuridica con cui la legge
Moratti 18.3.2003 n.53 definisce, all’art. 2, l’istruzione e la
formazione professionale per tutto l’arco della vita: vi si parla
infatti di "sistema educativo d’istruzione e di formazione".
L’espressione è ripresa letteralmente dalla legge 10.2.2000, n.30,
la legge dell’Ulivo che il Parlamento della Casa delle libertà ha
abolito.
I termini
educazione istruzione e formazione indicano dunque per il
nostro ordinamento attività e funzioni che definiscono tutte
insieme, sia pure con gradualità diverse, i compiti delle
istituzioni educative pubbliche; e non devono perciò essere più
utilizzati come simboli polemici di visioni ideologiche
contrapposte, o come termini che definiscano ambiti fra loro
estranei e separati, come sono ancora oggi la scuola e i centri di
formazione professionale.
La
sopravvivenza della formula giuridica "sistema educativo di
istruzione e di formazione" nella nuova legislatura non è ancora
la garanzia del funzionamento sistemico di tutti i soggetti che in
un modo o nell’altro fanno parte di questo sistema, né della
capacità/volontà di assumere un concreto impegno educativo da
parte di coloro che vi operano come professionisti, ma testimonia
almeno della comune volontà di rifarsi ad un criterio alto, per
indicare che le attività riconducibili all’istruzione e alla
formazione professionale non sono pensabili al di fuori di un
contesto e di una finalizzazione educativi.
Ricordiamo
anche che già la legge 10.3.2000, n. 62 sulla parità, sostenuta da
Berlinguer, aveva stabilito all’art. 1 che "il sistema nazionale
di istruzione (…) è costituito dalle scuole statali e dalle scuole
paritarie private e degli enti locali".
La più
recente legge Moratti, che naviga perigliosamente fra le secche
della finanza pubblica e la bonaccia di motivazioni ideali, non va
esente dal rischio che l’aggettivo educativo, issato sul
pennone più alto, finisca per assumere un carattere puramente
esornativo, più che programmatico, e che qualcuno pensi di
eliminarlo di nuovo come inutile orpello, o pericoloso paravento.
Non è la prima volta che l’educazione compare e scompare dalla
stima degli addetti ai lavori e perfino dal frontespizio del
palazzo di Viale Trastevere.
La sua
presenza in quella sede nel fatale Ventennio non ci assicurava
sulla qualità educativa di quel regime, né la sua polemica
cancellazione nell’epoca successiva ha significato anche assenza
di educazione scolastica nelle leggi e nel costume. Queste leggi e
questo costume oscillano sovente fra l’enfasi e la rimozione dell’educativo,
che, un po’ come l’aggettivo gratuito, viene caricato volta
a volta di significati salvifici o squalificanti.
Nella
scorsa legislatura negli uffici del Ministero, che si chiamava
ancora "della Pubblica Istruzione", si parlava malvolentieri di
educazione, sostituendo il termine, ovunque possibile, con
istruzione o col più ampio termine formazione. Ma alla
fine è prevalsa la soluzione integrativa, rispetto a quella
alternativa, come ho ricordato.
Qualcuno
scrisse allora che il ministro Luigi Berlinguer voleva liberare la
scuola dal fardello delle "educazioni", pensando che
sarebbero state d’intralcio ai "saperi" e alle "competenze". In
effetti negli anni ’80 e ’90, nell’impossibilità di ottenere una
riforma parlamentare del sistema scolastico, con particolare
riferimento alla secondaria superiore e alla formazione
professionale, si era lavorato particolarmente intorno
all’educazione alla salute, voluta dalla legge contro le
tossicodipendenze (dpr.309/1992), e a tutti i valori connessi con
questo ampio concetto, che in latino significa augurio di
benessere, di felicità e persino di salvezza.
Dall’educazione alla salute alla "cultura costituzionale"
Memori
della lezione diffusa in tutto il mondo dai rapporti dell’UNESCO,
firmati da Edgar Faure nel 1972 e da Jacques Delors nel 1996, che
affidavano alla scuola, accanto ai compiti di tipo cognitivo e
strumentale (insegnare a imparare, a conoscere e a fare) anche i
compiti di tipo etico e sociale (insegnare a vivere insieme e ad
essere), di fronte all’esperienza del disagio giovanile e alle sue
cadute nella droga, nella devianza, nella dispersione, al
Ministero si elaborò quel Progetto Giovani 93/2000, col quale
anche la FIVOL ha collaborato validamente. Basti pensare alla
collana di succosi libretti editi dalla FIVOL stessa, sotto il
titolo generale "Gioventù domanda".
