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MENTI CURIOSE ovvero PRENDERE SUL SERIO I BAMBINI E INSEGNARE SCIENZA Eleonora Aquilini[1]
Questa frase è tratta dal libro “Menti curiose” a cura di John Brockman, una raccolta di saggi di scienziati a cui sono state poste queste domande: “ Cosa, nella tua infanzia, ha fatto sì che dedicassi tutta la vita alla scienza? Che cosa ha fatto nascere l’interesse per il tuo attuale campo di ricerca e ti ha fornito l’ispirazione per diventare la persona che sei? Chi erano i tuoi genitori, i tuoi compagni, i tuoi mentori? Quali sono stati i punti di svolta, le contiguità, le influenze, le rivelazioni, gli incidenti, le pressioni, i conflitti, gli errori?” [3] Ho letto subito il saggio- biografia di Alison Gopnik perché conoscevo il libro Tuo figlio è un genio, di cui è coautrice. Detto per inciso, il titolo del libro può ingannare sul contenuto: non si parla dei bambini prodigio ma delle straordinarie capacità di apprendimento di tutti i bambini. La Gopnik, ora docente di Scienze cognitive al Dipartimento di Psicologia all’Università della California, a Berkeley , racconta di dovere tutto alla sua famiglia d’origine, con tanti fratelli e sorelle e due genitori quasi fanatici della cultura. Mi ha colpito la descrizione delle famiglie numerose nella quale mi sono ritrovata: sono famiglie in cui c’è un’assunzione precoce di responsabilità verso i fratelli più piccoli, una specie di supplenza genitoriale. La conseguenza è quella di non essersi sentiti mai bambini, né di ripensare mai se stessi come tali. Solo all’ultimo figlio, aggiungo, è consentito di essere bambino e lo rimane, nel ricordo di tutti, per sempre. L’avere sempre un piccolo di cui prendersi cura può predisporre a lavori che contemplano l’attenzione per gli altri come l’insegnamento, ma anche alla fuga, da adulti, da qualsiasi forma genitoriale (conosco più di un figlio di famiglia numerosa che non vuole figli) . C’è comunque un rischio nell’esercitare il ruolo di genitori prima del tempo, sia che si scelga l’una o l’altra strada , quello di cercare per tutta la vita quello che è mancato al momento giusto: qualcuno che s’interessi a noi, che ci prenda sul serio, che ci ammiri e ci assecondi.[4] L’aver sviluppato un sesto senso per i bisogni altrui, con il sostegno emotivo dei genitori ( sotto forma di autentica attenzione) può portare a forme d’interazione empatiche con i bambini, senza retroscena narcistici, come mi sembra di capire sia il caso di Alison Gopnik. L’autrice rintraccia infatti le motivazioni dell’interesse per le scienze cognitive nella sua attrazione infantile per i bambini che per lei “sono stati la più sorprendente, imprevedibile ed interessante delle compagnie”[5]. Certo l’educazione, libera e informale a cui hanno contribuito i suoi genitori assetati di cultura per se stessi e per i figli, è stata fondamentale per la sua formazione di psicologa cognitiva, visto che anche i suoi fratelli e sorelle, hanno sviluppato particolari talenti all’interno della famiglia. Sono stati quindi bambini a cui sono state date delle opportunità e che sono stati presi sul serio.
