IL RUOLO DEL LABORATORIO
NELL’INSEGNAMENTO SCIENTIFICO NELLA SCUOLA DI BASE
Aspetti epistemologici, psicopedagogici e didattici
Carlo Fiorentini
Negli ultimi
decenni si è sviluppata un'ampia ricerca sull'insegnamento
scientifico, con un'impostazione costruttivista. Quali sono le sue
ipotesi di fondo ?
Vi è
innanzitutto un opzione di tipo epistemologico sostanzialmente
concorde con le acquisizioni della riflessione epistemologica degli
ultimi quarant'anni, consistente nel rifiuto di concezioni
induttivistiche della scienza. Viene in secondo luogo sottolineato
un altro aspetto, la presenza negli individui di concezioni
alternative a quelle accreditate, collegate al senso comune e
particolarmente resistenti. Molte ricerche hanno infatti evidenziato
che anche studenti ai primi anni dell'università, nonostante molti
anni di insegnamento scientifico, continuano a condividere
concezioni di tipo prescientifico.
Si postula
conseguentemente la necessità di partire dalle conoscenze degli
studenti per impostare l'insegnamento scientifico. Viene individuato
come uno dei concetti fondamentali della psicologia dell'educazione
questa affermazione di Ausubel " Scopri quello che l'allievo conosce
già e organizza di conseguenza il tuo insegnamento".
Ci proponiamo
di entrare maggiormente nel merito di questa impostazione partendo
da alcune considerazioni di Rosalind Driver, che di essa rappresenta
uno dei più significativi
esponenti.
R. Driver
prende completamente le distanze da impostazioni di tipo
positivistico: "La concezione empiristica della scienza afferma che
le idee e le teorie scientifiche si ottengono per un processo di
induzione. Chi conduce delle indagini, si tratti di alunni o di
scienziati esperti, dovrebbe procedere attraverso una sequenza di
processi organizzati gerarchicamente, a partire dall'osservazione di
"fatti". Sulla base di tali fatti si possono fare delle
generalizzazioni e indurre delle ipotesi o delle teorie. Tuttavia
l'attuale filosofia della scienza sostiene che questa concezione è
erronea in quanto le ipotesi o le teorie non si collegano in nessun
modo deduttivo con i dati cosiddetti "oggettivi", ma sono delle
costruzioni, dei prodotti dell'immaginazione umana. Il loro
collegamento con il mondo concreto si realizza attraverso il
processo della verifica e dell'eventuale confutazione".
Per la Driver
l'induzione non gioca quindi nessun ruolo né nello sviluppo
scientifico né nel processo educativo."Una delle ragioni usualmente
invocate a favore dell'insegnamento scientifico nella scuola è che
esso forma gli alunni nelle capacità di osservare, di essere
obiettivi e rigorosi allorché si tratta di registrare e riferire gli
eventi. Ma persone diverse che osservano la stessa cosa possono
percepirla in maniere piuttosto diverse. L'<<osservazione>> non
consiste in una registrazione passiva di un fenomeno come si
trattasse di una immagine che viene prodotta da una macchina
fotografica. Si tratta invece di un processo attivo col quale
l'osservatore controlla le proprie percezioni confrontandole
con le proprie aspettative (...) Finché le osservazioni non servono
a rispondere ad una domanda posta con chiarezza è possibile che i
ragazzi non registrino accuratamente quel che vedono".
L’impostazione
induttivistica ha avuto un'ampia diffusione negli USA ed in
Inghilterra grazie al rinforzo ricevuto "da concezioni
puerocentriche dell'educazione, come quelle formulate da personalità
quali Froebel, Dewey e Piaget",
nonostante che da molto tempo fossero stati acquisiti importanti
risultati critici quali quelli indicati già dal rapporto del 1936
della Science Masters' Association.
D'altra parte,
la Driver prende anche le distanze dalla concezione strutturalista
di Bruner, quale è stata prospettata nel libro Dopo Dewey, il
processo di apprendimento nelle due culture; ricorda che a
partire dal 1960 sono stati sviluppati molti programmi di scienze
non più basati "sulla scienza come catologo di fatti", ma sui
concetti fondamentali delle discipline scientifiche, "quali la
teoria atomica in chimica o la teoria cinetica in fisica". Vi era
sia un'esigenza di fornire un'idea più significativa della scienza
che la convinzione pedagogica di una maggiore capacità di
"transfert" di questi concetti. R. Driver non concorda, come molti
altri psicologi e pedagogisti, con questa ipotesi pedagogica: "Uno
dei problemi che sorgono di fronte a questo argomento è che i
collegamenti che sono evidenti per uno scienziato possono risultare
tutt'altro che ovvi per un alunno. Dopo tutto, ciò che conta
nell'apprendimento è la coerenza quale è percepita da quest'ultimo
(...) Se la teoria o il formalismo presentati agli alunni non
vengono appresi in una maniera significativa, vengono presto
dimenticati in quanto conoscenze utili e non vi si fa più ricorso in
futuro: gli alunni stessi ritornano alle loro intuizioni o strutture
precedenti".
Nella impostazione di Bruner di quegli anni ci sarebbe, quindi, il
limite opposto alla concezione di Dewey e Piaget, quello di
adultismo, di specialismo professionale.
R. Driver sembra collocarsi
quindi in una posizione intermedia, recependo le istanze positive
delle due impostazioni: ritiene infatti che sia necessario
avvicinare già a partire dalla scuola elementare i bambini ai
concetti fondamentali delle discipline, avendo tuttavia la
consapevolezza dell'immane difficoltà del compito.
Come è possibile diminuire il
grande stacco esistente tra conoscenza di senso comune e conoscenze
formalizzate, cioè far sì che la conoscenza scientifica diventi
patrimonio effettivo dello studente ? La Driver fornisce tre
indicazioni di grande rilevanza:
1) La necessità pedagogica di
fornire modelli scientifici per approssimazione successiva.
"In molti ambiti scientifici si
possono interpretare i fenomeni secondo una varietà di livelli di
raffinatezza, tutti quanti utili sotto questo profilo (...) Per
esempio, c'è una giustificazione nell'attribuire tanta importanza al
modello cinetico-molecolare nei corsi scientifici di base dal
momento che gli alunni trovano tanto difficile comprenderlo
abbastanza bene da utilizzarlo con fiducia ? Non sarebbe più
produttivo accettare che alunni più giovani delle scuola secondaria
si basassero su una nozione del calore come calorico ? Dopo tutto,
gli ingegneri edili, ad esempio, procedono effettivamente nei loro
calcoli della conducibilità termica dei materiali in base alle
"quantità di calore" e alle "velocità di flusso". Dal punto di vista
degli alunni è forse preferibile possedere un modello che funziona
nell'interpretazione dei fenomeni, anche se lo si dovrà modificare
più avanti, piuttosto che dover imparare delle idee più raffinate
che servono solo a confondere".
Sicuramente, afferma la Driver,
c'è chi si opporrà a queste proposte sostenendo che non si debba mai
insegnare nulla che debba essere "disappreso in seguito". Ma questo
atteggiamento pedagogico non è per nella conforme né alle esperienze
della vita quotidiana, né agli apprendimenti che si realizzano in
contesti formali. "Noi siamo posti continuamente in situazioni nelle
quali dobbiamo rivedere, sviluppare o scartare delle idee alla luce
di nuovi dati". L'immane compito che è necessario affrontare e
risolvere nell'educazione scientifica è quello di diminuire il
fossato che oggi generalmente esiste tra le strutture cognitive
degli studenti e le conoscenze scientifiche formali; e a questo
scopo può essere necessario presentare agli studenti delle teorie
parziali e provvisorie che essi possano comprendere senza tuttavia
accettare come verità assolute. "A questo riguardo è importante
distinguere tra capire e credere: è possibile e fondamentale
riuscire a capire delle interpretazioni alternative, proposte
da compagni di classe o di ricerca scientifica, senza
necessariamente credere ad alcune di esse".