Solo per
memoria storica ricordo che le polarità entro cui era pensato il
Progetto Giovani e Ragazzi 2000 erano l’identità personale
e la solidarietà mondiale; e che gli slogan relativi non
invitavano ai giochi del Club Méditeranée, come qualcuno
insinuava, ma a perseguire obiettivi di benessere attraverso
condizioni moralmente impegnative, che suonavano in questo modo:
"star bene con se stessi, in un mondo che stia meglio; con
gli altri, nella propria cultura, in dialogo con le altre
culture; nelle istituzioni, in un’Europa che conduca verso
il mondo".
I
congiuntivi indicano la condizionalità e il dinamismo che si
volevano legare all’ universale desiderio di superare lo "star
male" con lo "star bene": segnalano cioè la via del pensiero e
dell’azione, per un "viaggio" verso se stessi, gli altri e le
istituzioni, che sia valida alternativa al viaggio nella droga e
nella devianza. Il tutto nella prospettiva del successo scolastico
e umano di un giovane protagonista della vita scolastica, al posto
dell’insuccesso di un giovane disorientato, in fuga dal mondo e da
se stesso.
Una sintesi
delle"educazioni" implicite in questo programma "trasversale", con
le necessarie mediazioni di tipo pedagogico e di tipo
istituzionale, fu messa a punto dal governo "tecnico"
Dini-Lombardi nella direttiva 8.2.1996 n.58, e nell’allegato
documento intitolato "Nuove dimensioni formative, educazione
civica e cultura costituzionale".
Questa
sintesi intendeva rinforzare l’asse valoriale della scuola,
rivelatosi altrettanto debole quanto quello cognitivo, nell’ambito
di un contesto normativo, quello dei primi anni ’90, nel quale non
c’erano ancora né l’autonomia scolastica, né la riforma degli
ordinamenti della secondaria. Col successivo Governo dell’Ulivo,
questi progetti Giovani, Ragazzi 2000 e Genitori,
istituzionalmente deboli, ancorché radicati nella legge e nei
relativi finanziamenti, furono abbandonati, con la conseguente
perdita di idee e di esperienze preziose, ma si portarono ad
ordinamento l’autonomia scolastica, ora entrata anche nella
Costituzione, e lo "statuto delle studentesse e degli studenti".
Dall’autonomia alla riforma degli ordinamenti
Sono in tal
modo aumentati gli spazi di manovra, per chi intenda (e
istituzionalmente questa è l’unica visione corretta) la scuola
come istituto educativo. L’autonomia infatti viene finalizzata dal
dpr 275/1999 al "pieno successo formativo": espressione con cui
s’intende evidentemente combattere l’insuccesso e il relativo
disagio, mentre nel dpr 249/1998, che ha promulgato lo statuto
degli studenti, la scuola è definita come "luogo di formazione e
di educazione….E’ una comunità di dialogo, di ricerca, di
esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla
crescita della persona in tutte le sue dimensioni".(art.1,2,
sottolineatura mia).
La
legittimazione è alta e l’apertura a tutte le dimensioni della
persona è notevole, coerente col disegno costituzionale, che
all’art. 3 finalizza l’intero ordinamento al "pieno sviluppo della
persona umana". Nella presente legislatura, questo spazio ideale
non è rimasto vuoto di intenzioni, di iniziative e di normative,
anche se vi restano vistosi limiti di coerenza operativa.
Ora che il
Ministero si chiama MIUR, il ministro Letizia Moratti non perde
occasione per sottolineare il primario valore educativo della
scuola, ricollegandosi frequentemente al ruolo della famiglia, sia
in sede domestica, sia in sede scolastica. Del resto la sua legge
parla di "cooperazione tra scuola e genitori": questa si esprime
sia nella scelta di una parte del curricolo, sia nella
elaborazione del portfolio delle competenze individuali,
ossia nella individuazione di materiali scolastici e nella stesura
di "annotazioni" di genitori, che influiscono anche sulla
valutazione.
