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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Quale scuola, perché, per chi

In questo periodo di discussioni sulla scuola penso sia utile riflettere su due esperienze educative realizzate in Italia nel dopoguerra: il Movimento di Cooperazione Educativa e la Scuola di Barbiana.
Ambedue hanno origine dallo stesso evento storico: la fine del fascismo e della guerra e la ricostruzione della scuola sui valori democratici contenuti nella Costituzione, approvata nel 1948.
In quel tempo io, e altri maestri, vinto il concorso ed entrati nella scuola proprio quell’anno, ci trovammo di fronte, fra gli altri, l’articolo 21, che era il simbolo della libertà riconquistata: “Tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo” . Introdotto nella scuola voleva dire che anche i bambini potevano avere un pensiero e dei sentimenti e potevano esprimerli . Ma nessuno a noi maestri aveva insegnato come era possibile organizzare la vita scolastica su questi valori.
La scuola italiana, alla fine della guerra, era ancora verticistica, autoritaria, trasmissiva, fondata sulla lezione, il libro di testo, il tema, voto, la selezione.
Un gruppo di docenti, riuniti intorno a Giuseppe Tamagnini, incontrarono il maestro francese Celestin Freinet che dopo la prima guerra mondiale, aveva introdotto nella sua scuola una piccola pressa tipografica, con la quale i bambini potevano comporre e stampare le esperienze della loro vita. Fu da quella idea che si formò il primo gruppo del Movimento di Cooperazione educativa.
Quei maestri sperimentarono la stampa e le altre tecniche collegate; in pochi anni, in riunioni, convegni e mostre, dove avveniva lo scambio di esperienze, prendeva corpo la elaborazione di una pedagogia popolare organica per la scuola pubblica. Per la prima volta nella storia della scuola italiana i docenti di ogni ordine e grado si riunivano spontaneamente per attuare la riforma della scuola , espressione della nuova società democratica. All’inizio eravamo pochi, qualche centinaio, ma gli incontri, i convegni, l’entusiasmo di comunicare le esperienze fece aumentare il numero. Arrivammo a un massimo di settemila, un numero rilevante ma pur sempre una minoranza.

L’introduzione della stampa a scuola mise in discussione le fondamenta della scuola tradizionale. Era un invito a parlare, a pensare, a documentare, a comunicare. Era l’inizio della comunità scolastica, che non nasce di colpo, ma si realizza nella conoscenza reciproca e nel lavoro comune. Il bambino che parla di sé, delle sue esperienze e dei suoi problemi, e nello stesso tempo ascolta le esperienze degli altri, capisce subito che quella scuola è come la sua seconda casa, che lì vi sono degli amici con cui collaborare.
La pagina stampata non è più il riassunto della lezione del maestro, e nemmeno il tema da svolgere su un argomento dato, ma un fatto che lo riguarda, un episodio della sua vita.
Le bozze che i bambini correggevano autonomamente confrontandole eliminavano gli umilianti segni blu e rossi del maestro.
Il testo libero , che sostituiva il tema , non era scritto per il maestro, ma in ogni caso, sia che assuma la forma del racconto libero, o del diario, o della corrispondenza, della relazione , della poesia,la sua destinazione è la comunità sociale .
I bambini capivano che quel che è scritto sul loro e su tutti i giornali, e quindi anche sui libri, non è la verità in assoluto, ma un pensiero che si può modificare, perfezionare, cambiare. Il loro giornale era il racconto della loro vita reale, che è un continuo processo di conoscenza.
Con l’introduzione della stampa a scuola cadeva così uno dei pilastri su cui si reggeva la vecchia scuola tradizionale: il tema. L’obbligo di scrivere su argomenti proposti dal maestro ai fini della valutazione, non c’era più. Scriveva e raccontava solo chi aveva qualcosa di importante da comunicare. La grammatica si imparava con la messa punto dei testi dei compagni, lavoro collaborativo sul piano ortografico , sintattico e stilistico di notevole interesse e utilità.


