Quale scuola, perché, per chi
In questo periodo di discussioni sulla
scuola penso sia utile riflettere su due esperienze educative realizzate
in Italia nel dopoguerra: il Movimento di Cooperazione Educativa e la
Scuola di Barbiana.
Ambedue hanno origine dallo stesso evento storico: la fine del fascismo
e della guerra e la ricostruzione della scuola sui valori democratici
contenuti nella Costituzione, approvata nel 1948.
In quel tempo io, e altri maestri, vinto il concorso ed entrati nella
scuola proprio quell’anno, ci trovammo di fronte, fra gli altri,
l’articolo 21, che era il simbolo della libertà riconquistata: “Tutti
hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero con la parola, lo
scritto e ogni altro mezzo” . Introdotto nella scuola voleva dire che
anche i bambini potevano avere un pensiero e dei sentimenti e potevano
esprimerli . Ma nessuno a noi maestri aveva insegnato come era possibile
organizzare la vita scolastica su questi valori.
La scuola italiana, alla fine della guerra, era ancora verticistica,
autoritaria, trasmissiva, fondata sulla lezione, il libro di testo, il
tema, voto, la selezione.
Un gruppo di docenti, riuniti intorno a Giuseppe Tamagnini, incontrarono
il maestro francese Celestin Freinet che dopo la prima guerra mondiale,
aveva introdotto nella sua scuola una piccola pressa tipografica, con la
quale i bambini potevano comporre e stampare le esperienze della loro
vita. Fu da quella idea che si formò il primo gruppo del Movimento di
Cooperazione educativa.
Quei maestri sperimentarono la stampa e le altre tecniche collegate; in
pochi anni, in riunioni, convegni e mostre, dove avveniva lo scambio di
esperienze, prendeva corpo la elaborazione di una pedagogia popolare
organica per la scuola pubblica. Per la prima volta nella storia della
scuola italiana i docenti di ogni ordine e grado si riunivano
spontaneamente per attuare la riforma della scuola , espressione della
nuova società democratica. All’inizio eravamo pochi, qualche centinaio,
ma gli incontri, i convegni, l’entusiasmo di comunicare le esperienze
fece aumentare il numero. Arrivammo a un massimo di settemila, un numero
rilevante ma pur sempre una minoranza.
L’introduzione della stampa a scuola mise in discussione le fondamenta
della scuola tradizionale. Era un invito a parlare, a pensare, a
documentare, a comunicare. Era l’inizio della comunità scolastica, che
non nasce di colpo, ma si realizza nella conoscenza reciproca e nel
lavoro comune. Il bambino che parla di sé, delle sue esperienze e dei
suoi problemi, e nello stesso tempo ascolta le esperienze degli altri,
capisce subito che quella scuola è come la sua seconda casa, che lì vi
sono degli amici con cui collaborare.
La pagina stampata non è più il riassunto della lezione del maestro, e
nemmeno il tema da svolgere su un argomento dato, ma un fatto che lo
riguarda, un episodio della sua vita.
Le bozze che i bambini correggevano autonomamente confrontandole
eliminavano gli umilianti segni blu e rossi del maestro.
Il testo libero , che sostituiva il tema , non era scritto per il
maestro, ma in ogni caso, sia che assuma la forma del racconto libero, o
del diario, o della corrispondenza, della relazione , della poesia,la
sua destinazione è la comunità sociale .
I bambini capivano che quel che è scritto sul loro e su tutti i
giornali, e quindi anche sui libri, non è la verità in assoluto, ma un
pensiero che si può modificare, perfezionare, cambiare. Il loro giornale
era il racconto della loro vita reale, che è un continuo processo di
conoscenza.
Con l’introduzione della stampa a scuola cadeva così uno dei pilastri su
cui si reggeva la vecchia scuola tradizionale: il tema. L’obbligo di
scrivere su argomenti proposti dal maestro ai fini della valutazione,
non c’era più. Scriveva e raccontava solo chi aveva qualcosa di
importante da comunicare. La grammatica si imparava con la messa punto
dei testi dei compagni, lavoro collaborativo sul piano ortografico ,
sintattico e stilistico di notevole interesse e utilità.
