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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

La vita come fatto, come problema e come valore

La vita c'è, ma potrebbe non esserci. Ogni vivente entra in scena, vi resta, in un certo spazio e per un certo tempo assegnati, ma talora anche modificabili da lui e/o da altri, per quella specie di ola nello stadio del mondo, che compie con le generazioni a lui contemporanee, e se ne va, lasciando il posto ad altri.

La vita dei mammiferi è una sorta di staffetta fra le generazioni: ma per gli esseri umani con l'atto generativo non si rende il figlio autonomo, e il genitore non esaurisce la sua esistenza individuale, come avviene per altri viventi. E se l’antica saggezza biblica, per proteggere le nuove generazioni da possibili invadenze parentali dice che queste ad un certo punto “lasceranno il padre e la madre”, per costruire una nuova famiglia, dal momento che “non è bene che l’uomo sia solo”, è anche vero che fissa addirittura in un comandamento il dovere di “onorare il padre e la madre”.

A differenza degli altri viventi, noi ci interroghiamo sulla vita, di cui avvertiamo l'originalità e la precarietà, e cerchiamo di capirla, di valorizzarla, di coltivarla, ma rischiamo anche di non capirla, di sprecarla, di distruggerla.

Non siamo murati nel presente e nel nostro io.  Agostino ricorda che l'animo può distendersi  nel tempo e che noi possiamo rendere presente nella memoria il passato e nell'attesa il futuro.

La vita è traditio, continuità e novità, comune appartenenza e irripetibile presenza, evento inesplicabile e sapienziale conferimento di senso, avventura e racconto. Possiamo ritenerla un dono o una condanna, un'anomalia della materia o l'inizio di un'esistenza senza fine, un carcere o un balcone aperto sull'infinito; sentirci chiamati alla vita da un delicato pensiero d'amore che ci introduce nella vita eterna, o gettati nel mondo dal caso, tenuti in vita come in una prigione e condannati a morte senza colpa. L'educazione deve affrontare non solo questo o quell'aspetto della vita,  questo o quel valore, ma la vita stessa, come bene precario e in certo senso misterioso, condizione e sintesi di valori: bene di cui siamo figli e genitori, testimoni e custodi.

A questa prospettiva si accede però per lo più in modo obliquo, in rapporto a qualche valore o a qualche rischio,  a qualche tragedia che ci colpisce da vicino e che ci fa percepire l'esistenza come bene minacciato, la cui conservazione dipende anche da noi. Nel Canto notturno (vv.39-44) Leopardi coglie un momento delicato del dialogo educativo in rapporto alla vita. "Nasce l'uomo a fatica, ed è rischio di morte il nascimento. Prova pena e tormento per prima cosa; e in sul principio stesso la madre e il genitore il prende a consolar dell'essere nato". E aggiunge, dilatando il concetto a tutta la vita: “Altro ufficio più grato non si fa da’ parenti alla lor prole”. Consolare significa stare con chi è solo. L’intuizione è preziosa, ma non coglie un altro aspetto della vita umana. Dimentica, il poeta, la grande gioia "perché è nato un figlio", uno che prima non c'era e adesso c'è; uno che nel pianto rivela la vita e la lotta per crescere, per essere di più, per sé e per altri: e che, con ciò stesso, consola i genitori e riempie la loro vita di speranza e di voglia di lottare. Con quale prospettiva? Certo non esaltante per chi abbia il sentimento, il pensiero e il bisogno dell’infinito.

Lo stesso Giovanni Paolo II riconosce, nell'enciclica Evangeluum Vitae che "Il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (Gen.2-7; Sap. 9, 2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte, che entra nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo" (cap.7). Combattere le conseguenze raggelanti di quest'ombra del non senso è il compito più delicato e profondo che si assumono la cultura e l'educazione, accendendo e proteggendo i lumini e le fiaccole della ragione e della fede.

La vita e la salute dei minori  (ma anche dei maggiori), sono minacciate non solo dalla guerra, dagli incidenti, dalle epidemie antiche e nuove, dalla fame e dalla mancanza d'acqua e di medicine, ma anche da nuove insidie, che toccano  il corpo, la mente e lo spirito dei ragazzi e dei giovani, soprattutto nei paesi ricchi e sviluppati:  la mancanza di senso e di voglia di vivere o la frenesia del successo e l'attaccamento ossessivo all'immediato (sicurezze, piaceri, emozioni) sono le nuove malattie, di fronte alle quali la società e la scuola devono misurarsi, se sviluppano la coscienza della posta in gioco e le risorse necessarie a promuovere salute e motivazioni idonee a “vivere bene”, più che a limitarsi a perseguire il “benessere”.