2) La necessità di tenere
conto costantemente delle conoscenze dello studente.
Come abbiamo già evidenziato
nelle pagine precedenti, secondo la Driver e molti altri ricercatori
questo assunto costituisce un nodo fondamentale sia sul piano
interpretativo che diagnostico: le scienze potranno effettivamente
contribuire all'evoluzione delle strutture cognitive degli studenti
soltanto quando si individueranno delle modalità didattiche che
permettano un'interazione effettiva tra le nuove conoscenze e le
conoscenze degli studenti.
3) La necessità di
effettuare scelte nei programmi di insegnamento.
"I suggerimenti finora presentati
hanno in comune un'esigenza, che è quella del tempo.
Prevedere delle discussioni in classe di tipo speculativo richiede
tempo, e ancor più ne occorre se gli allievi devono far sì che le
idee in competizione abbiano un seguito, o se essi devono
intraprendere delle proprie indagini". Un modello pedagogico che
considera fondamentale l'attività cognitiva dello studente ha
evidentemente delle conseguenze tutt'altro che marginali rispetto
alla vastità del programma: occorrerà indubbiamente impostare il
programma in modo diverso rispetto all'impostazione prevalente
nozionistica ed enciclopedica. "Ma forse il taglio dei programmi non
è un prezzo troppo alto da pagare se ne consegue una maggiore
fiducia degli alunni nella loro comprensione delle idee trattate, ed
inoltre del tempo che può essere destinato specificamente alle loro
per quanto semplici indagini personali".
Viene in altre parole attribuita
grande importanza alla discussione tra pari, mediata dall'insegnante
per realizzare connessioni significative tra concezioni alternative
e conoscenze formalizzate. Non vi è tuttavia l'illusione che i
concetti fondamentali delle discipline possano essere riscoperti
dagli studenti. "I modelli teoretici e le convenzioni scientifiche
non saranno "scoperti" dai ragazzi mediante la loro attività
pratica. Essi devono essere presentati. E' perciò necessaria una
guida per aiutare i bambini ad incorporare le loro esperienze
pratiche in quello che costituisce presumibilmente un nuovo modo di
pensare riguardo ad esse”.
Riflessioni critiche sul
costruttivismo
Il costruttivismo costituisce
indubbiamente in riferimento all'insegnamento scientifico un modello
pedagogico di grande rilevanza: esso si è proposto di realizzare una
sintesi tra gli aspetti più fondati delle diverse teorie
psicologiche e pedagogiche; ha cercato inoltre di saldare la
dimensione psicopedagogica con una riflessione epistemologica sia di
tipo generale sulla conoscenza scientifica che specifica, sulle
strutture concettuali delle singole discipline. Il costruttivismo ha
contribuito inoltre, grazie alle innumerevoli ricerche effettuate, a
mostrare in modo incontrovertibile, l'inconsistenza cognitiva
dell'insegnamento scientifico oggi prevalente basato sulle strutture
specialistiche delle discipline.
Il costruttivismo rappresenta
indubbiamente uno dei principali punti di riferimento per chi fa
ricerca in ambito di didattica delle scienze. Tuttavia ci sembra che
la strada aperta dal costruttivismo vada ancora ampliata ed
approfondita. In particolare, in riferimento alla scuola di base, la
scuola dai 3 ai 14 anni, ci sembra non siano state colte tutte le
conseguenze delle critiche rivolte al modello pedagogico bruneriano
del Dopo Dewey:
mentre, a nostro parere, l'educazione scientifica nella scuola
elementare e media non può essere organizzata sulla base dei
concetti fondamentali delle discipline, la posizione dei
costruttivisti è tutt'altro che chiara. L'impressione che si ricava
è che siano rimasti a metà del cammino. Quale la spiegazione ?
Si ha l'impressione, da una
parte, che l'opera di sintesi effettuata della tradizione
psicologica e pedagogica sia stata troppo affrettata ed unilaterale
(che, ad esempio, il contributo piagetiano non sia stato
adeguatamente compreso), e dall'altra, che l'impostazione
epistemologica sia stata troppo influenzata da alcuni temi dominanti
nel dibattito epistemologico suscitato dal libro di Kuhn "La
struttura delle rivoluzioni scientifiche". In ambito di esperti di
didattica delle scienze si è passati cioè, in modo poco meditato, da
una visione di tipo positivistico ad una concezione pervasivamente
di tipo teoreticistico; si è conseguentemente dimenticato totalmente
il ruolo dell'induzione nello sviluppo scientifico, l'acquisizione,
cioè, di conoscenze che si realizza, seppur all'interno di quadri
teorici, senza ipotesi specifiche. In questi ultimi venti anni, si è
sottolineata, spesso enfatizzata, l'importanza nella scienza del
procedimento ipotetico-deduttivo senza coglierne purtroppo le più
importanti implicazioni pedagogiche.
Mostrando che i concetti
scientifici significativi non sono stati ricavati direttamente da
osservazioni ed esperimenti, ma sono sempre stati il frutto della
capacità di andare oltre i dati percettivi, della genialità dei
grandi scienziati, è stata giustamente indicata l'illusorietà sia
degli epistemologi induttivisti sia di quei pedagogisti che hanno
sostenuto metodi basati sulla scoperta dei concetti scientifici da
parte degli studenti. Ma non si sono analizzate in modo rigoroso e
conseguente le implicazioni di queste conclusioni epistemologiche
sul piano psicopedagogico, non è stata cioè discussa in modo serio
la congruità dei concetti scientifici, tutti caratterizzati secondo
quest'impostazione teoreticistica, dalla capacità "di spiegare il
noto per mezzo dell'ignoto" con le strutture cognitive del bambino e
dell'adolescente.
La conclusione pedagogica più
rilevante non è stata in genere colta: dal punto di vista
psicopedagogico è insostenibile l'insegnamento della maggior parte
dei concetti scientifici prima che si sia realizzato un adeguato
consolidamento delle strutture cognitive dello studente, finché,
cioè, lo studente non abbia effettuato un lungo percorso educativo
che l'abbia portato ad acquisire consapevolezza, riflessione e
razionalità intorno a problematiche e fenomenologie connesse, o
simili sul piano cognitivo, all'esperienza quotidiana. Non
condividiamo quindi l'ipotesi prospettata da molti costruttivisti
che sia possibile insegnare molti concetti scientifici fondamentali
anche a studenti della scuola elementare e della scuola media.
Noi viceversa riteniamo che vi
siano dei limiti precisi nell'apprendimento dovuti all'età; saremmo
quasi portati ad affermare che non vi dovrebbe essere insegnamento
scientifico nella scuola di base se la scienza fosse completamente
riducibile al procedimento ipotetico-deduttivo.
Le conoscenze fenomenologiche
Lo sviluppo scientifico della
fisica, della chimica, della biologia, ecc., si è realizzato
sostanzialmente negli ultimi quattro secoli, ma ciò non significa
che nei secoli o millenni precedenti non fosse stato elaborato nulla
di significativo. Riprendendo l'esempio della chimica, la sua
fondazione scientifica si realizzò soltanto nella seconda metà del
Settecento grazie alle geniali intuizioni lavoisieriane, ma essa fu
possibile anche grazie alle conoscenze accumulatesi nel corso dei
secoli: queste di per sé non erano state sufficienti per ricavare
induttivamente i principi basilari della chimica, quali quello di
elemento e di composto, ma avevano permesso di individuare,
descrivere e definire specifici ambiti fenomenologici. In
particolare, durante il Seicento ed il Settecento, per mezzo di
attività, sostanzialmente di tipo induttivo di artigiani e
scienziati, era stato possibile acquisire quella che Lavoisier
considererà poi "la parte più certa e più completa della chimica",
e cioè la conoscenza fenomenologica che i sali si ottengono dalla
combinazione di acidi e sostanze basiche.
