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Quale è il progetto di scuola che
guida l’azione del governo? Prendiamo in considerazione quello che
rappresenta il segnale più eloquente (meno folkloristico del
grembiulino, meno enfatico del 5 in condotta, meno populista della
riproposizione del voto): il ritorno al maestro unico nella scuola
elementare. Si tratta del primo vero provvedimento strutturale, capace
di incidere in modo bruciante nel corpo della scuola. La mossa è
spiazzante, un blitz sul terreno meno presidiato dalle attese: tutti ad
augurarsi il completamento di una riforma infinita, capace di proseguire
e completare i provvedimenti avviati dai precedenti governi, ed ecco che
viene rivoluzionato l’assetto ordinamentale della scuola primaria,
quella che – insieme alla scuola dell’infanzia – meglio si comporta al
vaglio delle valutazioni internazionali e gode di un larghissimo
consenso tra i genitori. Con una cifra democratica che si commenta da
sé, eludendo il dibattito parlamentare ed evitando un qualsivoglia
confronto con la scuola reale e con chi la rappresenta, il colpo di mano
si concretizza in un amen. Timide giustificazioni “pedagogiche”
(«anch’io ho avuto una sola maestra»;)
tentano di coprire con una foglia di fico quella che ai più appare la
vera ragione del provvedimento inatteso: il risparmio economico. Gli
sprechi non sono mai giustificati, ed è comprensibile che quando ci sono
difficoltà economiche si spenda con maggior oculatezza. Naturalmente i
tagli e i risparmi riguardano ciò che viene considerato superfluo o meno
rilevante, si cerca, insomma, il male minore. Non ci vorrebbe molto a
dimostrare quanto siano pretestuosi o esagerati gli argomenti addotti.
Si dice che tre insegnanti sono troppi per una classe, sottintendendo
che siano impegnati su una sola classe, cosa che non è. Ci sono
situazioni nelle quali il rapporto numerico insegnante-alunni è
eccessivo, ma si potrebbero sanare senza ricorrere alla macelleria
grossolana; quando si fanno paragoni con altri stati, bisognerebbe
ricordarsi che da noi operano insegnanti specializzati nel sostegno, e
questo perché è stata fatta, a suo tempo, una scelta di civiltà che ci
onora: l’integrazione degli alunni con disabilità e con problemi
rilevanti nelle classi di tutti. Se la nostra scuola primaria è tra le
prime al mondo, lo si deve anche a questa scelta coraggiosa, che ha
promosso l’individualizzazione dell’insegnamento, la pratica dei gruppi
cooperativi, la cura della personalizzazione dell’apprendimento, e ha
contribuito ad un rinnovamento della didattica purtroppo sconosciuto
nella scuola superiore. Oggi poi le classi sono sempre più
multiculturali e sono la scuola dell’infanzia e quella elementare,
ancora una volta, a farsi luogo di accoglienza e pacifica convivenza.
Naturalmente tutto questo ha un costo, in termini economici, che finora
la nostra comunità nazionale ha dimostrato di apprezzare, ed in termini
umani, perché sono i docenti e non i saccenti che sulla loro pelle
sperimentano la fatica dell’inclusione. Ma quello che viene svelato dal
piccolo golpe estivo è qualcosa di più inquietante di una operazione
contabile sulla pelle della scuola. La vera colpa della scuola primaria
non è di costare troppo, ma di essere culturalmente irriducibile alla
cultura che oggi vuole governare. Quando il ministro Tremonti rinfaccia
alla nostra scuola di essere figlia del ’68, ci offre la vera chiave
interpretativa. La nostra scuola ha, in effetti, un debito con quel
periodo, ma non secondo le allusioni del ministro, che attribuendovi
l’inizio di tutti i mali, lascia intendere che prima la scuola
funzionava bene. Basti un solo richiamo emblematico: la lettera ad una
professoressa, scritta dai ragazzi di Barbiana. È del 1967. Bisogna
tornare a rileggerla, per ricordarci come eravamo, con il grembiulino
dal colletto inamidato e il libro di testo governativo. Era una scuola
che dava i voti e che bocciava. Era una scuola del merito? Era una
scuola che aveva un orario di 24 ore. Era un tempo sufficiente per il
figlio del dottore, ma per il figlio del bracciante? E la società è
rimasta, oggi, quella di allora? L’operazione nostalgia, in realtà, ha
un’anima ideologica molto robusta e moderna, anzi più che moderna. Il
fatto è che, progressivamente, il paradigma educativo che ha costituito
l’anima della nostra scuola – da don Lorenzo Milani e Mario Lodi, dal
documento Falcucci alla legge 517/77, via via fino ai nuovi programmi
della scuola media (’79) elementare (’85) e materna (’91) –, si è
indebolito e sta per essere sostituito dal nuovo paradigma vincente,
quello economico. La rivoluzione culturale del ministro Tremonti ha
principi chiari: la scuola ha valore se risponde alle richieste del
mercato, non se è luogo di umanizzazione attraverso la cultura. Ai più
basti una solida alfabetizzazione strumentale (leggere, scrivere, far di
conto) e poi a lavorare. Attraverso la competizione si selezioneranno i
meritevoli, su questi sarà produttivo investire. Rischia così di
chiudersi, prima ancora di essere stato completato, quel processo di
riforma che, in sintonia con le riforme degli altri paesi europei, aveva
preso avvio a partire dalla metà degli anni ’90 e aveva ispirato
l’azione dei ministri Berlinguer, De Mauro, Moratti, infine Fioroni. Pur
nella differenza non solo di stile personale ma anche di orientamento
culturale e politico, c’erano forti tratti di continuità nell’azione dei
diversi responsabili dell’istruzione. La consapevolezza dei punti deboli
era accompagnata da un forte impegno di innovazione. La scorsa
legislatura aveva consegnato alla nuova una scuola “cantiere aperto”,
impegnata a completare la riforma, non una tabula rasa. L’agenda
condivisa riguardava una riforma da completare, non una rivoluzione
ideologica. Quello che forse non è messo sufficientemente in luce è che
il disegno di Tremonti distrugge non semplicemente le utopie della
sinistra, e i fantasmi del ’68, ma la stessa riforma Moratti. Che spazio
c’è per l’equipe pedagogica, quando ritorna il maestro unico? Che fine
fa il portfolio, se si ripropone il voto? Che senso ha aprire l’offerta
formativa della scuola alle proposte e alle scelte delle famiglie, se
non c’è tempo che per una mera alfabetizzazione strumentale? I capisaldi
pedagogici di quella riforma vengono tranquillamente spazzati via.
Quello che viene presentato come ritorno al buon tempo antico e,
insieme, come premessa di un futuro nel quale il merito sarà
riconosciuto, gli insegnanti adeguatamente retribuiti, le classifiche
internazionali scalate, è in realtà non una operazione di semplice
cambiamento, ma di mutazione della natura della scuola. Nella riforma
Moratti convivevano con difficoltà e contraddizioni le due anime, quella
funzionalista e quella personalista. La rivoluzione di Tremonti toglie
ogni ambiguità. Spegne la speranza, ci consegna una scuola da far paura.
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