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Insegnanti e scuola: risorse per combattere i mali comuni dell’ignoranza e della sfiducia di Luciano Corradini
Dall’osservatorio dell’UCIIM, associazione professionale di docenti e dirigenti fondata nel 1944 da Gesualdo Nosengo, giunta nel 2004 al suo XXI Congresso nazionale, posso testimoniare dell’esistenza di un vissuto associativo consapevole delle difficoltà, ma non rassegnato a soccombere e a rinunciare alle proprie responsabilità, per quanto ridotto e talora quasi inesistente sia lo spazio di partecipazione offerto da questo Governo ai docenti: i soci UCIIM avvertono la fatica, soffrono la caduta di prestigio dell’istituzione e della professione docente, ma non si rassegnano ad attendere che “passi la nottata”. I riferimenti alti al Vangelo, alla Costituzione, ai documenti del Concilio, ci consentono di leggere le difficoltà, le carenze e le emergenze attuali in riferimento a valori e ideali forti e all’onda lunga della storia della Repubblica, non a diagnosi e a prognosi affrettate e ad attese messianiche. La proposta di codice deontologico che abbiamo presentato nel recente congresso e che offriamo alle altre associazioni professionali come contributo ad un’autocomprensione e ad un’autodefinizione del senso e dei limiti dell’operare del docente, non è una fuga in avanti o un’operazione ideologica, ma un frutto dell’impegno serio di chi non si attende tutto dalle leggi e dai contratti, perché conta anzitutto sul senso di responsabilità e sulle energie che sono intrinseche a chi eserciti la funzione docente, colta nella sua radice antropologica. Avendo curato il libro Insegnare perché? Orientamenti, motivazioni e valori di una professione difficile (Collana UCIIM/AIMC, Armando, Roma 2004), che dà conto di una ricerca empirica condotta con un contributo del Ministero dell’istruzione su un significativo campione di docenti in servizio e di frequentanti le SSIS, con un’équipe di colleghi dell’UCIIM, rilevo che la gamma delle condizioni e degli atteggiamenti verso la professione e verso la riforma della scuola è ampia e non riducibile ad una sola immagine. E’ in appendice al citato volume che presentiamo il codice suddetto. E’ indubbio che molti avvertono stanchezza, incertezza e disorientamento per un processo riformatore di cui non si colgono, in profondità, le ragioni, i ritmi e il senso. Nella scuola di base si soffre per un continuo mutare di contesti istituzionali, pedagogici, linguistici; nella secondaria superiore per cambiamenti incombenti, avvertiti più come minacce che come opportunità per gli studenti, le famiglie, i docenti. La richiesta di rispondere alla domanda plurima su chi è legittimato a chiedere agli insegnanti che cosa, perché, con quali risorse, limiti, verifiche e riconoscimenti, non pare destinata ad ottenere risposte certe, chiare e in tempi brevi. D’altra parte l’accoglimento della richiesta, avanzata da qualche forza sindacale e associativa, di azzerare quanto si è fatto per la scuola nei quattro anni di questa legislatura, non sarebbe cosa né tecnicamente né politicamente possibile o almeno opportuna. Non ci sembra sensato rispondere alle difficoltà del guado della carovana verso la scuola e la formazione professionale del nuovo secolo, tornando sempre indietro con dei perentori, illusori, e in ultima analisi dannosi, “Punto e a capo”. Si dovrebbero invece di ripensare fini, metodi, contenuti, ritmi e strumenti del processo riformatore, in termini di equilibrio fra principi affermati e soluzioni escogitate, nell’ambito di un quadro costituzionale che riconosce già spazi rilevanti alle regioni e alle singole istituzioni scolastiche. Non si può dimenticare che la fatica relazionale dei docenti va aumentando, col ridursi dell’autorità familiare e di quella sociale; e che la debolezza delle motivazioni all’apprendimento di cose di cui non si riesce facilmente a cogliere il legame con una possibile attività futura, rende spesso difficili e poco gratificanti sia l’apprendimento sia l’insegnamento. I docenti della nostra indagine hanno tuttavia un’immagine in complesso positiva di sé e del proprio ruolo. Su 9 items proposti, la maggioranza è di coloro che vedono l’insegnante come: 1) “una persona che contribuisce all’educazione delle nuove generazioni”, 2) “un intellettuale impegnato a formare coscienze critiche”, 3) “un cittadino che ha scelto questa professione per assolvere una rilevante funzione sociale”. Se l’86% dichiara che gli piace insegnare, e il 65,3% che sceglierebbe di nuovo questa professione, solo il 39% dice che la consiglierebbe ad un amico. Se nei soggetti interrogati la “passione per la disciplina” e la “passione per la relazione” sono entrambe positive e tendono a bilanciarsi, è anche vero che si ha la consapevolezza del difficile quadro sociologico in cui ci si muove. Abbiamo rappresentato questo quadro con l’immagine di una navigazione che si intraprende con bonaccia e con bassa marea di tipo demografico, ideologico, culturale, civile, amministrativo, finanziario, ma anche con disordine cartografico e incertezza e discutibilità di messaggi provenienti dalla capitaneria di porto. Se non è facile intervenire in