Si notano a
questo proposito gli influssi del recente riferimento
costituzionale e normativo alla sussidiarietà, che ha indotto il
legislatore delegato a considerare genitori e studenti non come
dei semplici fruitori del servizio offerto dagli erogatori del
medesimo, ma in certo senso come dei coprotagonisti dell’attività
educativa della scuola.
Ai genitori
infatti si riconosce la possibilità di scegliere una parte delle
attività scolastiche o di non sceglierle affatto. In tal modo si
riduce il tempo per la scuola obbligatoria per tutti, nell’ambito
del primo ciclo, fino a 14 anni, dando motivo alla querelle
sull’abolizione del tempo pieno.
Si direbbe
che la libertà si giochi più sulla offerta della possibilità di
disobbligarsi, di non avvalersi, che in quella di riconoscersi,
partecipando, nel progetto comunitario di scuola cui alludevano le
leggi degli anni ’60 e ’70. Tanto più che si è lasciata
illanguidire, con l’inerzia parlamentare, la visione partecipativa
che giusto trent’anni fa aveva alimentato la nostra scuola con i
decreti delegati.
E poiché
con i tempi anche la disponibilità del personale e le risorse
economiche di fatto si riducono, si nota una evidente discrasia
fra le intenzioni chiaramente manifestate, anche con toni
convinti, da parte del Ministro in carica, e le concrete
possibilità di incentivare la mentalità alla quale allude la
domanda di Lipari, richiamata all’inizio di questo intervento.
Educazione alla convivenza civile e volontariato
L’humus in
cui può essere coltivata questa mentalità ha di recente trovato un
riconoscimento formale nelle Indicazioni nazionali per i piani
di studio personalizzati della scuola primaria e secondaria di
primo grado, e nel Profilo educativo, culturale e professionale
dello studente alla fine del primo ciclo di istruzione,
allegati al d.lev.vo 19.2.2004, n.59, primo decreto attuativo
della legge delega n.53.
E’ in sede
di attuazione di questa legge, che impegna la scuola a promuovere
"il conseguimento di una formazione spirituale e morale" e a
"educare ai principi fondamentali della convivenza civile", che le
"Indicazioni nazionali" identificano e propongono alla scuola, in
riferimento a questi principi fondamentali, l’educazione alla
cittadinanza, stradale, ambientale, alla salute,
alimentare e all’affettività
Nell’ambito
delle abilità a cui fare riferimento, nel corso della scuola
primaria, per l’educazione alla cittadinanza, si chiede che il
fanciullo sappia "impegnarsi personalmente in iniziative di
solidarietà", mentre nella sintesi del profilo dello studente si
chiede che abbia conquistato, entro i 14 anni "gli strumenti di
giudizio sufficienti per valutare se stessi, le proprie azioni, i
fatti e i comportamenti individuali, umani e sociali degli altri,
alla luce di parametri derivati dai grandi valori spirituali che
ispirano la convivenza civile"; che avverta "interiormente, sulla
base della coscienza personale, la differenza fra il bene e il
male" e sia "in grado di orientarsi di conseguenza nelle scelte di
vita e nei comportamenti sociali e civili"; che sia disponibile
"al rapporto di collaborazione con gli altri, per contribuire con
il proprio apporto personale alla realizzazione di una società
migliore"; che si ponga "le grandi domande sul mondo, sulle cose,
su di sé e sugli altri, sul destino di ogni realtà, nel tentativo
di trovare un senso che dia loro unità e giustificazione", nella
consapevolezza, tuttavia "dei propri limiti di fronte alla
complessità e all’ampiezza dei problemi sollevati".