Che differenza abissale tra il
significato attribuito alla parola "teoria" da Lavoisier e dai
manuali contemporanei di chimica! Mentre per questi ultimi soltanto
spiegazioni in termini di modelli microscopici possono aspirare ad
essere considerati "teoria", per Lavoisier erano "teoria" importanti
generalizzazioni fenomenologiche. Per il grande chimico
francese vi era una profonda differenza tra un ricettario di
sostanze, come erano i manuali seicenteschi -che consistevano in un
accumulo bruto di conoscenze empiriche- ed un libro che iniziava a
raccogliere molte di queste sostanze in classi ed era anche in grado
di indicare alcune importanti relazioni tra classi.
Tutto ciò ha secondo noi delle
decisive implicazioni con l'insegnamento scientifico nella scuola di
base: riteniamo infatti che la sua impostazione debba essere qui
essenzialmente di tipo fenomenologico. Siamo quindi totalmente in
disaccordo con la Driver e molti altri costruttivisti che tendono ad
evidenziare anche sul piano educativo i profondi limiti delle
attività sperimentali, di attività di tipo induttivo: essi non
attribuiscono grande rilevanza, nella prima alfabetizzazione
scientifica, a conoscenze strettamente connesse ad aspetti
operativi. Noi pensiamo, invece, che prima di spiegare i fenomeni
scientifici occorra conoscerli, e riteniamo che sia
indispensabile a questo proposito un lungo lasso di tempo,
corrispondente per i fenomeni percettivamente elementari
sostanzialmente alla scuola di base.
E' a questo punto necessario
effettuare una puntualizzazione: noi pensiamo che nella scuola di
base procedimenti di tipo induttivo debbano svolgere un ruolo
decisivo, ma ciò non significa che ricadiamo nell'errore di molti
sperimentalisti ingenui; siamo, cioè, perfettamente consapevoli che
molti fatti scientifici sono carichi di teoria e che vi è
quindi un intreccio costante tra aspetti fenomenici ed aspetti
teorici. Ma, come le teorie ed i concetti non sono sullo stesso
livello di complessità, così anche i fenomeni sono, seppur in senso
lato, gerarchizzati. Ritorna quindi di nuovo in campo l'analisi
epistemologica per individuare i livelli di complessità degli
aspetti fenomenologici.
Ci rendiamo perfettamente conto
che la formulazione "conoscenza dei fenomeni scientifici" ha una
dose di ambiguità; occorre infatti effettuare delle scelte molto
precise all'interno della fenomenologia scientifica, individuando i
fenomeni il più possibile "privi di conoscenze teoriche specifiche",
se non quelle già costruite negli anni precedenti, e quindi
sostanzialmente connessi ad attività di osservazione e
sperimentazione.
Un esempio di sperimentalismo
ingenuo
Per esplicitare in modo più
chiaro la nostra proposta, prendiamo un esempio tra i tanti: il
fenomeno della combustione.Questo costituisce un argomento
tradizionalmente presente anche nella scuola elementare: in tutti i
sussidiari è illustrato l'esperimento della candela, collocata in
una bacinella contenente acqua, che si spenge quando viene messa
sotto un recipiente di vetro; immediatamente vengono ricavate le
seguenti conclusioni: 1) la combustione è un fenomeno che avviene
per combinazione con l'ossigeno; 2) la candela si spenge perché
l'ossigeno si è consumato; 3) ed infine l'ossigeno è circa 1/5
dell'aria, come si capisce dall'innalzamento dell'acqua.
Ora alcune di queste affermazioni
sono vere, altre sono false, ma tutte non sono ricavabili soltanto
dall'osservazione di questo esperimento. Ci troviamo di fronte ad
uno degli innumerevoli esempi di sperimentalismo ingenuo, che in
questo, come negli altri casi, non differisce in nulla dal
nozionismo trasmissivo più insignificante. Fare degli esperimenti
non serve a nulla se le conclusioni che si ricavano dipendono
soltanto dalle conoscenze che l'insegnante ha già e lo studente non
ha.
Esperimenti di questo tipo erano
conosciuti da millenni: la combustione è infatti uno dei fenomeni
chimici più importanti nella storia dell'umanità. Basta pensare alla
scoperta del fuoco ed alla funzione delle fornaci nell'antichità
nella scoperta delle tecniche della ceramica e dei metalli. Fin dai
tempi dell'antico Egitto fu acquisita la consapevolezza che
occorreva soffiare aria nelle fornaci per avere del fuoco più
potente e capace di fondere il rame ed il ferro. Tuttavia le
conoscenze significative sulla combustione sono rimaste soltanto di
tipo fenomenologico fino a Lavoisier; anzi la rivoluzione chimica
lavoisieriana ebbe proprio inizio con la più grande scoperta della
chimica, ebbe, cioè, inizio con l'ipotesi lavoisieriana che il
fenomeno della combustione consiste in una combinazione chimica tra
combustibile ed aria; furono poi necessari alcuni anni per
comprendere che soltanto una parte dell'aria è attiva (essa venne
allora chiamata ossigeno).
La rivoluzione chimica
lavoisieriana costituiva una confutazione totale della teoria del
flogisto che durante il Settecento era stata considerata una grande
teoria scientifica, capace di spiegare molti fenomeni chimici.
Questa teoria aveva compreso che combustione e calcinazione dei
metalli sono due fenomeni chimici simili nonostante la diversa
apparenza fenomenica, ma era arrivata a questa importante conoscenza
sulla base di una spiegazione sbagliata: la teoria del flogisto
affermava infatti che in ambedue i fenomeni vi era, invece che
combinazione con aria, emissione di flogisto. Furono necessari 20
anni per l'affermazione della teoria lavoisieriana; molti chimici
affermati non l'accettarono mai. E’ emblematico il caso del grande
chimico sperimentalista Priestley che fino alla morte considerò vera
la teoria del flogisto, nonostante che fosse stato lui ad effettuare
per primo molti esperimenti che vennero poi utilizzati da Lavoisier
per confermare ed approfondire la sua teoria.
I chimici ormai affermati
dovevano effettuare una specie di conversione: erano in gioco
due visioni del mondo totalmente opposte. Sono rivelatrici di queste
immani difficoltà epistemologiche e psicologiche le seguenti
considerazioni che il grande chimico francese Macquer effettuò nella
seconda edizione del suo "Dizionario di chimica" nel 1778: "Se ciò
fosse vero, verrebbe distrutta tutta la teoria del flogisto, cioè
del fuoco combinato. A tal idea non ha però almeno finora
acconsentito questo valente fisico (Lavoisier), e sopra un punto
così delicato vuole ancora sospendere il suo giudizio. Questa
cautela è certamente lodevole, essendo appunto quella, che forma il
carattere d'un vero chimico, di cui fregiati non sono que' fisici, i
quali non conoscendo il pregio di questa bella scienza, si credono
capaci di realmente rovesciarla, e colla scorta d'un solo fatto, che
essi suppongono bastantemente comprovato, presumono di oscurare in
un momento tutto lo splendore di una delle più grandi teorie, a cui
siasi innalzato il genio della chimica: d'una teoria appoggiata ad
un numero sorprendente di convincenti esperienze, alla forza delle
quali non possono resistere neppure i talenti più illuminati".