E per i vecchi le malattie oncologiche e quelle neurologiche, con i loro devastanti risvolti di tipo psicologico, impongono talora in modo improvviso la necessità di ristrutturare  l’esistenza e le priorità di un’intera famiglia, in un contesto demografico ricco di anziani longevi e povero di giovani, sempre più inadeguato ad affrontare le emergenze proprie delle nostre società sviluppate.

 

L’aiuto a “venire al mondo” e ad “andare all’altro mondo”

Nascite e morti, amore e odio, costruzione e distruzione, nelle forme più razionali, entusiasmanti, eroiche, ma anche più turpi, inquietanti, oscure, accompagnano l'esperienza quotidiana di ognuno, che resta spesso solo, quando più ha bisogno di capire, di farsi una ragione, di trovare dei motivi per lottare e per rispettare le "regole del gioco", o per contribuire ad inventarne di nuove. Chi potrebbe e dovrebbe assicurargli una provveduta compagnia, resta spesso estraneo e indifferente, sentendosi talora impotente e incompetente.

Sicché la vita non è uguale per tutti, ma per tutti assume, prima o poi, la struttura di una sfida. Una sfida che la vita lancia a noi, dato che ci ha messi al mondo senza sentire in proposito il nostro parere (e come avrebbe potuto?); una sfida che noi lanciamo alla vita, a quella vita che siamo noi, che sono gli altri, che è il mondo: una realtà globale di sogni e di possibilità, ma anche di ostacoli interni ed esterni: ostacoli che in certo senso sono vita, in certo senso sono la sua negazione.

Socrate col suo interrogare aiutava le persone a partorire da sé la verità, come la levatrice aiuta la partoriente. Questo sospingere verso la vita, inducendo il piccolo ad abbandonare il ventre materno, è un aiuto a vivere, anche se appare una forma di violenza. E tutti ricordano il suo ragionare con gli amici e con i discepoli davanti alla cicuta, accettata volontariamente per testimoniare la verità e la giustizia, anche di fronte ad un’ingiusta condanna.

Per lui vivere significava prepararsi a morire bene, cioè prepararsi a “passare di là”, così come nello stadio prenatale vivere significava prepararsi a “passare di qua”. Non lo diceva in una prospettiva pessimistica, né sulla base di una rivelazione divina. Prendeva atto di un limite e della possibilità di pensare oltre quel limite, in riferimento sia a quello che può accadere all'uomo dopo lo scioglimento dal corpo, sia a coloro che restano dopo la nostra morte. Nel momento in cui tu finirai, chiede in sostanza, che cosa vorresti avere fatto? chi vorresti essere stato? come vorresti che ti ricordasse la gente?  

Ciò presuppone naturalmente che non si pensi solo a se stessi, qui e ora, ma anche agli altri, altrove e dopo. Si tratta insomma di affrontare anche i "pensieri della notte", ma di non restarne prigionieri. L'amicizia, la comunicazione, la cultura, l'educazione ci aiutano a ritornare ai "pensieri del giorno". Il quale non si conclude a mezzanotte, come la giornata astronomica, ma comprende tutta la “giornata terrena” concessa a ciascuno di noi. Sicché il carpe diem oraziano non va inteso come l’attimo fuggente, che non ci responsabilizza, perché si consuma e si distrugge mentre passa, ma come il tempo di vita terrena, che  ricordiamo, che viviamo e che ricorderemo, noi e gli altri che verranno dopo di noi. Al termine della quale vita, come all’inizio, c’è bisogno di aiuto: aiuto a venire a questo mondo e aiuto a lasciarlo, per andare nell’altro mondo, quale che esso sia.

 

Lo sguardo verso chi arriva in questo mondo e verso chi ne parte

Un film di Frank Capra immagina che due bambini non ancora nati si diano da fare per fare incontrare i loro futuri genitori e per potere in tal modo venire al mondo. E’ un’idea divertente, che ha il merito di rendere il problema dei figli non solo accessorio e appendicolare nei riguardi di genitori preoccupati solo della loro felicità.

Vi sono anche giovani coppie che registrano prima del matrimonio discorsetti rivolti ai loro futuri eventuali figli. E’ questo un "gioco" che nasconde motivazioni profonde, che hanno a che fare con un desiderio o con una volontà di anticipare i gli eventi con l’affetto e con la ragione, di fasciare questo misterioso fenomeno della vita, che erompe e sparisce come un evento sottratto al nostro controllo, con un pensiero ed una voce che lo accolgano e possibilmente restino nell'aria anche dopo l'ultimo definitivo silenzio.