Il giornale era il racconto della vita dei bambini e veniva offerto ai
bambini delle altre classi della scuola sia come lettura sia come spazio
per pubblicare i loro testi liberi. Vi potevano scrivere anche i
genitori, anche i cittadini che lo acquistavano in edicola: la
conoscenza si allargava, lo spedivamo ad altre scuole.
La corrispondenza interscolastica fu la naturale apertura della scuola:
iniziò con classi parallele di ambienti diversi, lontani: ogni bambino
aveva un corrispondente personale al quale scriveva, mandava disegni,
piccoli doni. E la classe scriveva lettere collettive che raccontavano
la nostra vita.
Quando arrivava il postino era un boato di entusiasmo: scrivevano e
ricevevano lettere da bambini veri. Durante l’anno si organizzava
l’incontro: le famiglie dei bambini corrispondenti ospitavano i loro
amici e lo stesso facevano i nostri. L’incontro era una festa. Ancora
oggi ex alunni ricordano le amicizie nate, si ospitano a vicenda, fanno
vacanze insieme.
La nostra scuola si apriva anche sul paese, il piccolo mondo in cui
erano nati: quando si discuteva un problema e c’era bisogno di un
competente, lo si invitava in classe: poteva essere il pescatore , il
medico, l’archeologo, il pittore, la filera che racconta il lavoro della
filanda, l’anziana contadina che attraverso i canti popolari ci insegna
ninne nanne, storie di fatica e di amore.
Andavamo a vedere sul luogo di lavoro gli artigiani, gli agricoltori per
capire i loro problemi dal vivo, nella realtà dell’ambiente.
La ricerca che il bambino aveva iniziato nei primi anni di vita nel
piccolo mondo in cui era nato, ora continuava, allargava l’orizzonte, e
prima attraverso le testimonianze degli anziani scopriva la storia
dell’ultimo secolo e poi, attraverso i libri quella più lontana.
I libri! Il libro di testo che pretende di insegnare tutto, venne
sostituito dalla biblioteca di lavoro: tanti libri diversi, articoli di
giornali e riviste , classificati con metodo, facilmente reperibili.
Una scuola laboratorio costituita in forma cooperativa che affrontava i
problemi economici con una vera cassa, gestita settimanalmente da due
alunni che riferivano su entrate e uscite, debiti e crediti.
Una scuola che aveva una finalità: esercitare la libertà nel contesto di
una piccola comunità di diversi ma uguali nei diritti e nei doveri, di
formare quindi il cittadino democratico vivendo la democrazia come
collaborazione di tutti, anteponendo il bene comune all’individualismo.
La Scuola di Barbiana
Un’altra esperienza è la scuola che don Lorenzo Milani, giovane
sacerdote , apre come progetto di scuola popolare nella sua parrocchia,
per amore verso il popolo che Dio gli aveva affidato: contadini, operai,
montanari e giovani rifiutati dalla scuola di città. Siamo nel 1948, con
questo suo modo d’intendere l’apostolato e l’insegnamento, don Lorenzo
ha anticipato il Concilio e la riforma scolastica in un piccolo popolo
di montagna, che si può considerare comunità educante. Con essa ha fine
la vecchia scuola nozionistica e trasmissiva e nasce la scuola che dà
centralità agli strumenti per apprendere insieme.
Il suo metodo è fondato sulla semplificazione e rilettura della storia;
sull’educazione alla complessità partendo dal particolare; sulla ricerca
sociologica; sulla didattica per immersione e non per astrazione.
Gli strumenti erano gli stessi che c’erano nella realtà, docenti
potevano essere tutti, dal contadino al politico.
Io incontrai a Barbiana don Lorenzo e i suoi ragazzi nel ’63,
accompagnato dal giornalista Giorgio Pecorini , e vi rimasi due giorni
intensi. Il Priore non conosceva il Movimento di Cooperazione Educativa,
io non sapevo nulla della sua esperienza . Io raccontai come facevo
scuola, i ragazzi com’era la loro. Alla fine don Lorenzo accettò la mia
proposta di tenere una corrispondenza fra i ragazzi per mezzo della
scrittura collettiva, che gli sembrava la tecnica più adatta a
rappresentare la vita della comunità.
La lettera dei ragazzi arrivò il 2 novembre, accompagnata da una lettera
di don Lorenzo in cui spiegava come l’avevano scritta.