Lo scienziato come bambino non il bambino come scienziato A volte la voglia di prendere in considerazione i bambini porta a delle affermazioni che non sono non sono vere e hanno conseguenze negative sull’insegnamento. Si sente spesso dire, che siccome bambini e scienziati mostrano curiosità per il mondo naturale e provano autentica gioia e soddisfazione dopo una scoperta, i bambini sono come gli scienziati. Le considerazioni riportate a questo proposito in Tuo figlio è un genio mi sembra possano chiarire le somiglianze e le differenze. Vediamo alcune delle somiglianze: “Diversi psicologi dell’età evolutiva hanno recentemente proposto l’ipotesi che quel che fanno i bambini assomigli sorprendentemente a quel che fanno gli scienziati. I bambini creano e modificano teorie nello stesso modo in cui gli scienziati creano e modificano teorie. .….Noi pensiamo che alcuni degli strumenti usati da bambini e scienziati sono effettivamente gli stessi. Gli scienziati sono bambini grandi. Sono così bravi ad imparare perché usano le capacità cognitive che l’evoluzione ha progettato perché venissero usate dai bambini….come i bambini hanno del mondo rappresentazioni, complesse, astratte, coerenti. Elaborano teorie. Le teorie traducono gli input – l’evidenza da essi raccolta- in rappresentazioni più astratte della realtà……Inoltre le teorie vanno oltre l’evidenza su cui si basano. Vale a dire che mettono gli scienziati in grado di fare nuove predizioni su cose che non hanno mai visto., proprio come i bambini possono fare nuove predizioni mediante le loro rappresentazioni. Queste predizioni permettono agli scienziati , e ai bambini, di avere un influsso più efficace e incisivo sul mondo..”[6] Vediamo ora le differenze sostanziali: “…Ma le contingenze storiche, circa cinque secoli fa , diedero a molti più adulti l’opportunità di conoscere il mondo. Inventammo istituzioni che ricreavano le condizioni dell’infanzia: tempo libero protetto e i giusti giocattoli. Sono queste istituzioni che chiamiamo scienza. Cinque secoli fa un’attività naturale dei bambini fu trasformata in un’attività di adulti organizzata a livello istituzionale. Naturalmente, questa trasformazione , determinò molte differenze fra quel che fanno i bambini e quel che fanno gli scienziati. Forse quella più importante è che i bambini inventano teorie su oggetti vicini, comuni, di medie dimensioni, compresi gli adulti. Di conseguenza sono letteralmente immersi nell’evidenza che riguarda le loro teorie. Tutto quello che hanno bisogno di sapere è alla loro portata. Al contrario gli scienziati spesso inventano teorie su oggetti che sono molto piccoli oppure molto grossi, nascosti o rari o irraggiungibili, come stelle lontane o malattie elusive, e l’evidenza relativa è spesso scarsa.”[7] Inoltre si deve aggiungere che le teorie con le quali gli scienziati guardano il mondo sono di natura molto diversa da quelle del bambino non solo neonato o infante ma anche dell’adolescente. E’ la natura diversa delle teorie che fa la differenza, il loro grado di astrazione, la consapevolezza nel loro uso e nella loro scelta , gli oggetti d’indagine e di studio. Le teorie dello scienziato sono prodotti di elaborazione molto sofisticata e anche se bambini e scienziati “formulano teorie, fanno e verificano predizioni, cercano spiegazioni , compiono esperimenti e modificano quel che sanno alla luce della nuova evidenza”[8] non possiamo concludere che i bambini siano scienziati. Se ci si preoccupa di ciò che i bambini possono apprendere a scuola , se ci si vuol prendere cura di loro da questo punto di vista, occorre tenere presente che anche bambini più grandi dei neonati sono immersi nella concretezza e nell’evidenza che riguarda le loro teorie e solo mantenendo l’insegnamento sul piano della concretezza e dell’evidenza si riesce a raggiungere i bambini nel loro livello mentale di acquisizione e di rielaborazione. Proiettarli precocemente nel mondo astratto degli scienziati può significare accompagnarli verso un mondo senza significato.