Apparentemente l'esperimento
della candela è estremamente semplice, è sul piano pratico
facilmente eseguibile, la sua complessità è infatti concettuale. Se
l'esperimento viene effettuato nel secondo ciclo della scuola
elementare, probabilmente potrebbe capitare che siano i bambini
stessi a prospettare la nozione dell'ossigeno, senza però avere
minimamente la capacità di raccordarla a ciò che hanno osservato.
La nozione dell'ossigeno funziona
come pre-concetto, nell'accezione deweiana del termine, che
impedisce al bambino di utilizzare la propria mente per investigare
il problema. "Non vi è niente nel mero fatto del pensiero, in quanto
identico alla credenza, che possa rilevare se quest'ultima è ben
fondata o no. Poniamo che due diverse persone dicano: "Io penso che
il mondo è sferico". Una di esse, se messa alla prova, può non
essere capace di dare che poche o addirittura nessuna spiegazione
del perché pensa come pensa. La sua è un'idea presa dagli altri ed
accettata perché è un'idea generalmente corrente, non perché
l'individuo ha esaminato la questione o perché la sua mente ha avuto
una parte attiva nel raggiungere e concepire quella credenza.
"Pensieri" del genere affiorano inconsciamente. Ci si imbatte in
essi non si sa come. Da oscure sorgenti e per vie sconosciute essi
si insinuano nella mente e diventano senza che ce ne accorgiamo
parte del nostro equipaggiamento mentale. Ne sono responsabili la
tradizione, l'istruzione, l'imitazione, ognuna delle quali cose o
dipende da una qualche autorevole fonte o fa appello ad un nostro
personale vantaggio, o coincide con qualche forte nostra passione.
Pensieri siffatti sono pregiudizi; cioè giudizi pre-maturi,
non conclusioni raggiunte come risultato di una personale attività
mentale quali l'osservare, il raccogliere ed esaminare i dati. Anche
quando accade che tali giudizi siano corretti, la correttezza è una
faccenda accidentale, almeno per quello che concerne la persona che
li accoglie".
Vi sono innumerevoli termini che
fanno ormai parte del senso comune, come il termine "ossigeno"; essi
sono tuttavia carichi di teoria e funzionano quindi anche per molti
adulti sul piano cognitivo come pre-giudizi. Essi non possono
evidentemente essere esorcizzati: se si effettuasse, per esempio,
l'esperimento con la candela con lo scopo effettivamente accessibile
sulla base della sola osservazione di rendersi conto che l'aria ha
un ruolo, e venisse prospettata dai bambini la nozione del consumo
di ossigeno, essa non può evidentemente essere rifiutata, ma sarebbe
sbagliato nella scuola elementare concentrare l'attività educativa
su quest'aspetto.
Spesso gli insegnanti confondono
la conoscenza da parte degli studenti di termini scientifici con la
conoscenza del loro significato. Ora anche molti adulti conoscono
termini specialistici, sopratutto grazie ai mas-media, senza avere
la minima idea del loro significato.
La conclusione che si deve
ricavare da queste riflessioni è allora quella che della combustione
è meglio non parlare nella scuola elementare ?
Tutt'altro, la conclusione è che
ci si deve limitare ad un approccio fenomenologico. La
combustione è sicuramente già conosciuta dai bambini del secondo
ciclo della scuola elementare; nella vita quotidiana più volte è
loro capitato di assistere a fenomeni di combustione, quali
l'accensione di un fiammifero, dei fornelli di una cucina a gas, o
di un braciere con carbone o legna, ecc. Ma la conoscenza spontanea
di questa fenomenologia, come in generale di tutte le fenomenologie,
è irriflessiva, inconsapevole, asistematica, in quanto si
verifica essenzialmente attraverso i sistemi della rappresentazione
attiva ed in particolare iconica. Raramente nella vita quotidiana,
ad eccezione di chi svolge mansioni o mestieri particolari, vi è
l'esigenza di attivare in riferimento a fenomenologie di carattere
scientifico il sistema di rappresentazione simbolico, cioè quello
della consapevolezza.
Approccio fenomenologico
significa, quindi, essenzialmente attivazione del sistema simbolico,
perché se ci si limitasse ai sistemi attivo ed iconico si farebbero
pochi passi in avanti rispetto alla conoscenza di senso comune. In
particolare poi se la fenomenologia facesse già parte
dell'esperienza quotidiana, l'attività didattica sarebbe
sostanzialmente inutile, se invece non ne facesse parte si avrebbe
comunque un ampliamento della base esperienziale. Le fasi della
rappresentazione attiva ed iconica non vanno evidentemente saltate,
ma non ci si può fermare ad esse.
La proposta metodologica
Riprendendo l'esempio della
combustione, la prima fase dell'attività didattica non può
non essere che l'esecuzione di alcuni esperimenti di combustione,
per mezzo dei quali gli studenti rinnoveranno determinate immagini
mentali più o meno familiari.
Noi pensiamo che questo possa
essere assunto come un principio generale: anche quando la
fenomenologia in oggetto è molto presente nella vita quotidiana
occorre sempre prevedere come prima fase un'attività di
sperimentazione e/o di osservazione.
La seconda fase è
generalmente quella della verbalizzazione scritta individuale.
Riteniamo, in altre parole, che il bambino, dopo aver effettuato (o
man mano che effettua) un esperimento, debba innanzitutto,
generalmente, essere impegnato individualmente in un'attività di
riflessione, debba cioè tradurre in linguaggio scritto (e/o in certi
casi in disegni, schemi e rappresentazioni di altro tipo) le sue
conoscenze attive ed iconiche. Nel processo di concettualizzazione,
la verbalizzazione scritta individuale ci sembra una fase
prioritaria ed ineliminabile in quanto, innanzitutto, pensiamo che
in generale,
ed in particolare per lo studente della scuola di base, essa
costituisca il modo principale per sviluppare consapevolezza e
riflessione in relazione a qualcosa che sta osservando - non
riusciamo infatti ad immaginare che cosa possa significare dare ai
bambini la consegna di riflettere su qualcosa che si sta
sperimentando senza l'utilizzo della verbalizzazione scritta -; ed
in secondo luogo perché, diversamente dalla discussione collettiva,
permette effettivamente a ciascun bambino di iniziare a
cercare di "mettere in forma", sulla base delle proprie strutture
cognitive , "il mondo" che sta osservando. Dopo che ciascun bambino
ha costruito le proprie rappresentazioni, le proprie ipotesi, il
momento del confronto, della discussione collettiva, diventa
effettivamente decisivo sia nello sviluppo della concettualizzazione
che nel potenziamento della motivazione.
La terza fase è quella della
discussione collettiva, del confronto; la quarta fase è quella
dell’affinamento della concettualizzazione. La terza fase è quella
più consolidata sia sul piano teorico che sul quello pratico.
Indubbiamente, infatti, questa fase è impiegata da molti insegnanti
elementari, anche se raramente con piena padronanza epistemologica e
tecnica della metodologia. Nel dibattito teorico italiano, rilevanti
sono i contributi forniti da Clotilde Pontecorvo nell’evidenziare,
rifacendosi al cognitivismo americano di ispirazione vygotskiana, il
grande significato motivazionale, cognitivo e comportamentale del
confronto e della discussione in classe.
Non abbiano nulla da aggiungere a queste riflessioni nei loro
aspetti generali di proposta pedagogico-metodologica adatta a tutti
gli ambiti disciplinari. L’unica considerazione che riteniamo
necessario sviluppare è in riferimento all’educazione scientifica:
la terza fase ha, anche a nostro parere grande importanza, ma non di
per sé, e solo nella misura in cui è connessa alle prime due, solo
in quanto, cioè, contribuisce in modo determinante con l’intervento
dei pari all’affinamento, con correzioni e completamenti, della
costruzione della conoscenza che ciascun studente ha già realizzato.