Il
progetto ministeriale "Scuola e volontariato"
Intervenendo a Torino, il 17 maggio 2003, al convegno nazionale
che ha lanciato ufficialmente il progetto triennale "Scuola e
volontariato", il ministro Letizia Moratti ha parlato di un
"compito nuovo per la scuola: passare dalla promozione di una
generica ‘vocazione socializzante’ alla promozione e alla
formazione dell’’essere volontari’, in cui il valore della
solidarietà possa essere insegnato e acquisito attraverso la
partecipazione attiva". Ha presentato i dati relativi ad un primo
rapporto Scuola-Volontariato, da cui risulta che 261 scuole
secondarie superiori avevano presentato 481 progetti, che avevano
interessato 6218 studenti, 1416 docenti, 1430 genitori. "Non si
tratta, ha aggiunto, di premiare chi fa volontariato: so che i
ragazzi credono nell’azione gratuita del volontariato, a
prescindere da qualunque riconoscimento del credito scolastico. Il
volontariato è infatti una scelta che si persegue, in cui si
crede, senza inseguire alcun tornaconto. Ma la scuola può e deve
riconoscere le buone pratiche, farle crescere e qualificarle".
Inaugurando
l’anno scolastico in corso il 20 settembre al Vittoriano, il
Ministro ha elogiato di nuovo i volontariato, alla presenza di
ragazzi che hanno fatto esperienze di questo tipo in tutta Italia.
La solennità e la sacralità del luogo, con un centrato intervento
del presidente Ciampi, ha toccato corde profonde, in chi non ha
squalificato come retorica quella manifestazione, chiedendo il
conto al Ministro sul piano degli stanziamenti e dei provvedimenti
per la scuola. Ma il gratuito ha a che fare anche col non
pretendere di leggere ogni momento della vita in chiave economica
o politica. Sarebbe miope pensare che si debbano celebrare solo i
concerti di Vasco Rossi o le vittorie olimpiche, e non anche i
buoni esempi e i buoni sentimenti, che tutto sommato hanno fatto
l’Italia e ancora riescono a tenerla insieme.
Conclusa la
festa, resta il problema. Come si può prima identificare e poi
incentivare la pratica di un’azione gratuita, non mercantile, in
una società e in un apparato normativo che, al di là delle nobili
e innocue affermazioni di principio, sembra apprezzare solo la
mentalità aziendale, tesa all’acquisizione di competenze
spendibili nel mercato del lavoro? Come si può sviluppare la
mentalità dell’azione gratuita non solo, cosa già pregevole, nelle
attività di volontariato che occupano parte del tempo scolastico e
del tempo libero in funzione di obiettivi "aggiuntivi" nei
riguardi dei propri doveri quotidiani, ma anche nel concreto
esercizio di questi doveri?
Gratuità e Costituzione
Questa
mentalità è ben precisata nell’art. 4 della Costituzione,
felicemente ricuperato nelle attuali prose ministeriali, che
recita con chiarezza: "Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o
una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale
della società". E’ questa la condizione perché si realizzino il
pieno sviluppo della persona umana e la partecipazione di tutti i
lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del
paese: in altri termini perché si realizzi il progetto di
democrazia repubblicana delineato nei primi tre articoli.
L’alternativa è la ricaduta nella barbarie totalitaria.
Lavorare
con questo spirito e con questa finalità significa esercitare
diritti e doveri vivendoli come valori, con senso di gratuità, che
in questo caso significa grazia sovrana, non obbedienza ad altri,
per timore, per necessità o per convenienza. Naturalmente non si
pretende - non sarebbe realistico né ragionevole - che le
motivazioni al proprio lavoro siano solo quelle relative al
progresso materiale o spirituale della società.
Si vuol
dire che se si perde di vista questa finalità, se ci si
accartoccia solo nella ricerca del particulare
guicciardiniano, come emerge da recenti ricerche sui giovani, i
valori della convivenza civile e la coesione sociale
progressivamente si liquefano come i ghiacciai e le calotte
polari, e infine l’apparato istituzionale collassa. Quello che è
successo nello scorso decennio in Ruanda e nell’ex Jugoslavia e
quello che sta ancora succedendo in molti paesi africani mostra
tutta la gravità del crollo delle istituzioni politiche e sociali.
Preoccupa
la miopia dei giovani, ma preoccupa ancor più quella di noi
anziani, che abbiamo perduto la chiarezza della visione dei padri
fondatori della Repubblica, della costruzione europea e delle
Nazioni Unite e che rischiamo di lasciare questo mondo senza aver
assicurato agli eredi il possesso delle "istruzioni per l’uso" e
soprattutto dei criteri di manutenzione delle istituzioni
democratiche.