“Caro maestro, le accludo la lettera. La ringrazio d’averci proposto
quest’idea perché me ne sono trovato molto bene. Non avevo mai avuto in
tanti anni di scuola una così completa e profonda occasione per studiare
coi ragazzi l’arte dello scrivere. Per noi dunque tutto bene anzi sono
entusiasta della cosa. Per voi invece temo che la lettera non vada.
Lanciati a studiare il massimo di capacità di esattezza d’espressione di
questi ragazzi ci siamo un po’ dimenticati dell’età dei lettori. Non che
non ci si pensasse, ma è successo un fenomeno curioso che non avevo
previsto, ma che dopo il fatto mi spiego molto bene: la collaborazione e
il lungo ripensamento hanno prodotto una lettera che pur essendo
assolutamente opera di questi ragazzi e nemmeno più dei maggiori che dei
minori è risultata alla fine d’una maturità che è molto superiore a
quella dei singoli autori.
Spiego la cosa così: ogni ragazzo ha un numero molto limitato di
vocaboli che usa e un numero molto vasto di vocaboli che intende molto
bene e di cui sa valutare i pregi ma che non gli verrebero sulla bocca
facilmente. Quando si leggono ad alta voce le 25 proposte dei singoli
ragazzi accade sempre che l’uno o l’altro (e non è detto che sia dei più
grandi) ha per caso azzeccato un vocabolo o un giro di frase
particolarmente preciso o felice. Tutti i presenti capiscono a colpo che
il vocabolo è il migliore e vogliono che sia adottato nel testo
unificato. Ecco perché il testo ha acquistato quell’andatura e quel
rigore di adulto (direi anche di adulto che misura le parole! animale
purtroppo molto raro). Il testo è cioè al livello culturale
dell’orecchio di questi ragazzi, non al livello della loro penna o della
loro bocca. Le descrivo come abbiamo proceduto.
Primo giorno: un intero pomeriggio (5 ore) a disposizione per comporre
liberamente una lettera a voi sul tema: “Perché vengo a scuola”.
Secondo giorno: un altro pomeriggio a leggere a alta voce i lavori
appuntando via via su dei foglietti tutte le idee, le frasi, le
espressioni particolarmente felici.
Terzo giorno: una mattinata a riordinare questi foglietti su un grande
tavolo per dar loro un ordine logico. Dopo di che si stabilisce che lo
schema del lavoro sarà il seguente: sul principio: noi – i nostri
genitori. Ora: scoperta degli ideali di questa scuola…
Nostra risposta parziale per : debolezza nostra – pressione: dei
genitori – del mondo.
Quarto giorno: un intero pomeriggio (5 ore) per rifare ognuno da sé la
lettera seguendo però obbligatoriamente lo schema fissato in comune.
Quinto giorno: mattino e sera. Tutti insieme. Ognuno legge a alta voce
la sua soluzione per il primo punto dello schema. Dopo di che si
stabilisce il testo comune composto sulle migliori espressioni d’ognuno.
E così per gli altri punti dello schema. Questo testo risulta di 1128
vocaboli.
Sesto giorno; si detta il testo accettato perché ognuno ne abbia un a
copia davanti. Un intero pomeriggio (5 ore) in cui ognuno annota in
margine (s’è scritto su mezza pagina) le proposte di correzioni, tagli,
esemplificazioni, aggiunte di concetti trascurati ecc.
Settimo giorno: mattina e sera.
Ottavo giorno: mattina e sera.
Nono giorno: mattina:
proposizione per proposizione ognuno dice a alta voce le correzioni che
propone.
Si discutono e accettano o meno a alta voce mentre uno scrive il testo
definitivo che qui vi alludiamo.
Il testo che risulta da questo lavoro è composto da 823 parole. Il testo
è perciò diminuito di ben 305 parole pur essendo arricchito di molti
concetti nuovi.
Il lavoro di questi ultimi tre giorni è stato entusiasmante per me e per
i ragazzi. Straordinaria la possibilità, in questa fase, dei più piccoli
di trovare qualche volta soluzioni migliori dei grandi. Pochissima
incertezza: in genere la soluzione migliore s’impone molto evidentemente
alla preferenza di tutti.