Il giornale era il racconto della vita dei bambini e veniva offerto ai bambini delle altre classi della scuola sia come lettura sia come spazio per pubblicare i loro testi liberi. Vi potevano scrivere anche i genitori, anche i cittadini che lo acquistavano in edicola: la conoscenza si allargava, lo spedivamo ad altre scuole.
La corrispondenza interscolastica fu la naturale apertura della scuola: iniziò con classi parallele di ambienti diversi, lontani: ogni bambino aveva un corrispondente personale al quale scriveva, mandava disegni, piccoli doni. E la classe scriveva lettere collettive che raccontavano la nostra vita.
Quando arrivava il postino era un boato di entusiasmo: scrivevano e ricevevano lettere da bambini veri. Durante l’anno si organizzava l’incontro: le famiglie dei bambini corrispondenti ospitavano i loro amici e lo stesso facevano i nostri. L’incontro era una festa. Ancora oggi ex alunni ricordano le amicizie nate, si ospitano a vicenda, fanno vacanze insieme.
La nostra scuola si apriva anche sul paese, il piccolo mondo in cui erano nati: quando si discuteva un problema e c’era bisogno di un competente, lo si invitava in classe: poteva essere il pescatore , il medico, l’archeologo, il pittore, la filera che racconta il lavoro della filanda, l’anziana contadina che attraverso i canti popolari ci insegna ninne nanne, storie di fatica e di amore.
Andavamo a vedere sul luogo di lavoro gli artigiani, gli agricoltori per capire i loro problemi dal vivo, nella realtà dell’ambiente.
La ricerca che il bambino aveva iniziato nei primi anni di vita nel piccolo mondo in cui era nato, ora continuava, allargava l’orizzonte, e prima attraverso le testimonianze degli anziani scopriva la storia dell’ultimo secolo e poi, attraverso i libri quella più lontana.
I libri! Il libro di testo che pretende di insegnare tutto, venne sostituito dalla biblioteca di lavoro: tanti libri diversi, articoli di giornali e riviste , classificati con metodo, facilmente reperibili.
Una scuola laboratorio costituita in forma cooperativa che affrontava i problemi economici con una vera cassa, gestita settimanalmente da due alunni che riferivano su entrate e uscite, debiti e crediti.
Una scuola che aveva una finalità: esercitare la libertà nel contesto di una piccola comunità di diversi ma uguali nei diritti e nei doveri, di formare quindi il cittadino democratico vivendo la democrazia come collaborazione di tutti, anteponendo il bene comune all’individualismo.


La Scuola di Barbiana


Un’altra esperienza è la scuola che don Lorenzo Milani, giovane sacerdote , apre come progetto di scuola popolare nella sua parrocchia, per amore verso il popolo che Dio gli aveva affidato: contadini, operai, montanari e giovani rifiutati dalla scuola di città. Siamo nel 1948, con questo suo modo d’intendere l’apostolato e l’insegnamento, don Lorenzo ha anticipato il Concilio e la riforma scolastica in un piccolo popolo di montagna, che si può considerare comunità educante. Con essa ha fine la vecchia scuola nozionistica e trasmissiva e nasce la scuola che dà centralità agli strumenti per apprendere insieme.
Il suo metodo è fondato sulla semplificazione e rilettura della storia; sull’educazione alla complessità partendo dal particolare; sulla ricerca sociologica; sulla didattica per immersione e non per astrazione.
Gli strumenti erano gli stessi che c’erano nella realtà, docenti potevano essere tutti, dal contadino al politico.
Io incontrai a Barbiana don Lorenzo e i suoi ragazzi nel ’63, accompagnato dal giornalista Giorgio Pecorini , e vi rimasi due giorni intensi. Il Priore non conosceva il Movimento di Cooperazione Educativa, io non sapevo nulla della sua esperienza . Io raccontai come facevo scuola, i ragazzi com’era la loro. Alla fine don Lorenzo accettò la mia proposta di tenere una corrispondenza fra i ragazzi per mezzo della scrittura collettiva, che gli sembrava la tecnica più adatta a rappresentare la vita della comunità.
La lettera dei ragazzi arrivò il 2 novembre, accompagnata da una lettera di don Lorenzo in cui spiegava come l’avevano scritta.
“Caro maestro, le accludo la lettera. La ringrazio d’averci proposto quest’idea perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono entusiasta della cosa. Per voi invece temo che la lettera non vada. Lanciati a studiare il massimo di capacità di esattezza d’espressione di questi ragazzi ci siamo un po’ dimenticati dell’età dei lettori. Non che non ci si pensasse, ma è successo un fenomeno curioso che non avevo previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a quella dei singoli autori.
Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di vocaboli che usa e un numero molto vasto di vocaboli che intende molto bene e di cui sa valutare i pregi ma che non gli verrebero sulla bocca facilmente. Quando si leggono ad alta voce le 25 proposte dei singoli ragazzi accade sempre che l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti capiscono a colpo che il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel rigore di adulto (direi anche di adulto che misura le parole! animale purtroppo molto raro). Il testo è cioè al livello culturale dell’orecchio di questi ragazzi, non al livello della loro penna o della loro bocca. Le descrivo come abbiamo proceduto.