 

Tutta la cultura è sforzo per rischiarare il buio dell'origine e quello della fine, e per riempire, col canto della poesia, col sapere della filosofia e della scienza, o con l'invocazione della preghiera, quello che Foscolo chiamava "di mille secoli il silenzio".

E la pedagogia, sollecita di questa capacità dell'uomo di articolare pensieri, di emettere suoni, di scrivere messaggi, e di proiettarsi, nel dialogo, con la memoria, l'intelligenza e l'immaginazione, più indietro e più avanti che può, si affatica là dove non sorge ancora o si spegne la voglia di parlare, di capire, di comunicare, di trascendersi, là dove i fatti sembrano privi di ragioni e dove tutta la vita sembra priva di senso.

La sofferenza e la gioia connesse con questo sforzo di tenere insieme istanze diverse, personali e familiari, vitali e istituzionali dipendono dalla logica della  relazione educativa. La quale consiste nel non restar prigionieri dell'io, del qui e dell'ora, ma nel tener ferma la possibilità di rispettare, ma insieme di cambiare, nel dialogo,  tutte le cose, ossia nella possibilità di essere e di diventare diversi, e cioè migliori, perché nessuno si riduce a quello che è stato, perché nessuno è tutta la verità o tutto l'errore, perché qualcosa  consente sempre di riaprire i giochi, fin che la vita e la ragione ci assistono.

Questo qualcosa è il punto di vista che consente di continuare a lavorare anche quando non si vedono risultati, a credere anche quando si è rimasti delusi, a lottare anche quando si è perduto. E' forse anche la capacità di ripetere, con Tagore, che "ogni bambino che viene sulla terra viene a dirci che Dio non è ancora stanco degli uomini". Possiamo aggiungere che ogni anziano malato che non ha ancora abbandonato questa terra ci dice che non si è ancora completato il percorso di vita che Dio ha pensato per lui e per il senso complessivo del mondo.

Anche se noi ci stanchiamo di noi stessi e di quelli che ci stanno accanto. Anche se dobbiamo soffrire per far nascere i figli e per educarli, continuando il lavoro della levatrice, come ricordava Socrate; e soffrire per accompagnare i padri e i nonni al termine di questa vita, e per essere accompagnati a questo traguardo da figli e nipoti, anche quando si vorrebbe non essere di peso a nessuno.

Educare viene probabilmente da edere, che significa mangiare, come alunno viene da àlere, alimentare, dar da mangiare; ma lo si è fatto derivare anche da educere, che significa tirare fuori. Il compito di chi educa non si conclude però con l’espressione asciutta che Dante mette in bocca al suo maestro: “Messo t’ho innanzi; omai per te ti ciba”. E’ questo il POF, piano dell’offerta formativa. In realtà bisogna anche saper non solo “offrire”, ma anche “soffrire” con gli educandi. Per Buber il punto di Archimede che ci consente di sollevare il mondo è il lavoro che possiamo fare in noi stessi, a beneficio degli altri.  

Sta di fatto che non si darebbe pedagogia senza quel continuo protendersi verso l'altro e verso il meglio che si chiama educazione; e non si darebbe educazione se non si nutrissero la speranza e la fiducia che la comunicazione promozionale dispone di qualche efficacia, anche se, in ultima istanza, non sappiamo quanto né come.

C’è un momento cruciale, ancora scarsamente tematizzato e approfondito, nel quale l’educazione è chiamata in causa: è appunto quello in cui occorre aiutare ad accettare la morte, o anche una vita che non trova più giustificazione nel piacere funzionale del vivere e del progettare, come membri attivi di una comunità con la quale e per la quale lottare: una vita che confina con la morte, passando attraverso un tunnel di sofferenza, non si sa quanto lungo.

Anche in questo caso c’è bisogno di un aiuto a passare nell’altra vita, come c’è stato bisogno di un aiuto a passare dal seno materno a questa vita.

La psicologia e la psicanalisi, l'arte e la filosofia colgono per diverse vie i mondi interiori ospitati in questo cosmo vivente che è ciascuno di noi: ma tutta questa meraviglia,  a cui ha posto mano cielo e terra, può deformarsi, disgregarsi e scomparire per l'arrivo di un microscopico virus, o per un confondersi della visione e degli affetti che accompagnano lo svolgersi dei processi biologici. E' questa la visione fenomenologico-esistenziale della vita, le cui categorie "patetiche", e cioè cariche di risonanze interiori, di domande e di attese, sono: "nascita, morte; crescita, maturità, declino; vocazione, speranza, angoscia, destino; effimero, ricordo, struggimento, rimpianto; realizzarsi, avere significato, lasciare una traccia, non essere stato invano; e poi le modalità dell'incontro e del rapporto con le altre vite, percepite anch'esse come esistenze, gli affetti, le amicizie, gli amori, i commiati".

