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IL “NUOVO” ASSETTO DEI LICEI IN NOME DI ARISTOTELE E SOTTO IL SEGNO DI GIOVANNI GENTILE di Paolo Citran La configurazione del nuovo assetto liceale appare viziata da un approccio passatista e da un dogmatismo che contraddice all’enfasi sulla problematicità e sul senso critico, facendo temere che si ritorni al solito oblio per la contemporaneità. Approvata dal Parlamento la legge-delega di Riforma della Scuola, ormai n.° 53/2003, continua a mezzo Internet la telenovela morattianbertagnesca che rischia di trasformarsi in un mosaico ancor più interminabile di quello, rimasto incompiuto ed intenzionalmente fatto abortire dall’attuale Ministro, di Berlinguer e di De Mauro. E’ comparso infatti nel web un nuovo piccolo tassello del puzzle: I Licei nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione. Porremo qui attenzione essenzialmente alla prima parte di questo documento, un cappello molto accurato di una prosa in cui crediamo riconoscere la mano del professor Bertagna, a cui fa seguito un Profilo educativo, culturale e professionale dello studente alla fine del secondo ciclo. Integrazioni per i Licei (su cui forse potremmo tornare in un successivo momento), che pare essere l’unico frutto della maxiconsultazione della commissione dei 250 (attenzione! una nuova sigla da ricordare: il Pecup).
Ritorno ad AristoteleCon la premessa di voler idealmente collegare la futura “scuola liceale” italiana alle sue “origini ideali, quel Liceo di Atene dove insegnò Aristotele”, l’estensore del testo costruisce una discorso in una prosa che ha lessicalmente e concettualmente movenze propriamente aristoteliche (al punto, per fare un esempio, di ricorrere preziosisticamente - in uno sfoggio di erudizione inessenziale - alla distinzione tra genere prossimo e differenza specifica, rapprentando il primo concetto logico il Liceo, l’aggettivo che lo qualifica (classico, scientifico, economico, ecc.) il secondo . Ciò ovviamente non può certo considerarsi casuale: ci sembra infatti di riscontrare significative consonanze tra l’antropologia aristotelica e quella morattianbertagnesca.
Antropologia aristotelica e sistema scolastico-formativo duale
La concezione
antropologica di Aristotele distingue
innanzitutto fra uomini liberi per natura ed uomini schiavi
per natura. Sono schiavi per natura coloro che sono destinati per
loro intrinseca essenza ad attività meccaniche ed utilitarie
considerate ignobili, sono liberi per natura coloro la
cui essenza umana più elevata permette di dedicarsi ad attività
nobili. Questa seconda categoria di
uomini si divide a sua volta in due sottoclassi: coloro che si
dedicano alla vita attiva, cioè alle attività pubbliche in
campo politico-sociale, e coloro che si dedicano alla vita
contemplativa (theoria), la quale
rappresenta il massimo livello di dignità e di felicità perseguibile
dall’uomo. Esplicita invece il discorso della licealità come “orientata espressamente alla theoria, ovvero al conoscere fine a se stesso”, il cui “fine specifico si colloca nel ‘vedere conoscitivo’”: il Liceo “trova la sua causa finale – altro termine / concetto aristotelico rispolverato per l’occasione – nella theoria”, cioè nell’essere “filo-sofi”, “che è vivere amando il sapere e perfezionandosi sempre di più, come persone, attraverso esso”. In realtà il documento ministeriale non esclude che alla theoria si colleghino attività, la techne di cui parla il testo, anche se il non plus ultra sembra la vita totolmente contemplativa. Come pensava Aristotele, la vita contemplativa è comunque superiore alla vita attiva, per esempio alla vita politica, perché solo la prima è, oltre che disinteressata, scevra di preoccupazioni. E compito dei Licei è fornire le competenze teoretiche.
La civiltà classica riferimento costitutivo della licealitàIl richiamo alla tradizione, ed in particolare alla tradizione classica, è struttura portante senza cui non si dà licealità: “per ogni Liceo, vale il criterio di riscoprire nella cultura classica l’origine della cultura europea e delle stesse matrici dei punti di vista disciplinari specifici che lo caratterizzano”: E qui viene l’inatteso: “(…) nella consapevolezza che tale cultura trova il suo naturale terreno di elezione e di compiuta maturazione nel Liceo classico”. E’ il Liceo classico che attua più di ogni altra scuola la vita contemplativa, la theoria. Vale appena la pena marcare il conservatorismo - che rischia di essere veramente bieco - di questa posizione. E’ il Liceo classico quello che forma il livello più alto di umanità! Dopo Aristotele, la pedagogia morattianbertagnesca, ha un secondo nume tutelare.