Abbiamo preferito aggiungere una
quarta fase, nonostante che l’affinamento della conoscenza si
realizzi essenzialmente nella terza, perché c’è bisogno anche di un
momento in cui ciascun bambino corregga, modifichi e integri, alla
luce della discussione collettiva, la sua precedente
concettualizzazione.
Anche la quinta fase,
infine, quella della sintesi collettiva, è strettamente connessa
alla terza, ma abbiamo ritenuto da alcuni anni necessario
evidenziarla per la seguente motivazione: l’insegnante alla fine
dell’attività, utilizzando tutto il materiale prodotto e condiviso
dagli studenti, ne realizza una sintesi scritta graficamente chiara
e linguisticamente corretta, che deve poi essere fotocopiata per
tutti i bambini e incollata nel loro quaderno. Ci siamo convinti di
questa necessità, perché, da una parte, le modalità con cui i
bambini realizzano l’affinamento della concettualizzazione sono
troppo diversificate, anche nella chiarezza grafica, e perché
dall’altra, è necessario che il quaderno, che rappresenta il
resoconto del processo di costruzione della conoscenza, contenga
anche delle sintesi di questo processo comuni a tutti gli studenti.
Se le cinque fasi del modello
metodologico proposto sono tutte necessarie e tra loro strettamente
interdipendenti, indubbiamente quelle più innovative sono, a nostro
parere, la seconda e la quarta, quelle, cioè, che postulano,
all’interno di un processo di costruzione della conoscenza
scientifica caratterizzato significativamente dalle dimensioni
fenomenologica, sociale e relazionale, anche delle attività
cognitivo-linguistiche individuali. Infatti se queste due fasi
fossero saltate, l’attività procederebbe indubbiamente in modo molto
più spedito e sarebbe quindi possibile affrontare molte più
problematiche, ma la concettualizzazione non sarebbe generalmente
realizzata da nessuno studente; la sintesi collettiva sarebbe in
questo caso effettuata, non solo graficamente, soltanto
dall’insegnante che la realizzerebbe componendo in una struttura
organica le impressioni atomiche esplicitate ora dall’uno ed ora
dall’altro studente. Prendendo ancora, ad esempio, la descrizione di
un esperimento, la concettualizzazione non consiste nell’indicare
qualche aspetto disorganico del fenomeno, ma nel coglierne gli
aspetti significativi nella loro successione spaziale e temporale;
la concettualizzazione non consiste, cioè, in un’elencazione atomica
di aspetti percettivi, ma nella loro concatenazione in una trama
narrativa.
Il ruolo degli esperimenti
Riteniamo necessario effettuare
ulteriori considerazioni sulla prima fase. Continuiamo a
considerare, come si è già detto, un principio irrinunciabile,
il dogma dell'attivismo, dell'impossibilità di prescindere dal
contatto diretto con le cose. Ci sembra infatti che molti
esperti, che si rifanno al costruttivismo, vi abbiano nella sostanza
rinunciato attribuendo in sua vece, anche nella didattica e non solo
nella ricerca, un ruolo centrale soltanto alla ricognizione delle
concezioni degli studenti. Noi continuiamo invece a pensare che la
costruzione del significato, in particolare nella scuola di base,
non possa fare a meno del contatto diretto con le cose.
Continuiamo infatti a ritenere un assioma del processo educativo
anche dei prossimi decenni le seguenti considerazioni di Dewey:
"Tentare di dare un significato tramite la parola soltanto, senza
una qualsiasi relazione con la cosa, significa privare la parola di
ogni significazione intellegibile; è contro questo tentativo, una
tendenza purtroppo prevalente nell'educazione, che i riformatori
hanno protestato (...) In primo luogo essi (i simboli) rappresentano
per una persona questi significati solo quando essa ha avuto
esperienza di una qualche situazione rispetto a cui questi
significati sono effettivamente rilevanti. Le parole possono isolare
e conservare un significato solo allorché esso è stato in precedenza
implicato nei nostri contatti diretti con le cose (...) Inoltre vi è
la tendenza ad ammettere che ovunque vi sia una definita parola o
forma linguistica, vi sia anche un'idea definita; mentre, in realtà,
sia gli adulti che i fanciulli possono adoperare formule verbalmente
precise, avendo solo la più vaga e confusa idea di ciò che esse
significano. E' più proficua la genuina ignoranza perché è
facilmente accompagnata da umiltà, curiosità ed apertura mentale;
mentre l'abilità a ripetere frasi fatte, termini convenzionali,
proposizioni familiari, crea la presunzione del sapere e spalma la
mente di una vernice impenetrabile alle nuove idee".
Riteniamo, tuttavia, necessario
prendere le distanze da alcuni aspetti dell'attivismo che hanno
sicuramente contribuito, nonostante le sue nobili intenzioni, al suo
discredito e alla sua sconfitta. La parabola dell'attivismo non
riguarda ovviamente soltanto l'educazione scientifica, ma se
osserviamo l'evoluzione dell'insegnamento scientifico negli ultimi
quarant'anni, dopo il libro di Bruner già citato, non si può non
prendere atto della sua sconfitta. Nel movimento attivistico,
l'attività di sperimentazione, l'attività concreta, l'attività in
prima persona da parte del bambino sono diventate spesso dei fini;
sono state inoltre molte volte trascurate le attività di
riflessione, di concettualizzazione; è stata sottovalutata in modo
macroscopico la dimensione linguistica.
Nell'ipotesi da noi prospettata,
che cerca di realizzare una sintesi tra paradigmi generalmente
contrapposti, quello piagetiano e quello vygotskiano, la prima fase,
quella sperimentale-osservativa, rimane imprescindibile, ma non deve
essere in generale quella più impegnativa né temporalmente né come
impegno cognitivo richiesto allo studente. Pensiamo infatti che,
proprio per le caratteristiche dello studente della scuola di base -
per le sue capacità di attenzione e per i limiti nel mantenere la
motivazione - gli esperimenti proposti debbano essere semplici e di
veloce esecuzione.
La maggior parte del tempo deve
essere, quindi, riservata alle fasi di concettualizzazione, deve
essere, cioè, dedicata alla verbalizzazione scritta (più in generale
alla rappresentazione) e alla discussione collettiva. La dimensione
linguistica assume conseguentemente nella nostra proposta un ruolo
centrale, non evidentemente come attività estemporanea dettata da
esigenze aprioristiche, ma come strumento fondamentale per il
bambino per dare significato al mondo che sta osservando.
L’importanza della dimensione linguistica in tutti gli ambiti
disciplinari rappresenta indubbiamente un’antica consapevolezza dei
linguisti, che è riuscita a farsi strada, però purtroppo
generalmente soltanto come petizione di principio, sia nei programmi
della scuola media del 1979 che in quelli della scuola elementare
del 1985. Noi pensiamo che la dimensione linguistica sia essenziale
per un’educazione scientifica adeguata, e riteniamo inoltre che
l’utilizzo del linguaggio, come da noi indicato nell’insegnamento
scientifico, sia un fattore importante per lo sviluppo della
competenza linguistica generale dello studente.
Rispetto all'impostazione più
diffusa nella scuola elementare, sostanzialmente anche qui di tipo
trasmissivo, l'educazione scientifica impostata in questo modo
necessita di tempi molto più dilatati per ciascuna percorso
didattico; e ciò implica la necessità di scelte precise rispetto ai
contenuti da proporre, come d'altra parte era già indicato dai
programmi del 79 e del 85. E' molto diffusa sia nella scuola
elementare che nella scuola media la sindrome della scuola
successiva: gli insegnanti della scuola media e della scuola
secondaria superiore richiederebbero alla scuola precedente studenti
con più solide basi scientifiche (la sindrome c'è ovviamente anche
per le altre discipline), cioè, con il maggior numero possibile di
nozioni scientifiche. Vi è qui evidentemente un totale
fraintendimento, determinato potentemente dall'impostazione
enciclopedica e trasmissiva dei libri di testo, di che cosa
significhi "basi scientifiche" per uno studente della scuola di
base.
