In attesa delle
nuove Indicazioni nazionali per la scuola del
primo ciclo
Luciano
Corradini
“Chi insegna nelle mie scuole, deve insegnare quello che voglio io”,
diceva l’imperatore d’Austria Francesco II, convinto d’essere nel
suo pieno diritto, ai docenti del liceo di Lubiana. Del resto anche
suo genero, Napoleone I, non aveva molti scrupoli pluralistici
quando diceva che il suo scopo, nella formazione degli insegnanti,
era quello “d’avere un mezzo per dirigere le opinioni politiche e
morali”.
Decisamente più complicato è scrivere, per tutta la scuola italiana,
un documento prescrittivo e propositivo di Indicazioni nazionali,
a nome e per conto di uno stato operante all’interno di una
repubblica democratica, nella quale è ancora in corso un processo di
revisione costituzionale (l.3/2001), che finora ha riconosciuto
l’autonomia alle singole scuole e ampi, anche se non chiarissimi,
poteri alle regioni in materia d’istruzione. Per di più in questa
repubblica due aggregati instabili di partiti si contendono il
potere e si alternano nella sua gestione, più o meno animati da
desideri di rivincita e di cancellazione delle norme fatte “dagli
altri”.
Come si ricorderà, il primo centro sinistra, con Berlinguer prima e
De Mauro poi a viale Trastevere, riuscì a varare, ma non a “mettere
in orbita” la legge 10.2.2000 n. 30 sul cosiddetto “riordino”, che
prevedeva due cicli rispettivamente di 7 e di 5 anni. Il successivo
centro destra, nel quinquennio morattiano 2001/2006, iniziato
all’insegna del “punto e a capo”, abolì quella legge, sostituendola
con la legge delega 28.3.2003, n. 53, che, pur nell’ambito di due
“cicli”, recuperava il quinquennio della primaria e il triennio
della “scuola secondaria di primo ciclo”.
Questa legge, tuttora formalmente in vigore, delega il governo a
definire “norme generali sull’istruzione e livelli essenziali delle
prestazioni in materia di istruzione e di formazione”. Così è stato
fatto dalla Moratti, relativamente al primo ciclo, col decreto
19.2.2004 n. 59, solo parzialmente entrato nel costume scolastico. A
questo decreto sono state provvisoriamente allegate le
Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati,
che hanno preso il posto dei precedenti programmi.
Il
ministro Fioroni, nell’intento di superare questa provvisorietà, non
ha voluto né potuto cancellare la legge delega, ma neppure
integralmente applicarla nella direzione voluta dalla Moratti: ha
ascoltato, da un piccolo campione casuale, gli umori degli
insegnanti, ha nominato una commissione di esperti, presieduta da
Mauro Ceruti e coordinata da Italo Fiorin, per giungere ad un testo
programmatico più semplice e accettabile dalla base, affidandole il
compito di fare consultazioni di associazioni e di esperti, ha
“disattivato” alcune norme del decreto 59 (per esempio quelle
relative al tutor e al portfolio, su cui si è lungamente dibattuto),
ha predisposto, sulla base del lavoro della predetta commissione, un
testo dal titolo Indicazioni per il curricolo della scuola
dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, lo ha inviato al
Cnpi, che ne ha dato un primo parere favorevole lo scorso 26 luglio.
Troppo demolitore per alcuni, troppo conservatore per altri, il
Ministro non vuol passare alla storia come un grande riformatore, ma
come un artigiano di buon senso, che ridimensiona i processi
innovativi dei suoi predecessori, per conservarne alcuni aspetti
essenziali e per rimettere in moto la fiducia nella scuola e nel suo
potenziale creativo. Ci riuscirà?
Il
clima in cui piove il nuovo testo programmatico non è dei migliori,
per la stanchezza e la sfiducia diffuse, per lo scarso patriottismo
di molti insegnanti, restii a scorgere la maestà dello stato o
l’autorevolezza della cultura e della pedagogia nelle prose
ministeriali, che tentano, spesso con grande sforzo e buona volontà,
di dare un assetto stabile e convincente al lavoro scolastico. E a
dire la verità, non è facile mettere insieme, in un disegno unitario
e coerente, quanto lo stesso ministro ha avviato sul piano
legislativo e sul piano amministrativo, in cantieri separati, a
proposito di classi primavera, di primo ciclo, di biennio del
secondo ciclo, di nuovi esami di stato conclusivi, di agenzie
nazionali come Invalsi e Indire, di tematiche “trasversali” di
carattere educativo, a cui ha dedicato memorabili interventi, con
direttive e iniziative di notevole impatto mediatico. Intendiamoci:
il governo della Pi non è mai stato facile, come hanno sperimentato
i 32 ministri che hanno preceduto Beppe Fioroni. Ma in passato si
poteva mettere al lavoro una commissione, la più “pluralistica”
possibile, e intervenire solo su un segmento di scuola, lasciando
intatto il resto. Ora sul tavolo della cultura e della politica
scolastica c’è l’intero “sistema educativo di istruzione e
formazione”, mentre l’amore del pluralismo è meno corrisposto di
quanto non fosse nella cosiddetta “prima repubblica”. Sul piano
amministrativo non ci sono oggi direttori generali responsabili
esclusivi dei loro settori scolastici, supportati da esperti di
riferimento, perché ora la struttura è unitaria e unitariamente
dovrebbe lavorare, nelle sue diverse componenti, governative e
amministrative. Anche gli esperti che fanno più o meno
continuativamente parte della galassia ministeriale dovrebbero
affrontare insieme, al di là delle reali o supposte “aree di
riferimento”, le questioni più spinose, alla ricerca di soluzioni
che non siano “di sinistra” o “di destra”, ma valide e ragionevoli.