Di più:
lasciamo un mondo più complesso, più inquinato, avendo
saccheggiato in vario modo risorse pubbliche. E qui debbo
ricordare l’iniziativa "esagerata" assunta da circa trecento
persone e cinque consigli comunali di questo paese, per segnalare
che il nostro stato non è onnipotente e cattivo per definizione, e
quindi degno d’essere comunque gabbato e derubato, ma traballante
e malconcio, per il modo con cui è stato e viene ancora
amministrato da molti, e per il modo con cui viene trattato dai
cittadini evasori.
Il
significato di un esperimento sociale con finalità educative
Alludo
all’associazione per la riduzione del debito pubblico, che ha
svolto negli undici anni scorsi, e ancora non va in pensione, un
ruolo di studio, di denuncia, di testimonianza, a proposito del
debito pubblico. Ospite della FIVOL, a cui rivolgo anche in questa
sede un vivo ringraziamento, l’ARDeP ha segnalato il problema del
debito, delle sue cause, delle sue conseguenze e delle vie per
ridurne la portata malefica, con una provocazione: quella del
volontariato a favore del fisco, e cioè dello stato.
Non siamo
solo il paese più indebitato d’Europa, ma anche l’unico, a quanto
ci risulta, in cui i cittadini abbiano versato più del dovuto (una
cinquantina di milioni di vecchie lire, che anche in euro
continuano a confluire al Fondo di ammortamento dei titoli di
stato), sia per vergogna nei confronti degli altri paesi, sia per
sdegno nei riguardi dei corruttori e dei corrotti nel nostro
paese, sia per incoraggiare gli onesti, sia per la soddisfazione
morale di segnalare da un lato un grave pericolo, dall’altro la
possibilità di "sortirne insieme", se si vorrà imboccare la strada
del gandhiano "morire" dell’individuo e della famiglia, perché la
nazione e l’Europa vivano. Il piccolo esperimento fatto
dall’associazione in questo periodo ha dimostrato però che non si
muore affatto, anche dando una piccola somma da volontari fiscali
allo stato.
Tra i
fondatori dell’associazione c’erano un insegnante, vicepresidente
del Consiglio nazionale della pubblica istruzione, un dirigente di
Confindustria, il presidente nazionale di un’associazione di
genitori e il vicepresidente nazionale di un’associazione di
insegnanti e alcuni dirigenti di ministeri.
Qualcuno
anzi, come gli speleonauti che stanno mesi sotto terra per vedere
come si comporta l’organismo in quelle condizioni, ha dimostrato
con versamenti mensili al citato Fondo, che si può campare un anno
e mezzo col 10% di stipendio in meno, senza danni particolari al
fegato, al cuore e, si spera, al cervello.
Della cosa
si è parlato nel convegno della FIVOL sul dono. Per una
documentazione delle vicende trascorse, del generoso
incoraggiamento ricevuto dalle somme Autorità dello Stato, delle
stupefacenti testimonianze raccolte da comuni cittadini, del
rigoroso silenzio in proposito degli economisti e dei politici, e
per approfondire la morale della favola, rinvio al libro La
tunica e il mantello. Debito pubblico e bene comune. Provocare per
educare, Euroma, Roma 2003. I diritti d’autore vanno al citato
Fondo.
Si può
capire l’intenzionalità di questo comportamento, che speriamo sia
considerato gratuito nel senso migliore dell’espressione, pensando
al comportamento di un padre e di una madre di famiglia, che
vegliano la notte un figlio ammalato non perché lo impone qualche
legge o perché qualcuno gli aumenta lo stipendio: ma semplicemente
perché con quel servizio esercitano la loro umanità generativa,
realizzando se stessi nell’atto di curare il figlio.
Se, come
scrisse Alberoni nel 1992, tutti capiscono che con questo debito
non si può andare avanti "ma al momento di pagare tutti si tirano
indietro", noi non siamo rimasti indifferenti di fronte al
pericolo di bancarotta e abbiamo fatto qualche passo avanti. I
cinquanta milioni donati in questo decennio allo stato sono
quantitativamente neppure un soffio di fronte al debito: ma
qualitativamente ci hanno fatto fare un’esperienza che ha cambiato
il nostro modo di vedere i rapporti tra le generazioni, la
famiglia, la società, lo stato, il privato e il pubblico.