Un altro dogma infine che non
condividiamo è quello che gli esperimenti siano significativi
soltanto se sono eseguiti direttamente dal bambino. Ora, noi siamo
perfettamente consapevoli dell'importanza dell'attività del bambino,
e continuiamo a ritenere fondamentale il costrutto piagetiano di
azione-operazione. Pensiamo, quindi, che quante più occasioni di
attività diretta da parte del bambino vi siano nella scuola di base
meglio sia, a condizione però che queste occasioni non si
esauriscano in se stesse, a condizione però che non vengano
trascurate le altre fasi della concettualizzazione.
Sul piano teorico non si può non
essere d'accordo; tuttavia, la realtà, che è fatta spesso di classi
di 25 e più bambini, è molto più complessa: può risultare infatti
impossibile condurre in modo produttivo attività in cui sempre i
bambini agiscano in prima persona. Noi riteniamo, quindi, che debba
essere lasciata all'insegnante la possibilità di effettuare una
mediazione tra le esigenze teoriche ed i limiti imposti dalla realtà
scolastica, che debba, cioè, l'insegnante scegliere quali
esperimenti sia indispensabile far fare direttamente ai bambini e
quali esperimenti possano essere fatti collettivamente. Se si
indicano agli insegnanti delle mete teoricamente ineccepibili ma
praticamente ingestibili si rischia di contribuire al mantenimento
dello status quo, giustificando agli occhi dell'insegnante, per la
sua maggiore praticità ed efficacia, la didattica tradizionale
trasmissiva.
Non condividiamo, quindi, quanto
afferma Piaget a questo proposito: "Pare che molti educatori,
credendo di applicare i miei principi di psicologia, si limitino a
mostrare degli oggetti senza procedere a farli manipolare dai
bambini stessi, oppure, ancora peggio, semplicemente presentando
rappresentazioni audiovisive di oggetti (fotografie, film, ecc.)
nella credenza erronea che il semplice fatto di percepire gli
oggetti e le loro trasformazioni equivalga all'azione da parte di
chi apprende nell'esperienza diretta. Quest'ultimo è un grave errore
perché l'azione è istruttiva solo quando implica la concreta e
spontanea partecipazione del bambino stesso con tutti i goffi
tentativi e l'apparente spreco di tempo che tale partecipazione
implica. E' assolutamente necessario che gli scolari abbiano a loro
disposizione delle esperienze materiali concrete (e non solamente
delle illustrazioni), che essi formulino le loro personali ipotesi e
che le verifichino (o non le verifichino) loro stessi attraverso le
loro attive manipolazioni. Le attività di altri osservate, incluse
quelle dell'insegnante, non sono attività che formino nuove
organizzazioni nel bambino".
Queste affermazioni ci appaiono
emblematiche dell'attivismo più radicale e ci sembrano in
contraddizione con molte altre riflessioni piagetiane, ed in
particolare con il suo concetto di azione che è tutt'altro che
circoscritto alla dimensione concreta: pensiamo, infatti, di aver
compreso che per Piaget " un soggetto attivo è un soggetto che
confronta, esclude, ordina, categorizza, riformula, verifica,
elabora ipotesi, riorganizza,ecc.".
Cogliamo inoltre in queste affermazioni un'implicita
sottovalutazione, all'interno di una concezione costruttivista dello
sviluppo della conoscenza, del ruolo della dimensione linguistica.
Riteniamo, invece, che le precedenti considerazioni piagetiane siano
sostanzialmente condivisibili se riferite al bambino della fase
preoperatoria, ed in particolare al bambino della scuola
dell'infanzia.
Il fatto che determinati
esperimenti siano effettuati collettivamente ed eseguiti
materialmente dall'insegnante non deve tuttavia modificare le altre
fasi del processo di concettualizzazione. Gli esperimenti, anche in
questo caso, non debbono rappresentare la conferma o l'illustrazione
di qualche concetto spiegato precedentemente dall'insegnante, ma
devono servire a porre concretamente i fatti, cioè determinate
fenomenologie, davanti agli occhi e alla mente dei bambini; la
concettualizzazione avviene con le modalità già indicate, che sono
caratterizzate dal ruolo centrale dello studente, dal ruolo
decisivo, nella costruzione della conoscenza,della sua attività
intellettuale e linguistica. A noi appare, infatti, la dimensione
linguistica, sia individuale che collettiva, uno strumento
imprescindibile per lo studente per costruire la propria conoscenza,
per realizzare il passaggio da rappresentazioni intuitive,
irriflessive ed asistematiche a rappresentazioni consapevoli e
connesse. In questa prospettiva, pensiamo che la dimensione
linguistica sia quella che in modo più significativo possa rendere
possibile l'esplicitazione del ruolo attivo e costruttivo dello
studente. D'altra parte comprendiamo, anche se non condividiamo, la
profonda diffidenza dell'attivismo nei confronti del linguaggio,
tenendo conto del fatto che ancora oggi spesso il linguaggio è a
scuola lo strumento fondamentale di acquisizione delle nozioni e
delle informazioni in modo trasmissivo e non costruttivo.
Noi riteniamo che un'impostazione
di questo tipo permetta effettivamente all'insegnamento scientifico
di svolgere nella scuola di base le due funzioni fondamentali che
la migliore pedagogia contemporanea attribuisce a tutte le
discipline, cioè da una parte, di contribuire effettivamente al
processo formativo - e nello specifico delle scienze di contribuire
al potenziamento di capacità osservative - logiche - linguistiche,
e dall'altra, di fare acquisire, contemporaneamente, allo studente
solide conoscenze scientifiche elementari che costituiscano
realmente la base su cui continuare nella scuola secondaria la
costruzione della conoscenza scientifica.
La discussione collettiva
Abbiamo precedentemente
attribuito un ruolo centrale alla discussione collettiva, come
dimensione costitutiva dell'attività didattica; pensiamo però che vi
siano due condizioni imprescindibili da rispettare, e cioè che la
discussione si riferisca a fenomenologie, a problemi, a concetti,
che siano alla portata delle strutture cognitive degli studenti, e
che le ipotesi formulate siano sottoponibili a conferma sperimentale
o siano comunque controllabili dai bambini; tutto ciò implica, come
abbiamo già affermato, scelte adeguate dei contenuti.
Non crediamo, quindi, alla
valenza pedagogica di questa metodologia di per sé; pensiamo che vi
sia sempre una connessione stretta tra metodo e contenuti e pensiamo
che sia un retaggio dell'attivismo la loro separazione e la
conseguente mitizzazione del metodo in sé. Riteniamo che la
discussione collettiva applicata a contenuti complessi (come sono ad
esempio la maggior parte di unità didattiche di molti sussidiari del
secondo ciclo della scuola elementare, quando trattano il principale
argomento di scienze, il corpo umano) sia sostanzialmente
insignificante sia nella costruzione di conoscenze scientifiche
significative da parte dello studente che nel potenziamento delle
sue strutture cognitive.
Consideriamo importante
l'attività del fare ipotesi da parte dei bambini, in certi casi
essenziale, a condizione tuttavia che anche questa attività si
riferisca a problemi da loro dominabili e non sia soltanto un
esercizio di immaginazione fantascientifica. Vi è chi, per un
popperismo male inteso, ha prospettato come centrali anche per la
scuola elementare il momento dell'ipotesi nel significato che assume
nel procedimento ipotetico-deduttivo. Riteniamo invece che
l'attività del fare ipotesi che crediamo sia utile nella scuola
elementare e nella scuola media sia quella connessa invece al
significato piagetiano: consiste nel tentativo di pensare il
possibile, quello che protrebbe accadere, come le cose dovrebbero
essere sulla base delle conoscenze passate e delle competenze
logiche gia consolidate.