Cosa vuol dire prendere sul serio i bambini? Io credo che i bambini abbiano il diritto di essere presi sul serio e che noi adulti abbiamo il dovere di farlo, sia come genitori che come insegnanti. Scrive Nicholas Humphrey, psicologo teorico,[9] in un altro saggio del libro Menti Curiose: “ Ciò che ho tratto dall’ambiente della mia infanzia è stata la sensazione di un diritto acquisito sul piano intellettuale: il diritto di fare domande, di esprimere curiosità, di provocare, di andare dove volevo in nome della conoscenza. Da ragazzo mi colpivano le parole stampate sulla prima pagina del mio passaporto inglese: la rivendicazione che il titolare dovesse < passare liberamente senza alcun impedimento >. Sono cresciuto con l’idea di possedere una simile autorizzazione per esplorare qualsiasi luogo scegliessi……..L’interesse nei confronti dei segreti della natura può muovere da basi svariate e differenti, ma nulla è paragonabile , ho il sospetto, alla sensazione di avere una sorta di diritto di signoria ancestrale”.[10] Questa apertura verso la conoscenza, fino all’acquisizione della certezza di poter accedere a mondi ignoti a cui si è spinti dalla curiosità, con la certezza che gli altri, gli adulti, lo permettano, non è cosa da poco. Non è infatti scontato che la risposta degli adulti sia adeguata alla richiesta. A scuola l’adeguatezza della risposta s’identifica con la qualità dell’insegnamento. La comprensibilità della risposta, la capacità d’interagire con le conoscenze pregresse, costituiscono la base per generare nell’alunno altra curiosità che genera altre domande. Se anche le risposte successive s’innestano su un tessuto conoscitivo, si ha rielaborazione e costruzione di significati. Se si riesce ad andare non troppo al di là di quello che gli alunni possono comprendere e assimilare allora questo modo d’interagire contribuisce a rendere sicuri di sé gli alunni. Si passa infatti dalla percezione della possibilità d’imparare a quella del diritto d’imparare di cui parla Nicholas Humphrey. Infatti se si resta sul terreno dell’accessibilità cognitiva della risposta si sconfigge pian piano il meccanismo per cui, non si chiede perché tanto non si capisce. Quando le risposte non sono appropriate alla mente dei bambini allora dopo un po’ si rinuncia a chiedere e si rinuncia a capire. Questo genera sfiducia prima di tutto in se stessi. La curiosità dei ragazzi è spesso genuina ma generica. Ad una curiosità generica l’insegnante deve dare una risposta specifica che tenga conto dell’età cognitiva degli alunni, non deve sbagliare. Nel caso delle scienze spesso e volentieri accade che nella scuola di base la risposta andando al di là della comprensibilità , magari affascina ma non costruisce nulla. E’ importante invece impostare il lavoro sull’ utilizzo di percorsi motivanti che stimolino curiosità e attenzione, che abbiano per oggetto lo studio di fenomenologie semplici su cui ci si possa interrogare e su cui sia possibile dare risposte verificabili[11].Occorre che il lavoro per stimolare nuovi perché, non sia casuale ma pensato, costruito, avendo come riferimento anche l’architettura di conoscenze che può essere in linea di principio degli alunni di una determinata età. Occorre tuttavia la flessibilità di cambiare rotta, di tornare indietro, di rispettare le individualità, di mettere anche in gioco anche se stessi nell’educazione.