La
condivisione della sofferenza e della gioia di superarla e di
costruire, anche nella scuola
E’ la
condivisione del limite, della sofferenza, è l’identificazione del
proprio bene col bene dell’altro, è l’amore per lui che induce il
genitore a dare, anche senza la garanzia che ci sarà qualche forma
di restituzione da parte del figlio. Dando a lui, è come se desse
a se stesso.
Discorso
analogo vale per l’insegnante. Non sono in questione lo stipendio
e tutte le garanzie giuridiche e sindacali che una ragionevole
contrattazione riesca ad assicurare a dignitosi professionisti. E’
in questione il vissuto dell’insegnante, soprattutto in un periodo
storico in cui sono esplosi i diritti, sono implosi i doveri e
sono impalliditi i valori che non siano quelli del proprio
personale interesse, anche per i comportamenti e le scelte di
responsabili di talune istituzioni e di personaggi che influiscono
come modelli sulla fantasia dei giovani.
Occorre una
forte coscienza della dignità del proprio compito antropologico,
sociale e politico (nel senso costituzionale indicato) per
valorizzare ogni giorno l’attività educativa, istruttiva e
formativa che, insegnando, si compie a favore di ragazzi e di
famiglie spesso inconsapevoli della posta complessiva in gioco.
La
possibilità di un’azione volontaria dei docenti nella scuola, in
modo anche gratuito, come previsto per esempio dal citato dpr
309/1992, non va letta come elemosina ad uno stato indebitato e
taccagno, ma come la possibilità di esprimere la propria
professionalità anche al di fuori di stretti vincoli di contratto.
Prevedo le
obiezioni. E ricordo, rischiando il linciaggio, che i colleghi
dell’Est europeo, con cui da anni noi dell’UCIIM passiamo una
settimana estiva di convegno, fanno un lavoro come il nostro per
250 euro al mese. Nella quota di soggiorno, noi della vecchia
Europa mettiamo qualche euro anche per loro. L’Europa dei diritti
non è gratis: costa impegno e fatica, come qualunque bene
prezioso. Uno degli slogan lanciato dell’ARDeP, per i pochi che ne
hanno letto i notiziari era: "Adottiamo l’Italia, per meritare
l’Europa". Naturalmente non è proibito pensare che in questo modo
si potranno fare anche buoni affari.
Si tratta
qui di quel volontariato per le istituzioni e entro le istituzioni
che appare coerente, quando è possibile, con lo stesso esercizio
della professione docente, ove la si legga alla maniera di
Socrate, invece che di quella, altrettanto legittima e
sindacalmente più corretta, ma non altrettanto densa di futuro,
dei sofisti.
Se è vero
che gli insegnanti ogni giorno a scuola creano il dialogo, come ha
scritto l’UNESCO in uno slogan recente, è anche vero che ogni
giorno costruiscono la Repubblica, con maggiore o minor lena,
convinzione ed efficacia. Torna alla mente l’apologo dei tre
scalpellini, che raccontano al viandante che cosa stanno facendo:
il primo dice che spacca una pietra, il secondo che si guadagna da
vivere, il terzo che sta costruendo un tempio.
E’
possibile far sapere, fra tanti scandali che non scandalizzano più
nessuno, ma che inducono alla rassegnazione e a "farsi i fatti
propri" o a elaborare teorie eversive, che in giro esistono anche
gli scalpellini numero tre; che l’amore gratuito del genitore,
esso stesso passibile di gravi deviazioni patologiche,
puntualmente enfatizzate dalla cronaca massmediale, si estende di
fatto in molti casi anche ai propri amici, ai propri vicini, ai
propri scolari, ai propri concittadini, e perfino alle
istituzioni, dal quartiere al comune alla regione all’Italia
all’Europa e al mondo?
C’è chi
dice perentoriamente di no, c’è chi dice retoricamente di sì; e
c’è chi dimostra, con le sue scelte e con la sua vita, che si può
trascendere le appartenenze e le identificazioni di corto respiro,
per mettersi dal punto di vista del bene comune a molti, dalla
scuola alla patria nazionale all’umanità, per sconfiggere quanto
possibile i mali altrui, vissuti come mali comuni, e per tentare
di sorreggere, anche con le proprie spalle e le proprie mani, la
"casa" culturale e istituzionale indispensabile alla vita umana.