L'attività del fare ipotesi è
inoltre, a nostro parere, in certi casi essenziale per
un'acquisizione intelligente e non cieca, nel significo di
Whertheimer,
di determinate conoscenze. Prendiamo un esempio adatto ad una quarta
o quinta elementare. Una problematica scientifica su cui riteniamo
importante lavorare è quella dell'evaporazione, dell'ebollizione e
della distillazione dell'acqua; dopo che questi fenomeni sono stati
concettualizzati, può essere effettuato un ulteriore
approfondimento: alla definizione operativa di ebollizione
dell'acqua può essere aggiunto l'attributo "l'acqua bolle a 100
gradi". Molti adulti hanno questa nozione ma non conoscono il suo
significato, perché l'hanno appreso o come pura formulazione
linguistica o a volte per mezzo dell'immagine del diagramma
relativo. Ma anche in quest'ultimo caso il significato non è stato
acquisito perché non vi è la capacità di passare da una conoscenza
astratta, generale ad una conoscenza concreta. Questo è uno degli
innumerevoli concetti scientifici che ci portano a concludere che
Piaget sia stato ottimista rispetto allo stadio delle operazioni
formali; nel nostro esempio pensiamo che sia ben oltre i 14 anni
l'età in cui lo studente comprende il fenomeno in oggetto soltanto
sulla base dell'immagine del diagramma.
Non si può quindi prescindere
dall'esperimento, ma esso può essere effettuato per lo meno con due
modalità, una cieca ed una intelligente. Sarebbe infatti cieca
la semplice constatazione sperimentale che all'ebollizione la
temperatura dell'acqua non cambia, rimane costantemente a 100 °C (in
realtà non è mai 100 -ma è comunque costante- perché l'acqua non è
pura, i termometri non sono precisi, la pressione atmosferica non è
1 atmosfera). Operando in questo modo lo studente acquisirebbe
effettivamente il significato dell'espressione "l'acqua bolle a 100
°C", e non la sola formulazione linguistica, ma sarebbe pur sempre
una acquisizione non intelligente perché lo studente la farebbe
propria come una cosa ovvia, non problematica, logica, quando invece
non lo è.
Quella conoscenza diventa
intelligente quando lo studente acquisisce contemporaneamente la sua
apparente stranezza, la sua illogicità. L'esperimento (che consiste
nel registrare ogni 20-30 secondi per mezzo di un termometro la
temperatura dell'acqua contenuta in un becker e sottoposta a
riscaldamento) andrebbe quindi effettuato in due tempi: dopo alcuni
minuti, quando la temperatura è intorno a 40-50 °C, occorre
interrompere il riscaldamento e chiedere ai bambini che cosa si
aspettano che succeda alla temperatura dell'acqua continuando il
riscaldamento -ovviamente questa unità didattica presuppone alcune
altre attività, alcuni prerequisiti elementari sul riscaldamento dei
corpi, sul termometro come strumento che indica il "caldo" dei
corpi-. Quasi tutti i bambini effettueranno la previsione logica,
cioè che la temperatura dell'acqua continui a salire, non
ipotizzando un arresto all'ebollizione. Quando poi, ripreso il
riscaldamento, si arriverà all'ebollizione, i bambini constateranno
l'erroneità della loro ipotesi, constateranno la stranezza della
temperatura dell'acqua che rimane costante a 100 °C durante
l'ebollizione. Anche le affermazioni scientifiche più banali, non
sono in molti casi una diretta conseguenza dell'esperienza
quotidiana, del senso comune. Tuttavia in questo caso vi è uno
scarto limitato tra le strutture cognitive di un bambino di 10 anni
e la scienza; questa conoscenza è accessibile al bambino della
scuola elementare, ma è fondamentale che egli contemporaneamente
comprenda che essa è oltre l'apparenza percettiva, che essa non è in
continuità ma in contraddizione con l'esperienza quotidiana.
D'altra parte simile fu la reazione
iniziale degli scienziati settecenteschi che scoprirono questo
strano fenomeno: esso sembrò loro talmente anomalo, contradditorio
con la logica dell'esperienza quotidiana che, non capendo dove
andava a finire il calore che continuavano a fornire all'acqua
all'ebollizione -esso infatti non determinava più l'innalzamento
della temperatura - coniarono il termine "calore latente di
ebollizione" che significa calore che si nasconde all'ebollizione.
Questo termine, come molti altri termini scientifici, è poi rimasto
nell'uso scientifico, si utilizza ancora oggi, anche se con un
significato completamente diverso. Vi è qui, di nuovo, un
parallelismo significativo tra l'ontogenesi e la filogenesi.
Gli obiettivi trasversali
dell’educazione scientifica
Abbiamo lasciato questo nodo
pedagogico per ultimo non casualmente. In relazione all’importanza
che gli attribuiamo avremmo dovuto invece trattarlo per primo.
Abbiamo fatto questa scelta per voler evidenziare l’autonomia
culturale delle considerazioni e delle proposte rispetto a finalità
politiche e pedagogiche, di per sé ineccepibili, ma che potrebbero,
tuttavia, risultare estrinseche ad una fondazione solida di tipo
epistemologico e metodologico-didattico adeguata al sapere
scientifico. Ci interessa particolarmente, alla fine di questo
nostro contributo, cogliere la convergenza fra i due piani del
discorso. Da molto tempo vengono indicati, come obiettivi
fondamentali dell’educazione scientifica, obiettivi di carattere
generale, quali il contribuire allo sviluppo nello studente di
competenze osservative-logico-linguistiche. E questi obiettivi
vengono in generale prospettati, non solo per le scienze ma per
tutte le discipline, come per tutti gli insegnamenti viene indicata
come finalità fondamentale quella di contribuire alla formazione
democratica dell’uomo e del cittadino. Tuttavia, spesso questa
finalità e questi obiettivi rimangono delle proclamazioni di
intenti, che non trovano nessuna realizzazione nell’impostazione
tradizionale dell’insegnamento, e ciò non tanto per cattiva volontà
degli insegnanti, quanto per l’impossibilità epistemologica e
psicopedagogica di conferire una dimensione educativa, in una scuola
di tutti, a modelli di saperi che sono stati strutturati per formare
le elite.
Le proposte epistemologiche e
metodologiche effettuate possono, a nostro parere, effettivamente
contribuire alla formazione democratica e allo sviluppo di
competenze trasversali di carattere osservativo-logico-linguistico.
E lo possono fare perché gli obiettivi specifici di conoscenza
(conoscenze fenomenologiche) proposti per la scuola di base sono
soltanto quelli che possono essere acquisiti per mezzo della
metodologia da noi prospettata di carattere, appunto,
osservativo-logico-linguistico. Gli obiettivi generali possono
essere effettivamente realizzati perché sono stati trasformati, in
modo non estrinseco, nella modalità usuale, costante di conduzione
dell’attività didattica.
Considerazioni simili possono
essere effettuate per il contributo alla formazione democratica.
Anzi già lo sviluppo delle competenze trasversali precedentemente
indicate costituisce un aspetto fondamentale nella formazione
dell’uomo e del cittadino, in quanto viene facilitata la
realizzazione di uno sviluppo sinergico ed armonico sia della
componente culturale che di quella comportamentale. Ed in
particolare la proposta metodologica prospettata permette
costantemente di sviluppare, di nuovo in modo non estrinseco, alcuni
aspetti centrali della formazione democratica, quali: 1) l’apertura
mentale, 2) l’importanza del confronto e del dialogo, 3) un
atteggiamento non dogmatico e rigido, 4) il coinvolgimento emotivo,
5) l’adeguatezza cognitiva del materiale oggetto di studio, ecc.