L'uomo sa di esserci, le galassie non lo sanno: l'uomo lo sa e si stupisce, perché non si è fatto da sé (e come avrebbe potuto?) e non può disporre della sua vita se non per un tempo brevissimo, quasi impercettibile, sull'orologio dell'universo. Perché questa convocazione tanto breve e drammatica, sulla scena del mondo? Per giocarvi quale ruolo? Per attuarvi quale disegno? Qualcuno di fronte a queste domande si sdegna o si dispera o rimuove il problema, nel frastuono della vita attiva e del divertimento. Ma il problema prima o poi si ripresenta. Perché conoscere l'essere, avere l'idea dell'universale, dell'eterno, dell'infinito, se si deve finire e chiudere la propria esistenza "in sì breve sponda?".

Qui soccorre, per chi può, la fede. "La fede, chiarisce Lombardi Vallauri, vede il mondo alla rovescia. La vida es sueno:: dalla vita che è sogno ci sveglieremo alla vita che è realtà. Diremo: era solo un sogno. Vedremo come stanno veramente le cose. Si ridimensioneranno incredibilmente tutti i valori. La grandezza umana: era un sogno. La sofferenza, il fallimento, l'orrore: era soltanto un brutto sogno. Ecco quello che contava: la buona volontà. Ecco quello che conta: la gloria di Dio, il dono di Dio. Mistero della vita umana: dalla cellula alla gloria".

Concludo questo discorso, citando un illuminante e suggestivo messaggio, che conduce ad un notevole livello di semplicità e di chiarezza alcune intuizioni e speranze serpeggianti nel nostro tempo. Si tratta di un inno alla vita e di una sfida lanciata non solo verso il post-moderno, ma verso ogni tentazione di chiusura, di rinuncia e di disperazione nei confronti di quel mistero terribile e mirabile che è rappresentato dalla realtà diveniente della vita umana. E' di Teresa di Calcutta, la piccola donna beatificata da Giovanni Paolo II, un altro grande vecchio che ha dato, vivendo e morendo, testimonianza alle affermazioni contenute nel testo che segue.

In riva al Gange, presso un lebbrosario, parecchi anni fa, quando era ancora giovane, Teresa scrisse questo testo, che va dritto al cuore del nostro problema, dilatandone i temi, le tonalità, le prospettive: "La vita è opportunità, coglila; bellezza, ammirala; sogno, fanne una realtà; sfida, affrontala; dovere, compilo; gioco, giocala; preziosa, abbine cura; ricchezza, conservala; amore, godine; mistero, scoprilo; promessa, adempila; tristezza, superala; inno, cantalo; lotta, accettala; tragedia, afferrala corpo a corpo; avventura, rischiala; felicità, meritala; la vita è vita, difendila"

I versetti di questa lirica, caratterizzati da una raffica di imperativi categorici,  non sono certo deducibili da alcuna scienza empirica, ma  non sono campati per aria: essi sono stati sperimentati come ipotesi ardita e hanno dato frutto in un consistente numero di persone, in diverse parti del mondo.

Il loro contenuto può essere considerato come un'analisi fenomenologica della vita umana e come un complesso di "regole per l'uso" di quegli "oggetti misteriosi" che siamo noi: è perciò insieme uno sforzo d'interpretazione della realtà e un messaggio educativo "ad personam". Fra tutte le categorie qui prese in considerazione, una sola è di fatto agita e non dichiarata. Riguarda appunto l'educazione. Per esplicitarla, si potrebbe dire: la vita è relazionalità asimmetrica: educa e lasciati educare.

Sotto questa cifra dell'educazione possiamo concludere veramente, con la suggestiva sintesi auspicativa di Lombardi Vallauri: "Possiamo, educandoci strenuamente a prendere le cose dal lato giusto, giungere non solo a pensare o credere, ma anche a sperimentare direttamente, che la Vita nel suo insieme - orrori e dolori della vita morale compresi - è un immenso congegno pedagogico finalizzato alla nostra crescita sapienziale".

(Luciano Corradini. Sintesi e rielaborazione di un capitolo di  Essere scuola nel cantiere dell’educazione, SEAM, Roma 1996)

 


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