L’icona
infernale della scuola ossetica di Beslan, distrutta nelle mura,
nelle persone e colpita nei valori culturali più profondi, da
fanatici terroristi suicidi, che hanno inteso sfogare la
disperazione dovuta alla comune incapacità di costruire nel
rispetto reciproco le istituzioni della Cecenia e della Russia,
mostra il duplice volto della gratuità: la gratuità come
insensatezza di chi rifiuta la vita, perché problematica,
complessa e talora tragica; e la gratuità di chi dice di sì alla
vita e a tutto ciò che le consente di svilupparsi e di fiorire
nell’armonia, anche al di là delle proprie particolari vedute e
dei propri interessi.
Dopo tutto,
Simona Torretta e Simona Pari sono nate su questa terra, e non su
Marte. La partecipazione corale per la sofferenza dovuta al loro
sequestro, la solidarietà morale e politica mai così unanime, la
loro liberazione sotto la luna, con l’abbraccio di famiglia,
Governo, opposizione, istituzioni e volontariato, vicini di casa e
piazze festanti, hanno mostrato un’icona opposta a quella di
Beslan: là la spaccatura fra istituzioni e società civile, con la
reciproca distruzione. Qui l’abbraccio fra volontariato e
istituzioni, fra mondi vitali e mondi istituzionali, all’insegna
della volontà di aiutare e di educare i ragazzi che hanno subito
prima l’embargo, poi la guerra, poi una snervante guerriglia
terroristica.
L’immagine
delle due ragazze sorridenti che si tengono per mano, miti e
vittoriose, nutrite da cultura filosofica, antropologica, vissute
in chiave di pedagogia interculturale e per una concreta
testimonianza di pace, va tenuta presente nelle nostre scuole;
mentre purtroppo in Palestina gli eroi da venerare sono giovani
armati che si sono fatti esplodere per uccidere decine di
innocenti.
La
dialettica vitale fra individuo famiglia nazione mondo
Dall’Oriente, oltre agli omicidi suicidi moltiplicatori di odio
viene anche un’altra visione del mondo: quella di Gesù, che vede
nella disponibilità a sacrificarsi per gli altri la condizione per
avere una vita più abbondante ("se il granello di frumento non
marcisce non porta buon frutto") e quella di Gandhi, che in
Antiche come le montagne ha scritto questa summa di saggezza
etico-politica: "I doveri verso se stessi, la famiglia, la
nazione, il mondo non sono indipendenti uno dall’altro. Non si può
servire la nazione facendo torto a se stessi e alla famiglia.
Similmente non si può servire la nazione facendo torto al mondo.
In ultima analisi dobbiamo morire affinché la famiglia possa
vivere, la famiglia deve morire affinché la nazione viva, la
nazione deve morire affinché il mondo viva". (tr.it. Comunità,
Milano 1978, p. 163)
Il retto
amore di se stessi, della famiglia e della nazione sta nella
capacità di vincere l’egoismo, il familismo, il nazionalismo, in
quanto "fanno torto" al mondo, e quindi in ultima analisi anche a
se stessi.
La gratuità
di cui parla il nostro tema non è dunque estranea alla famiglia e
alla scuola: basta farla uscire allo scoperto. Com’è successo per
esempio con le letture di Dante fatte da Benigni e da Sermonti, e
con gli incontri letterari di Mantova e quelli filosofici di
Modena. Anche questa è gratuità. Per questo possiamo lasciare la
conclusione del discorso ad un poeta orientale, premio Nobel, che
affronta con lo spirito e con la bellezza di un verso, l’odio e i
fucili dei terroristi. E la stella disse: "io darò la luce: non so
se le tenebre scompariranno". (Tagore)
Nota bibliografica:
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Scelte, sfide, progettualità nel cammino del MOVI, FIVOL, Roma
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(a cura di, con G. Refrigeri); Educazione alla convivenza
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(a cura di, con W.Fornasa e S.Poli); Suscitare uomini e donne
più saggi: l’Europa passa anche di qui, in Quale Europa per i
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Insegnare perché? Orientamenti, motivazioni e valori di una
professione difficile, (a cura di) UCIIM/AIMC Armando, Roma
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