Abbiamo più volte evidenziato
l’inutilità cognitiva della proposta culturale dell’insegnamento
scientifico tradizionale, in quanto i contenuti proposti risultano
generalmente incomprensibili. Alla fine del nostro contributo
vogliamo sottolinearne il significato educativo: sviluppare negli
studenti, nell’arco di molti anni, comportamenti opposti a quelli
indicati precedentemente, abituarli ad impegnarsi, a studiare e
memorizzare delle nozioni di cui non si conosce il significato hanno
indubbiamente un ruolo educativo, contribuiscono, infatti, a non
realizzare una formazione democratica.
Bibliografia
di educazione scientifica
- A.A.V.V., L'educazione
scientifica di base, Firenze, La Nuova Italia, 1979.
- A.A.V.V., Scienza e scuola di
base, Roma, Istituto Enciclopedia Italiana, 1979.
- F. Alfieri, M. Arcà, P. Guidoni,
Il senso di fare scienze. Un esempio di mediazione tra
cultura e scuola,
Torino, Bollati Boringhieri, 1995.
- F. Alfieri, M. Arcà, P. Guidoni,
I modi di fare scienze, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
- E. Aquilini, Il ruolo del
linguaggio nel passaggio dai concetti di senso comune ai concetti
scientifici, Insegnare, n.
11/12, 1999, pp. 34-37.
- E. Aquilini, Il ruolo del
concetto di gas nella costruzione delle basi della chimica, La
Chimica nella Scuola, n. 5, 2000,
pp.149-152.
- E. Aquilini, Quale concetto di
acido e base nella parte terminale dell'obbligo scolastico?,
La Chimica nella Scuola, n. 3,
2001, pp. 96-99.
- M. Arcà, P. Guidoni, P. Mazzoli,
Insegnare scienza, Milano, Angeli, 1982.
- M. Arcà, P Guidoni, Guardare
per sistemi, guardare per variabili, Torino, Emme-Petrini,
1987.
- A. Bagni, Il bisogno di senso
dell'insegnamento scientifico, in R. Conserva (a cura di), Il
nuovo esame di stato, Bologna,
Zanichelli, 1999. pp. 62-64.
- L. Barsantini,
Sull'insegnamento della fisica, Insegnare, n. 5, 2000, pp.
42-45.
- L. Barsantini, I fenomeni
termici, Insegnare, n. 7/8, 2000, pp. 43-48.
- L. Barsantini, C. Fiorentini,
L'insegnamento scientifico verso un curricolo vertcale. Volume
primo. I fenomeni chimic-fisici,
L'Aquila, IRRSAE Abruzzo, 2001.
- D. Basosi, L. Lachina,
L'insegnamento della biologia nella scuola dell'obbligo,
Insegnare, n.
9, 2000, pp. 43-46.
- L. Bastino, B. Sandretto, E.
Roletto, Imparare le scienze, imparare a scrivere: una
interdisciplinarità
funzionale, Insegnare, n. 1, 1997, pp. 42-49.
- C. Bernardini, Che cos'è una
legge fisica?, Roma, Editori Riuniti, 1983.
- A. Borsese, C. Fiorentini, E.
Roletto, Formule sulla leggibilità e comprensione del testo.
Considerazioni su una ricerca
relativa ai manuali di scienze della scuola media,
Scuola e
Città,
n. 12, 1996, pp. 524-527.
- J. Bruner, La cultura
dell’educazione, Feltrinelli, Milano 1997.
- F. Cambi, C. Fiorentini, F. Gori
(a cura di), L'arcipelago dei saperi. Progettazione
curricolare e percorsi
didattici nella scuola dell'autonomia. II Itinerari di
sperimentazione
in classe. Area Scientifica,
Firenze, Le Monnier,
2001.
- P. Cancellieri, P. Saracino, E.
Torracca, Definizioni operative di sistema omogeneo e di
sostanza pura,
Didattica delle Scienze, n. 113,
1984. p. 9
- G. Cavallini, La formazione dei
concetti scientifici, Firenze, La Nuova Italia, 1995.
- P. Conti, Per lo sviluppo delle
competenze scientifiche, L'Educatore, n.1, 1998, pp. 16-19.
- P. Conti, Un pensiero che
parla, agisce e rappresenta, L'Educatore, n. 6, 1999, pp. 7-11.
- G. Cortellini, A. Mazzoni,
L'insegnamento delle scienze verso un curricolo verticale.
Volume secondo. I fenomeni
biologici, L'Aquila, IRRSAE Abruzzo, 2002,
- G. Cortini (a cura di), Le
trame concettuali delle discipline scientifiche. Problemi
dell'insegnamento scientifico,
Firenze, La Nuova Italia,
1985.
- R. Driver, L'allievo come
scienziato? La formazione dei concetti scientifici nei
preadolescenti,
Bologna, Zanichelli, 1988.
- C. Fiorentini, La prima
chimica, Milano, Angeli, 1990.
- C. Fiorentini, Quali condizioni
per il rinnovamento del curricolo di scienze?, in F. Cambi (a
cura di), L'arcipelago dei
saperi. Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola
dell'autonomia,
Firenze, Le Monnier, 2000, pp.
275-290.
- Grimellini Tomasini e G. Segrè,
Conoscenze scientifiche: le rappresentazioni mentali degli
studenti, Firenze, La Nuova
Italia, 1991.
- R. Karplus, H. D. Thier,
Rinnovamento dell'educazione scientifica elementare, Bologna,
Zanichelli, 1971.
- M. Mayer, Conoscenza
scientifica e conoscenza di senso comune, Frascati, CEDE, 1987.
- A. Martinucci, R. Nencini, Gli
oggetti e le loro proprietà, Insegnare, n. 11/12, 1999, pp. 57-
60.
- P. Mirone, Per un più efficace
insegnamento delle scienze, Nuova Secondaria, n. 5, 1995,
pp. 21-24.
- P. Mirone, Per una definizione
operativa del concetto di reazione, Nuova Secondaria, n. 2,
1996, pp. 84-86.
- P. Mirone, Considerazioni sul
concetto di reazione chimica, La Chimica nella Scuola, n. 2,
1998, pp. 49-51.
- P. Mirone, Perché la chimica è
difficile?, La Chimica nella Scuola, n. 3, 1999, pp. 67-70.
- P. Mirone, E. Roletto,
Sostanze, miscele, reazioni: un'indagine sulle concezioni delle
matricole di chimica,
La Chimica nella Scuola, n. 4,
1999, pp. 116-121.
- F. Olmi, Ripensare i fondamenti
dell'insegnamento della chimica al biennio, La Chimica
nella Scuola, n. 1, 1997, pp.
9-13.
- C. Pontecorvo (a cura di),
Conoscenza scientifica e insegnamento, Torino, Loescher, 1983.
- P. Riani, Gli stati fisici
della materia: problemi relativi alla didattica a livello
dell'istruzione
obbligatoria,
La Chimica nella Scuola, n. 3, 1996,
pp. 85-89.
- E. Roletto, Epistemologia e
formazione degli insegnanti: punti di vista degli insegnanti sulla
scienza, Scuola e Città, n.
5-6, 1998, pp. 234-248.
- S. Tamburini, Cambiare la
scuola, in America, Sapere, n. 5, 1997, pp. 45-51.
-
E. Torracca, Una dimensione
storica nell'insegnamento della chimica?, Epsilon, n. 2, 1994,
pp. 17-22.