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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

Una scuola da far paura
IL RITORNO DEL MAESTRO UNICO

Non solo ragioni economiche dietro la scelta del governo

di Italo Fiorin *

Quale è il progetto di scuola che guida l’azione del governo? Prendiamo in considerazione quello che rappresenta il segnale più eloquente (meno folkloristico del grembiulino, meno enfatico del 5 in condotta, meno populista della riproposizione del voto): il ritorno al maestro unico nella scuola elementare. Si tratta del primo vero provvedimento strutturale, capace di incidere in modo bruciante nel corpo della scuola. La mossa è spiazzante, un blitz sul terreno meno presidiato dalle attese: tutti ad augurarsi il completamento di una riforma infinita, capace di proseguire e completare i provvedimenti avviati dai precedenti governi, ed ecco che viene rivoluzionato l’assetto ordinamentale della scuola primaria, quella che – insieme alla scuola dell’infanzia – meglio si comporta al vaglio delle valutazioni internazionali e gode di un larghissimo consenso tra i genitori. Con una cifra democratica che si commenta da sé, eludendo il dibattito parlamentare ed evitando un qualsivoglia confronto con la scuola reale e con chi la rappresenta, il colpo di mano si concretizza in un amen. Timide giustificazioni “pedagogiche” («anch’io ho avuto una sola maestra»;) tentano di coprire con una foglia di fico quella che ai più appare la vera ragione del provvedimento inatteso: il risparmio economico. Gli sprechi non sono mai giustificati, ed è comprensibile che quando ci sono difficoltà economiche si spenda con maggior oculatezza. Naturalmente i tagli e i risparmi riguardano ciò che viene considerato superfluo o meno rilevante, si cerca, insomma, il male minore. Non ci vorrebbe molto a dimostrare quanto siano pretestuosi o esagerati gli argomenti addotti. Si dice che tre insegnanti sono troppi per una classe, sottintendendo che siano impegnati su una sola classe, cosa che non è. Ci sono situazioni nelle quali il rapporto numerico insegnante-alunni è eccessivo, ma si potrebbero sanare senza ricorrere alla macelleria grossolana; quando si fanno paragoni con altri stati, bisognerebbe ricordarsi che da noi operano insegnanti specializzati nel sostegno, e questo perché è stata fatta, a suo tempo, una scelta di civiltà che ci onora: l’integrazione degli alunni con disabilità e con problemi rilevanti nelle classi di tutti. Se la nostra scuola primaria è tra le prime al mondo, lo si deve anche a questa scelta coraggiosa, che ha promosso l’individualizzazione dell’insegnamento, la pratica dei gruppi cooperativi, la cura della personalizzazione dell’apprendimento, e ha contribuito ad un rinnovamento della didattica purtroppo sconosciuto nella scuola superiore. Oggi poi le classi sono sempre più multiculturali e sono la scuola dell’infanzia e quella elementare, ancora una volta, a farsi luogo di accoglienza e pacifica convivenza. Naturalmente tutto questo ha un costo, in termini economici, che finora la nostra comunità nazionale ha dimostrato di apprezzare, ed in termini umani, perché sono i docenti e non i saccenti che sulla loro pelle sperimentano la fatica dell’inclusione. Ma quello che viene svelato dal piccolo golpe estivo è qualcosa di più inquietante di una operazione contabile sulla pelle della scuola. La vera colpa della scuola primaria non è di costare troppo, ma di essere culturalmente irriducibile alla cultura che oggi vuole governare. Quando il ministro Tremonti rinfaccia alla nostra scuola di essere figlia del ’68, ci offre la vera chiave interpretativa. La nostra scuola ha, in effetti, un debito con quel periodo, ma non secondo le allusioni del ministro, che attribuendovi l’inizio di tutti i mali, lascia intendere che prima la scuola funzionava bene. Basti un solo richiamo emblematico: la lettera ad una professoressa, scritta dai ragazzi di Barbiana. È del 1967. Bisogna tornare a rileggerla, per ricordarci come eravamo, con il grembiulino dal colletto inamidato e il libro di testo governativo. Era una scuola che dava i voti e che bocciava. Era una scuola del merito? Era una scuola che aveva un orario di 24 ore. Era un tempo sufficiente per il figlio del dottore, ma per il figlio del bracciante? E la società è rimasta, oggi, quella di allora? L’operazione nostalgia, in realtà, ha un’anima ideologica molto robusta e moderna, anzi più che moderna. Il fatto è che, progressivamente, il paradigma educativo che ha costituito l’anima della nostra scuola – da don Lorenzo Milani e Mario Lodi, dal documento Falcucci alla legge 517/77, via via fino ai nuovi programmi della scuola media (’79) elementare (’85) e materna (’91) –, si è indebolito e sta per essere sostituito dal nuovo paradigma vincente, quello economico. La rivoluzione culturale del ministro Tremonti ha principi chiari: la scuola ha valore se risponde alle richieste del mercato, non se è luogo di umanizzazione attraverso la cultura. Ai più basti una solida alfabetizzazione strumentale (leggere, scrivere, far di conto) e poi a lavorare. Attraverso la competizione si selezioneranno i meritevoli, su questi sarà produttivo investire. Rischia così di chiudersi, prima ancora di essere stato completato, quel processo di riforma che, in sintonia con le riforme degli altri paesi europei, aveva preso avvio a partire dalla metà degli anni ’90 e aveva ispirato l’azione dei ministri Berlinguer, De Mauro, Moratti, infine Fioroni. Pur nella differenza non solo di stile personale ma anche di orientamento culturale e politico, c’erano forti tratti di continuità nell’azione dei diversi responsabili dell’istruzione. La consapevolezza dei punti deboli era accompagnata da un forte impegno di innovazione. La scorsa legislatura aveva consegnato alla nuova una scuola “cantiere aperto”, impegnata a completare la riforma, non una tabula rasa. L’agenda condivisa riguardava una riforma da completare, non una rivoluzione ideologica. Quello che forse non è messo sufficientemente in luce è che il disegno di Tremonti distrugge non semplicemente le utopie della sinistra, e i fantasmi del ’68, ma la stessa riforma Moratti. Che spazio c’è per l’equipe pedagogica, quando ritorna il maestro unico? Che fine fa il portfolio, se si ripropone il voto? Che senso ha aprire l’offerta formativa della scuola alle proposte e alle scelte delle famiglie, se non c’è tempo che per una mera alfabetizzazione strumentale? I capisaldi pedagogici di quella riforma vengono tranquillamente spazzati via. Quello che viene presentato come ritorno al buon tempo antico e, insieme, come premessa di un futuro nel quale il merito sarà riconosciuto, gli insegnanti adeguatamente retribuiti, le classifiche internazionali scalate, è in realtà non una operazione di semplice cambiamento, ma di mutazione della natura della scuola. Nella riforma Moratti convivevano con difficoltà e contraddizioni le due anime, quella funzionalista e quella personalista. La rivoluzione di Tremonti toglie ogni ambiguità. Spegne la speranza, ci consegna una scuola da far paura.



* presidente del corso di laurea in scienze della formazione primaria dell’università Lumsa di Roma


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