Infatti, ormai che s’era stabilito cosa volevamo dire, non restava che
trovare il modo migliore di dirlo e su questo in genere non c’era molto
da discutere. Esiste oggettivamente una soluzione che è migliore delle
altre. In questa fase si possono studiare insieme tutti i problemi
dell’arte dello scrivere: completare e semplificare. Finir di cercare
quel che non si è ancora detto, cercare di dire col minimo di mezzi.
Cercare di indovinare la reazione del lettore, eliminare le ripetizioni,
le cacofonie, gli attributi e le relative non restrittivi, i periodi
troppo lunghi ridomandandosi all’infinito se un dato concetto è vero, se
è nel suo giusto valore gerarchico, se è essenziale, se il destinatario
avrà gli elementi per comprenderlo, se provocherà malintesi.
A questo punto abbiamo cercato di eliminare anche le frasi che suonavano
troppo vanitose. Ma ci siamo imposti di non farlo. L’arte dello scrivere
consiste nel riuscire a esprimere compiutamente quello che siamo e che
pensiamo, non nel mascherarci in migliori di noi stessi. Del resto l
‘orgoglio di questi ragazzi l ’ho coltivato io volutamente per anni.
Quando ho davanti uno studente o un cittadino faccio di tutto per
umiliarlo, levargli un po’ di sicurezza di sé. Quando ho un contadino o
un operaio cerco proprio il contrario: di dargli un po’ di sicurezza di
sé….
Suo Lorenzo Milani
E segue la lettera dei ragazzi, dalla quale traggo gli elementi che
descrivono la scuola.
Barbiana è sul fianco nord dei monte Giovi, 470 metri sul mare…
I nostri babbi sono contadini o operai…
In molte case e anche qui manca la luce elettrica e l’acqua.La strada
non c’era. L’abbiamo adattata un po’ noi perché ci passi una macchina…
La nostra scuola è privata. E’ in due stanze della canonica più due che
servono da officina. D’inverno ci stiamo un po’ stretti. Ma da aprile a
ottobre facciamo scuola all’aperto e allora il posto non ci manca! Ora
siamo 29. Tre bambine e 26 ragazzi.. Il più piccolo di noi ha 11 anni,
il più grande 18….
Non facciamo mai ricreazione e mai nessun gioco. Quando c’è la neve
sciamo un’ora dopo mangiato e d’estate nuotiamo un’ora in una piccola
piscina che abbiamo costruito noi. Questa non le chiamiamo ricreazione
ma materie scolastiche particolarmente appassionanti. Il priore ce le fa
imparare solo perché potranno esserci utili nella vita.
I giorni di scuola sono 365. 366 negli anni bisestili. La domenica si
distingue dagli altri giorni solo perché prendiamo la messa.
Abbiamo 23 maestri! Perché, esclusi i sette più piccoli, tutti gli altri
insegnano a quelli che sono minori di loro. Il priore ha solo i più
grandi. Per prendere i diplomi andiamo a fare gli esami come privatisti
nelle scuole di stato….
A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non
c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. Con le
molte ore e i molti giorni di scuola che facciamo, gli esami ci restano
piuttosto facili, per cui possiamo permetterci di passare quasi tutto
l’anno senza pensarci:
Questa scuola senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni
ha appassionato ognuno di venirci. Non solo, dopo pochi mesi ognuno di
noi si è affezionato al sapere in sé. Ma ci restava da fare una
scoperta: anche amare il sapere può essere egoismo. Il priore ci propone
un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del
prossimo, per esempio dedicarci da grandi all’insegnamento, alla
politica, al sindacato, all’apostolato o simili.
Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte
dei più deboli: africani,asiatici, meridionali italiani, operai,
contadini, montanari.
Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, in nessun
campo, fin ché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono, come
numero di ore, la materia principale.
Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue
straniere.Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo
soltanto noi.
Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi
intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori,
né patrie, né guerre…..
Quali forti motivazioni hanno i docenti oggi per realizzare una scuola
che risponda al bisogno di gioco e di conoscenza?
Per quale modello di società: competitiva o sociale?
Con quale finalità: formare un individuo competitivo capace di competere
o di imporsi? Oppure un cittadino che usa le sue capacità individuali
per il bene comune?
Considerare la scuola come comunità di amici con i quali collaborare?
Quali valori espressi nelle due esperienze sono ancora validi?
A queste domande i maestri e le maestre sono invitati a rispondere.
Mario Lodi
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