tempi brevi e con efficacia su tutte queste variabili, è però necessario che si avverta che il vento dell’ideale e dell’Europa possono di nuovo soffiare nelle vele della scuola. Ci si domanda talora quanto conta la scuola nel Paese e nel Ministero dell’Economia. E’ importante domandarsi anche quanto piace, quanto serve, quanto costa, quanto rende…e soprattutto quanto vale. La pena, a fare scuola e ad andare a scuola, sicuramente c’è, anche se non dappertutto con le stesse tonalità. Se si capisce però che la scuola vale, allora si può concludere che vale la pena andare a scuola e insegnarci. Se si avverte che la scuola vale, allora si troverà anche il modo di investire in essa risorse finanziarie. Ma se le casse sono vuote e l’economia ristagna, l’operazione non sarà breve né indolore. L’importante è che si dia e si riacquisti fiducia in se stessi e in chi governa, in tutte le sedi della nostra complicata “poliarchia”. Lotta decisa ai “mali comuni”, per conquistare gli auspicati “beni comuni” Prioritaria appare in proposito la questione morale. Non si può innalzare il morale depresso se non si eleva anche la morale. E’ questione insieme personale, sociale e politica. “Sortirne da soli è l’avarizia, sortirne insieme è la politica”, diceva don Milani. L’ARDeP, associazione per la riduzione del debito pubblico, ha identificato nel dramma del nostro debito un analizzatore della situazione non solo finanziaria, ma anche economica, sociale, culturale e in ultima analisi morale del nostro Paese. E ritiene che l’obiettivo della riduzione del debito debba giustificare una mobilitazione esplicita e diretta di energie, istituzioni, norme e comportamenti volti ad ottenere risultati credibili e tangibili, con forte discontinuità rispetto alle politiche e del periodo che ci sta alle spalle. Evasione, elusione, ruberie, mafie, sprechi, privilegi, sono facce dello stesso prisma: quello della sfiducia negli altri e nelle istituzioni, di cui non si colgono il senso e il valore. Il PIL non cresce, se non cresce anche il capitale sociale e morale, che si basa sulla conoscenza, sull’esperienza del valore e dell’efficacia dei comportamenti virtuosi, sulla testimonianza, ma anche sull’efficienza di norme, di organi di controllo, di comportamenti seri, trasparenti, rigorosi. L’allora presidente del Consiglio Prodi, al quale dobbiamo l’ingresso nell’euro, ricorderà d’aver ricevuto il consiglio direttivo dell’ARDeP il 29 aprile del 1998, alla vigilia di quell’evento. E ricorderà d’averci promesso d’ascoltarci in sede di elaborazione del programma di un suo eventuale futuro governo. Noi siamo solo una pulce, di fronte a quell’elefante che è lo Stato. Ma mettiamo volentieri a disposizione le nostre punture, per ricordare intanto quello che i giornali non pubblicano. E cioè che non siamo solo il Paese più indebitato e più evasore d’Europa, ma anche l’unico Paese in cui un certo numero di cittadini, su proposta dell’ARDeP, abbia versato all’Erario più di quanto dovuto con le tasse, per segnalare la gravità del debito, e per testimoniare la volontà del riscatto. Chi va sul sito del Tesoro, trova che sono stati versati una cinquantina di milioni delle vecchie lire, nel capitolo abilitato a ricevere le donazioni dei cittadini nel misterioso “Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato”, che significa “per la riduzione del debito”. Abbiamo compiuto un atto “contro natura”, a giudizio dell’attuale Presidente del Consiglio. Bisogna vedere però quale natura si ha in mente; e considerare non solo ciò che è legittimo godersi del proprio lavoro, ma anche la condizione generale del Paese in cui si vive, e di cui si godono i sempre più precari benefici e si soffrono i sempre più incombenti pericoli. Chi ha pagato il biglietto può navigare tranquillo, a meno che la nave non affondi. Abbiamo dimostrato, col nostro esperimento, un teorema non molto popolare: che un certo numero di italiani può campare bene anche con meno soldi, se c’è un grande progetto da attuare e se chi lo propone è credibile. Le lettere di cittadini comuni che sono state pubblicate nel rapporto intitolato La tunica e il mantello. Debito pubblico e bene comune. Provocare per educare, Euroma, Roma 2003, stanno a dimostrare che non rimarrebbe solo chi decidesse di utilizzare il potere per combattere sul serio sprechi e privilegi, per garantire equità, sicurezza e libertà alle nuove generazioni. L’indifferenza, l’assuefazione all’ingiustizia o all’opposto la rabbia e la rivolta eversiva per rivendicare diritti più o meno ragionevoli, sono mali altrettanto gravi quanto la perdita della competitività di importanti settori della nostra economia. La prudenza e la saggezza di chi governa, e deve ottenere il consenso per continuare a farlo, non richiedono la rinuncia a combattere inefficienze di costose macchine amministrative e sacche di privilegio, a cominciare dagli stipendi d’oro di molte categorie di persone. Negli anni scorsi abbiamo incontrato esperti, raccolto articoli, partecipato a incontri, elaborato idee e sentimenti, formulato proposte. Minime cose, a disposizione di chi crede nella possibilità di “sortirne insieme”. |
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