Prendere sul serio anche gli sbagli dei bambini Scrive Alice Miller “ E’ un bisogno originario del bambino l’essere considerato (e preso sul serio) per quello che è di volta in volta e come centro della propria attività…..Con l’espressione < quello che il bambino è di volta in volta> intendo i sentimenti, le sensazioni e la loro espressione fin dai primi mesi di vita” .[12] Non si può pensare che l’alunno mantenga intatta la sua capacità di sentirsi al centro della propria attività, di esserne padrone se l’insegnante lo redarguisce ad ogni errore. Il bambino si decentra e l’attività perde di significato . Penso che la metodologia delle cinque fasi [13] sia particolarmente significativa, nell’ambito dell’insegnamento scientifico per la scuola di base, perché elimina il meccanismo perverso della “penalità” che segue allo sbaglio perché il lavoro nella scuola di base si sviluppa tramite definizioni operative che si costruiscono grazie al contributo di tutti gli alunni. Dopo l’esecuzione dell’esperimento, inizia la riflessione sull’esperienza: si descrive, si individuano somiglianze e differenze, si inizia a stabilire quella rete di connessioni che permetterà poi di giungere alla consapevolezza delle relazioni che caratterizzano un fenomeno. E’ fondamentale in questa fase che si scriva per mettere ordine nei pensieri, per passare da percezioni e considerazioni soggettive ad un primo tentativo di oggettivazione; non importa in questo caso che si scriva bene dal punto di vista formale. Le considerazioni in questi scritti sono molto vicine al senso comune, le espressioni sono spesso dialettali e “familiari”, ma l’importante è che si colgano gli aspetti significativi del fenomeno descritto. Si mette ordine anche individuando le sequenze temporali dell’evento che si sta studiando. Poi si ha la fase della discussione collettiva. Questa è’ la fase del confronto fra pari e con l’insegnante che fa in modo di indirizzare la discussione verso una elaborazione significativa delle osservazioni fatte. Ognuno qui confronta le proprie convinzioni, il suo modo di vedere le cose, e le riconsidera, le rielabora tenendo conto di quelle degli altri. E’ importante sottolineare che tutte le idee hanno uguale diritto di cittadinanza, tutte possono essere messe in discussione da tutti. Nella discussione collettiva vince la ragionevolezza, la condivisione, il convincimento dopo prove ricorrenti. La quarta fase è quindi quella dell’affinamento della conoscenza che si traduce nella revisione della parte scritta: si corregge, si rivedono le proprie posizioni riscrivendo le frasi in modo aderente alle nuove acquisizioni. Non si parla di errori ma di interpretazioni diverse che sono oggetto di nuove ripensamenti e di nuove rielaborazioni per tutti La quinta fase è stata introdotta perché non tutti i bambini riescono a fare una sintesi scritta chiara dal punto di vista del contenuto e con un linguaggio corretto. Allora l’insegnante alla fine dell’attività che porta ad una conclusione condivisa, utilizzando tutto il materiale prodotto fa una sintesi scritta che gli alunni trascrivono sul quaderno; in questo modo tutti i bambini hanno la definizione conquistata in modo operativo in una forma linguisticamente corretta. Io credo che questo sia un modo di lavorare che prenda veramente sul serio i bambini con le loro individualità, con la loro affettività, con il loro bisogno costante “di stare al centro” e che faccia acquisire col tempo la certezza del diritto di fare domande, di esprimere curiosità, di provocare, di andare dove si vuole in nome della conoscenza. [1] Vicepresidente nazionale DD-SCI [2] J Brockman, Menti curiose, Codice, 2005, Torino, p.51 [3] Ibidem, p. X [4] Alice Miller, Il dramma del bambino dotato, Bollati Boringhieri,1988, Torino, p.20 [5] J Brockman, Op.cit., p.49 [6] A. Gopnik, A.N. Metzoff, P.Kuhl, Tuo figlio è un genio, Baldini & Castoldi, 2000, Milano, p.194-195 [7] Ibidem, p.199 [8] Ibidem, p.201 [9] N.Humphrey, School Professor alla London School of Economics e professore di psicologia alla New School for Social Research.E’ conosciuto a livello internazionale per i suoi studi sull’evoluzione dell’intelligenza e della coscienza umane. [10] J Brockman, Op.cit., p.11 [11] C. Fiorentini “Quali condizioni per il rinnovamento del curricolo di scienze?” in L’arcipelago dei saperi (a cura di) Franco Cambi, Firenze, Le Monnier, 2000. [12] A. Miller, Op. cit., p.19 [13] C. Fiorentini, Il ruolo del laboratorio nell'insegnamento scientifico. 2 Una proposta metodologica per il primo ciclo di istruzione, Scuola e Didattica, 2005, n. 11, pp. 31-40. |
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