Per
quanto riguarda il mondo della scuola, al di là di legittime
reazioni volte a discutere e a chiedere spiegazioni, mi sembra
ragionevole che ci si dedichi a studiare i testi ministeriali con
disponibilità a capire, a discutere e ad agire con responsabilità,senza
chiudersi nel recinto dei “Traguardi di sviluppo della competenza”,
rispettivamente collocati al termine della scuola dell’infanzia,
della scuola primaria e della secondaria di primo grado, e
articolati poi per ciascun campo di esperienza (infanzia) e
per ciascuna disciplina (primaria e secondaria di primo
grado), con l’elenco degli obiettivi di apprendimento di
ciascuna classe, per ciascun campo e per ciascuna disciplina. Si
tratterà di valutare in concreto se questi elenchi sono da
considerarsi come risorse che facilitano o come vincoli che
ostacolano il proprio insegnamento: e se gli ampi documenti che li
precedono sono solo prose culturalmente provvedute e politicamente
corrette, o se sono anche chiavi di lettura e “guide dell’anima” per
l’attuazione dei “nuovi programmi”, come si diceva una volta.
Io
mi limiterò a citare alcuni problemi, sui quali mi piacerebbe che si
aprisse un dialogo sincero, sulle riviste e sui siti, e a dare un
breve, iniziale contributo a quella che mi pare “la questione
costituzionale”, a proposito di questi programmi, così come si è
pensato nell’ambito del sottogruppo ministeriale dedicato al tema
Legalità e cittadinanza.
Veniamo alla prima questione di ordine generale. Se il testo
ufficiale sarà quello attualmente disponibile (pubblicato come
inserto nel Quaderno 3/2007, SIM 3 15 settembre 2007, ndr.), lo
schema sarà più semplice di quello tracciato dalle Indicazioni
Moratti.
In quel testo, la selva di sigle rappresentative di altrettanti
passaggi richiesti agli insegnanti per giungere a promuovere e
valutare le competenze dei singoli alunni, a partire dagli Obiettivi
generali del processo formativo e giù giù attraverso le Unità di
apprendimento e i Piani di studio personalizzati, basati sugli
Obiettivi specifici di apprendimento, articolati in lunghi elenchi
di conoscenze e abilità disciplinari, tutto questo, ancorché
ampiamente motivato, è parso frutto di discutibile scelta “a monte”
(si tratti dell’architettura dell’art. 8, o della sua
interpretazione) e troppo complesso o “ideologico” per essere
davvero attuato.
Ci
sono, in quella rigogliosa produzione, alcuni limiti che non hanno
giovato alla sua adozione generalizzata. E tuttavia non vi mancano
motivi alti, che non vanno rimossi solo perché, con quella
formulazione, non hanno avuto successo. Del resto neanche il
“concorsone” per la carriera dei docenti introdotto da Berlinguer ha
avuto successo: ciò non significa però che si debba rinunciare per
sempre a risolvere il problema di collegare il merito con la sua
valutazione. Un solo esempio: lo sforzo fatto dalle Indicazioni
morattiane di tenere insieme i “livelli essenziali di prestazione”
(Lep) a cui sono tenute le scuole, e la libertà dell’insegnante in
ordine alla personalizzazione degli apprendimenti e alla promozione
e alla valutazione delle competenze, risponde ad una ragione
pedagogica importante. Certo, c’è anche un problema di
praticabilità, di consenso, di “accountability”, e di comparazione
dei risultati. Di questo soprattutto sembrano essersi fatte carico
le Indicazioni per il curricolo, anziché per i
piani di studio personalizzati.
E’
noto però che la questione delle competenze non è affrontabile solo
in termini di obiettivi comportamentali da misurare. Se le
competenze sono “combinazioni di conoscenze, abilità, atteggiamenti
appropriati al contesto”, come si legge nel Documento sulle
competenze chiave per il lifelong learning approvato dal
parlamento europeo nel settembre 2006, è difficile promuoverle e
verificarle solo sulla base di elenchi di conoscenze e di abilità.
Le
Indicazioni che giungeranno alle scuole, a quanto è dato ora
capire, hanno il merito d’essere più semplici, di richiedere minori
sforzi ermeneutici di quante ne richiedessero le precedenti. E
questo è senz’altro un bene. Mi chiedo però, a parte l’abbandono di
tutor e portfolio, su cui non mi soffermo, se è proprio vero che
l’idea di un unitario Profilo educativo, culturale e professionale,
è in sé pericolosa e peregrina; e se l’“educazione ai principi
fondamentali della convivenza civile”, prevista dalla legge, può
accontentarsi di qualche onorevole citazione.
Questi principi fondamentali non si trovano solo nei documenti degli
organismi internazionali e nelle coscienze più sensibili
dell’intellettualità internazionale, ma anche, e in una formulazione
singolarmente densa ed essenziale, nel documento fondativo della
nostra repubblica. Il riferimento alla Costituzione non è certo
una novità nelle leggi e nei documenti italiani relativi alla
scuola. Raramente però se ne sono colte, sul piano strutturale e
funzionale, giuridico, politico, pedagogico e didattico, tutte le
implicazioni. Ora ci si trova, per la prima volta nella storia della
repubblica, a disegnare un sistema educativo d’istruzione e
formazione, attraverso norme generali di rango costituzionale,
rivolte alle scuole autonome.
Mi
pare che lo spartito fondamentale a cui la pluralità dei soggetti e
delle responsabilità dovrebbe fare riferimento sia proprio quel
testo, che insieme libera, legittima e orienta. A condizione che
si possa viverlo negli ordinamenti, nella didattica e, in posizione
non marginale, nel curricolo scolastico. Forse sarà bene
riparlarne.
Luciano Corradini è docente all’Università La Sapienza di Roma