Mentre il Natale evoca istintivamente l'immagine di chi si slancia
con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata
con rappresentazioni più complesse. È una vita passata attraverso la
sofferenza e la morte, una esistenza ridonata a chi l'aveva perduta.
Perciò se il Natale suscita un po' in tutte le latitudini, anche presso
i non cristiani e i non credenti, un'atmosfera di letizia e quasi di
spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e
difficile.
Ma la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca
prevalentemente sul terreno dell'oscuro e del difficile. Penso
soprattutto in questo momento ai malati, a coloro che soffrono sotto il
peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la
loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico,
icastico e quasi intraducibile senectus ipsa morbus (la vecchiaia è per
natura sua già una malattia). Penso insomma a tutti coloro che sentono
nella carne o nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e
fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e
delle donne di questo mondo.
Mi appare significativo il fatto che Gesù nel suo ministero pubblico si
sia interessato soprattutto dei malati e che Paolo nel suo discorso di
addio alla comunità di Efeso ricordi il dovere di «soccorrere i deboli».
Per questo vorrei che questa Pasqua fosse sentita soprattutto come un
invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per
tutti coloro che sono curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli
esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente)
quella dello "star bene" come principio assoluto. Vorrei che il senso di
sollievo, di liberazione e di speranza che vibra nella Pasqua ebraica
dalle sue origini ai nostri giorni entrasse in tutti i cuori. Vorrei che
il saluto e il grido che i nostri fratelli dell'Oriente si scambiano in
questi giorni «Cristo è risorto», «Cristo è veramente risorto»
percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati,
nelle celle delle prigioni, vorrei che suscitasse un sorriso di speranza
anche nelle persone che si trovano nelle sale di attesa per le
complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si
incontrano volti tesi, persone che cercano di nascondere il nervosismo
che le agita interiormente.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me anziano, un po'
debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio
inevitabile, questa Pasqua 2007? E che cosa potrebbe dire anche a chi
non condivide la mia fede e la mia speranza?
Anzitutto questa Pasqua dice a me che «le sofferenze del momento
presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere
rivelata in noi» (San Paolo, Lettera ai Romani, 8,18).
Queste sofferenze sono anzitutto quelle del Cristo nella sua passione,
per cui sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si
guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le
sofferenze personali o collettive che gravano sull'umanità, causate o
dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini.
Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non
c'è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con
fiducia.
In questa Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di
Paolo nella seconda lettera ai Corinti: «Per questo non ci scoraggiamo,
ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore
si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso
della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di
gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su
quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili
sono eterne». (2Corinti 4,16-18).
È così che siamo invitati a guardare anche ai dolori del mondo di oggi:
come a «gemiti della creazione», come a «doglie del parto» (Romani,
8,22) che stanno generando un mondo più bello e definitivo, anche se non
riusciamo bene a immaginarlo. Tutto questo richiede una grande tensione
di speranza. Perché, come dice ancora san Paolo «nella speranza noi
siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza»
(ivi, 8,24). Sperare così può essere difficile, ma mi pare questa la via
che ci permette di non rimanere schiacciati dai mali di questo mondo. Ed
è una via tracciata da Dio stesso che vuole stare dalla nostra parte e
che promette all'uomo la vita per sempre.
Più difficile è però per me l'esprimere che cosa può dire la Pasqua a
chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. Ma
qui mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito
come una scaturigine misteriosa dentro, che li aiuta a guardare in
faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò
che seguirà. Vedo così che c'è dentro tutti noi qualcosa di quello che
san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (ivi, 4,17), cioè una
volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è
capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini e donne
hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso.
Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo
tsunami del 26 dicembre di due anni fa o dopo l'inondazione di New
Orleans. Si pensi alle energie di ricostruzione sorte come dal nulla
dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole della ventottenne
Etty Hillesum, scritte il 3 luglio 1942, prima di essere portata a
morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione
imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già
in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa
possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza
sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità... La
possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a
causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione».
Uomini e donne così richiamano l'immagine del Salmo: «Nell'andare se ne
va e piange, / portando la semente da gettare, /ma nel tornare viene con
giubilo, / portando i suoi covoni» (Sal 126,6).
Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per
chiederle qualche strumento tecnico. Ma al massimo essa permette un
debole prolungamento dei nostri giorni, anche se il suo impegno può
testimoniare quella solidarietà umana che è l'auspicabile orizzonte di
tutto il suo dinamismo.
L'interrogativo più radicale è invece sul senso di quanto sta avvenendo
e più ancora sull'amore che è dato di cogliere anche in tali frangenti.
C'è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita anche
nella debolezza, che mi dice, «io sono la vita, la vita per sempre»? O
almeno c'è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando
mi sembra che tutto sia perduto?
È così che la risurrezione entra nell'esperienza quotidiana di tutti i
sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro modo
di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono
meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più
forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
LE TRE RICORRENZE
La Pasqua cattolica.
Giovedì alle 17,30, nella basilica di San Giovanni in Laterano inizia il
triduo pasquale con la Santa Messa nella cena del Signore. Per il
Venerdì Santo domani alle 17 si tiene nella Basilica vaticana la
celebrazione della Passione del Signore. Al Colosseo, alle 21,15, ha
inizio la Via Crucis, presieduta da Papa Benedetto XVI. Il Pontefice ha
incaricato monsignor Gianfranco Ravasi, prefetto dell'Ambrosiana, di
scrivere i testi(un estratto è stato anticipato sul Sole-24Ore-Domenica
il primo aprile). Sabato alle 22 in Vaticano si terrà la Veglia pasquale
della notte santa. Domenica in piazza San Pietro (ore 10,30) sarà
celebrata la Santa Messa e alle 12 seguirà la benedizione Urbi et Orbi.
La Pasqua ebraica.
Pesach o Pesah - termine ebraico che significa «passerò oltre» - è una
festività che dura otto giorni (sette nella sola Israele) e ricorda
l'Esodo e la liberazione del popolo israelita dall'Egitto. I due
principali comandamenti legati alla festa sono: cibarsi di matzah (pane
non lievitato) e la proibizione di nutrirsi di qualsiasi cibo contenente
lievito. Quest'anno la festività è stata celebrata il 3 aprile.
La Pasqua ortodossa.
Si celebra la prima domenica dopo la prima luna dell'equinozio di
primavera, una settimana dopo quella cristiana. Quest'anno, per una
circostanza eccezionale, entrambe festeggiano la resurrezione lo stesso
giorno, l'8 aprile. Nella Chiesa ortodossa, durante il Venerdì santo,
una processione accompagna il crocefisso per le strade. Durante la
messa, il Pope toglie simbolicamente il sudario dal sepolcro ed esce
dalla chiesa con il corteo alla ricerca del corpo di Cristo. Poi
annuncia la resurrezione con la formula «Christos voskrès», «Cristo è
risorto». E i fedeli rispondono «Voistinu voiskres», cioè «Veramente è
risorto».