Primo giorno: un intero pomeriggio (5 ore) a disposizione per comporre liberamente una lettera a voi sul tema: “Perché vengo a scuola”.
Secondo giorno: un altro pomeriggio a leggere a alta voce i lavori appuntando via via su dei foglietti tutte le idee, le frasi, le espressioni particolarmente felici.
Terzo giorno: una mattinata a riordinare questi foglietti su un grande tavolo per dar loro un ordine logico. Dopo di che si stabilisce che lo schema del lavoro sarà il seguente: sul principio: noi – i nostri genitori. Ora: scoperta degli ideali di questa scuola…
Nostra risposta parziale per : debolezza nostra – pressione: dei genitori – del mondo.
Quarto giorno: un intero pomeriggio (5 ore) per rifare ognuno da sé la lettera seguendo però obbligatoriamente lo schema fissato in comune.
Quinto giorno: mattino e sera. Tutti insieme. Ognuno legge a alta voce la sua soluzione per il primo punto dello schema. Dopo di che si stabilisce il testo comune composto sulle migliori espressioni d’ognuno. E così per gli altri punti dello schema. Questo testo risulta di 1128 vocaboli.
Sesto giorno; si detta il testo accettato perché ognuno ne abbia un a copia davanti. Un intero pomeriggio (5 ore) in cui ognuno annota in margine (s’è scritto su mezza pagina) le proposte di correzioni, tagli, esemplificazioni, aggiunte di concetti trascurati ecc.
Settimo giorno: mattina e sera.
Ottavo giorno: mattina e sera.
Nono giorno: mattina:
proposizione per proposizione ognuno dice a alta voce le correzioni che propone.
Si discutono e accettano o meno a alta voce mentre uno scrive il testo definitivo che qui vi alludiamo.
Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti concetti nuovi.
Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente alla preferenza di tutti.
Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto da discutere. Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle altre. In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare quel che non si è ancora detto, cercare di dire col minimo di mezzi. Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni, le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi troppo lunghi ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.
A questo punto abbiamo cercato di eliminare anche le frasi che suonavano troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi. Del resto l ‘orgoglio di questi ragazzi l ’ho coltivato io volutamente per anni. Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per umiliarlo, levargli un po’ di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po’ di sicurezza di sé….
Suo Lorenzo Milani
E segue la lettera dei ragazzi, dalla quale traggo gli elementi che descrivono la scuola.
Barbiana è sul fianco nord dei monte Giovi, 470 metri sul mare…
I nostri babbi sono contadini o operai…
In molte case e anche qui manca la luce elettrica e l’acqua.La strada non c’era. L’abbiamo adattata un po’ noi perché ci passi una macchina…

La nostra scuola è privata. E’ in due stanze della canonica più due che servono da officina. D’inverno ci stiamo un po’ stretti. Ma da aprile a ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca! Ora siamo 29. Tre bambine e 26 ragazzi.. Il più piccolo di noi ha 11 anni, il più grande 18….
Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c’è la neve sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola piscina che abbiamo costruito noi. Questa non le chiamiamo ricreazione ma materie scolastiche particolarmente appassionanti. Il priore ce le fa imparare solo perché potranno esserci utili nella vita.
I giorni di scuola sono 365. 366 negli anni bisestili. La domenica si distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo la messa.
Abbiamo 23 maestri! Perché, esclusi i sette più piccoli, tutti gli altri insegnano a quelli che sono minori di loro. Il priore ha solo i più grandi. Per prendere i diplomi andiamo a fare gli esami come privatisti nelle scuole di stato….

A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano piuttosto facili, per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto l’anno senza pensarci:
Questa scuola senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di venirci. Non solo, dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato al sapere in sé. Ma ci restava da fare una scoperta: anche amare il sapere può essere egoismo. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per esempio dedicarci da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili.
Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani,asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari.
Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, in nessun campo, fin ché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono, come numero di ore, la materia principale.
Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue straniere.Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi.
Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre…..

Quali forti motivazioni hanno i docenti oggi per realizzare una scuola che risponda al bisogno di gioco e di conoscenza?
Per quale modello di società: competitiva o sociale?
Con quale finalità: formare un individuo competitivo capace di competere o di imporsi? Oppure un cittadino che usa le sue capacità individuali per il bene comune?
Considerare la scuola come comunità di amici con i quali collaborare?
Quali valori espressi nelle due esperienze sono ancora validi?
A queste domande i maestri e le maestre sono invitati a rispondere.

Mario Lodi


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