Ritornare a Gentile?Il Liceo classico, infatti, rappresenterebbe ed incorporerebbe la quintessenza della licealità. Ma questa era esattamente una delle idee centrali alla base della Riforma Gentile del 1923: per Gentile, che voleva aristocraticamente poche scuole ma buone, la scuola che aveva il compito di formare la classe dirigente, la scuola più potentemente formativa, quella che sola permetteva l’accesso a tutte le facoltà universitaria, era il Liceo classico. In fondo in fondo per molti aspetti la nuova Destra non fa che riproporre un semplice aggiornamento della posizione della vecchia Destra, prima liberale e poi fascista, incarnatasi in Giovanni Gentile.
Così in nome della
classicità si rischia di far fuori la contemporaneità. Il dubbio ci viene.
Un “sano” dogmatismoNonostante il marcato richiamo all’acquisizione di spirito critico ed all’apertura alla problematicità, ancora una volta troviamo un approccio epistemologico dogmatico: ci sembra manchi in questo come in altri analoghi testi l’accettazione del carattere interpretativo e poliprospettico del sapere umano. L’interpretazione deve approdare necessariamente, a quanto pare, alle “cose stesse”: non sembra esserci l’idea che non ci sia dato conoscere “la cosa in sé” di kantiana memoria, l’idea che il sapere è sempre interpretazione.
Non sembra neanche
possa essere messa in dubbio “l’unità
della cultura” e con essa – ci sembra –
l’unità del sapere. Alla faccia della problematicità! Non sorge il
dubbio che il destino della nostra cultura non sia automaticamente
conforme ad un’armonia prestabilita fra i saperi che in questo
documento sfugge ad ogni dubbio; che il
sapere non possa essere anche, nella
postmodernità, un sapere frammentato che all’unità può più
facilmente aspirare che pervenire. Certo andrà bene alle scuole paritarie cattoliche. Per la Formazione Professionale il problema non si porrà.
RISPONDE IL PROF. LUCIANO CORRADINI
Il pezzo di Paolo Citran è sicuramente brillante e colorito. Mi pare però che la sua interpretazione vada al di là dell'uso che il pensiero di Bertagna (non oso interpretare quello della Moratti, che solitamente non si avventura sui sentieri della metafisica), a proposito della visione dalla scuola e della formazione professionale. C'è un aristotelismo che ha infiacchito il pensiero dell'Occidente, ha legittimato la schiavitù, ha ostacolato la nascita della scienza, e ce n'è un altro che ci ha consentito di fondare la dignità della persona umana, contestando le derive panteistiche di Averroè. Allo stesso modo c'è un gentilianesimo che ha legittimato il fascismo e la selezione scolastica in termini sociologici, e ce n'è un altro che ha portato aria buona nell'atmosfera stagnante di un positivismo dogmatico. Io spero che si possa citare Aristotele, Gentile, Nietzsche e Marx senza essere tacciati di aristotelismo, di idealismo, di superomismo e di marxismo. Per pensare la scuola del futuro si deve certo guardare avanti: proprio come hanno fatto alcuni grandi del passato, che non hanno pescato solo scarpe vecchie "nel gran mar dell'essere". Se si tratta di indietreggiare per saltare meglio, io non avrei paura a cogliere qualche idea forte che appartiene al passato, a condizione di sapersi liberare dalle angustie che la storia si è incaricata di rivelare, anche sul conto dei più grandi.
Non so chi ha
detto che i classici sono giovani, il giornale di ieri è vecchio. Ma aveva capito che non bastano l'età di un pensiero e gli errori di un pensatore a renderlo inutilizzabile e a costringerci a considerare valido solo ciò che è attuale. C'è una componente di licealità, di coltivazione della verità, della bellezza, della bontà, della destrezza, che va proposta a tutti. Naturalmente non siamo più ai tempi di Apollo Licio, né a quelli della ratio studiorum dei gesuiti, e neppure a quelli del dopoguerra, quando ho studiato io: prendevamo buoni voti, a condizione di star tutto il giorno sui libri e di ignorare radio e giornali. La problematicità non ha certo bisogno d'essere difesa e argomentata: ci avvolge da tutte le parti. Se mai bisogna aiutarsi e aiutare a trovare qualche bandolo della matassa: e questo non si può fare senza pensiero e senza tecnica: il problema è quello delle dosi, si tratti di liceo o di agenzia di formazione. Perché devono essere considerati schiavi coloro che scelgono un ambiente formativo che ritengono più adatto a farli crescere di quello che presenta più alte dosi di teoreticità e di formalità? L'esperienza dimostra che si sentono schiavi se non si sentono liberi di interessarsi a cose che corrispondono alle loro inclinazioni e ai loro interessi. Si vuol dire che a 13 anni e mezzo queste inclinazioni e questi interessi sono ancora scarsamente definiti? Questo è vero: è il punto di maggior sofferenza del disegno di riforma. Mi sembra però che non sia dovuto ad uso scorretto di Aristotele e di Gentile, ma alle scelte che sono venute fuori nel lungo tira e molla delle forze politiche, nel dibattito ingegneristico degli ultimi 6 anni.
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