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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

IL RUOLO DEL LABORATORIO NELL’INSEGNAMENTO SCIENTIFICO NELLA SCUOLA DI BASE
Aspetti epistemologici, psicopedagogici e didattici

                                                                           Carlo Fiorentini

 

 

   Negli ultimi decenni si è sviluppata un'ampia ricerca sull'insegnamento scientifico, con un'impostazione costruttivista. Quali sono le sue ipotesi di fondo ?

   Vi è innanzitutto un opzione di tipo epistemologico sostanzialmente concorde con le acquisizioni della riflessione epistemologica degli ultimi quarant'anni, consistente nel rifiuto di concezioni induttivistiche della scienza. Viene in secondo luogo sottolineato un altro aspetto, la presenza negli individui di concezioni alternative a quelle accreditate, collegate al senso comune e particolarmente resistenti. Molte ricerche hanno infatti evidenziato che anche studenti ai primi anni dell'università, nonostante molti anni di insegnamento scientifico, continuano a condividere concezioni di tipo prescientifico.

    Si postula conseguentemente la necessità di partire dalle conoscenze degli studenti per impostare l'insegnamento scientifico. Viene individuato come uno dei concetti fondamentali della psicologia dell'educazione questa affermazione di Ausubel " Scopri quello che l'allievo conosce già e organizza di conseguenza il tuo insegnamento"[1].

   Ci proponiamo di entrare maggiormente nel merito di questa impostazione partendo da alcune considerazioni di Rosalind Driver, che di essa rappresenta uno dei più significativi esponenti.                                                   

   R. Driver prende completamente le distanze da impostazioni di tipo positivistico: "La concezione empiristica della scienza afferma che le idee e le teorie scientifiche si ottengono per un processo di induzione. Chi conduce delle indagini, si tratti di alunni o di scienziati esperti, dovrebbe procedere attraverso una sequenza di processi organizzati gerarchicamente, a partire dall'osservazione di "fatti". Sulla base di tali fatti si possono fare delle generalizzazioni e indurre delle ipotesi o delle teorie. Tuttavia l'attuale filosofia della scienza sostiene che questa concezione è erronea in quanto le ipotesi o le teorie non si collegano in nessun modo deduttivo con i dati cosiddetti "oggettivi", ma sono delle costruzioni, dei prodotti dell'immaginazione umana. Il loro collegamento con il mondo concreto si realizza attraverso il processo della verifica e dell'eventuale confutazione"[2].

   Per la Driver l'induzione non gioca quindi nessun ruolo né nello sviluppo scientifico né nel processo educativo."Una delle ragioni usualmente invocate a favore dell'insegnamento scientifico nella scuola è che esso forma gli alunni nelle capacità di osservare, di essere obiettivi e rigorosi allorché si tratta di registrare e riferire gli eventi. Ma persone diverse che osservano la stessa cosa possono percepirla in maniere piuttosto diverse. L'<<osservazione>> non consiste in una registrazione passiva di un fenomeno come si trattasse di una immagine che viene prodotta da una macchina fotografica. Si tratta invece di un processo attivo col quale l'osservatore controlla le proprie percezioni confrontandole con le proprie aspettative (...)  Finché le osservazioni non servono a rispondere ad una domanda posta con chiarezza è possibile che i ragazzi non registrino accuratamente quel che vedono"[3].

   L’impostazione induttivistica ha avuto un'ampia diffusione negli USA ed in Inghilterra grazie al rinforzo ricevuto "da concezioni puerocentriche dell'educazione, come quelle formulate da personalità quali Froebel, Dewey e Piaget"[4], nonostante che da molto tempo fossero stati acquisiti importanti risultati critici quali quelli indicati già dal rapporto del 1936 della Science Masters' Association.

   D'altra parte, la Driver prende anche le distanze dalla concezione strutturalista di Bruner, quale è stata prospettata nel libro Dopo Dewey, il processo di apprendimento nelle due culture; ricorda che a partire dal 1960 sono stati sviluppati molti programmi di scienze non più basati "sulla scienza come catologo di fatti", ma sui concetti fondamentali delle discipline scientifiche, "quali la teoria atomica in chimica o la teoria cinetica in fisica". Vi era sia un'esigenza di fornire un'idea più significativa della scienza che la convinzione pedagogica di una maggiore capacità di "transfert" di questi concetti. R. Driver non concorda, come molti altri psicologi e pedagogisti, con questa ipotesi pedagogica: "Uno dei problemi che sorgono di fronte a questo argomento è che i collegamenti che sono evidenti per uno scienziato possono risultare tutt'altro che ovvi per un alunno. Dopo tutto, ciò che conta nell'apprendimento è la coerenza quale è percepita da quest'ultimo (...) Se la teoria o il formalismo presentati agli alunni non vengono appresi in una maniera significativa, vengono presto dimenticati in quanto conoscenze utili e non vi si fa più ricorso in futuro: gli alunni stessi ritornano alle loro intuizioni o strutture precedenti"[5]. Nella impostazione di Bruner di quegli anni ci sarebbe, quindi, il limite opposto alla concezione di Dewey e Piaget, quello di adultismo, di specialismo professionale[6].

   R. Driver sembra collocarsi quindi in una posizione intermedia, recependo le istanze positive delle due impostazioni: ritiene infatti che sia necessario avvicinare già a partire dalla scuola elementare i bambini ai concetti fondamentali delle discipline, avendo tuttavia la consapevolezza dell'immane difficoltà del compito.

   Come è possibile diminuire il grande stacco esistente tra conoscenza di senso comune e conoscenze formalizzate, cioè far sì che la conoscenza scientifica diventi patrimonio effettivo dello studente ? La Driver fornisce tre indicazioni di grande rilevanza:

1) La necessità pedagogica di fornire modelli scientifici per approssimazione successiva.

   "In molti ambiti scientifici si possono interpretare i fenomeni secondo una varietà di livelli di raffinatezza, tutti quanti utili sotto questo profilo (...) Per esempio, c'è una giustificazione nell'attribuire tanta importanza al modello cinetico-molecolare nei corsi scientifici di base dal momento che gli alunni trovano tanto difficile comprenderlo abbastanza bene da utilizzarlo con fiducia ? Non sarebbe più produttivo accettare che alunni più giovani delle scuola secondaria si basassero su una nozione del calore come calorico ? Dopo tutto, gli ingegneri edili, ad esempio, procedono effettivamente nei loro calcoli della conducibilità termica dei materiali in base alle "quantità di calore" e alle "velocità di flusso". Dal punto di vista degli alunni è forse preferibile possedere un modello che funziona nell'interpretazione dei fenomeni, anche se lo si dovrà modificare più avanti, piuttosto che dover imparare delle idee più raffinate che servono solo a confondere".

   Sicuramente, afferma la Driver, c'è chi si opporrà a queste proposte sostenendo che non si debba mai insegnare nulla che debba essere "disappreso in seguito". Ma questo atteggiamento pedagogico non è per nella conforme né alle esperienze della vita quotidiana, né agli apprendimenti che si realizzano in contesti formali. "Noi siamo posti continuamente in situazioni nelle quali dobbiamo rivedere, sviluppare o scartare delle idee alla luce di nuovi dati". L'immane compito che è necessario affrontare e risolvere nell'educazione scientifica è quello di diminuire il fossato che oggi generalmente esiste tra le strutture cognitive degli studenti e le conoscenze scientifiche formali; e a questo scopo può essere necessario presentare agli studenti delle teorie parziali e provvisorie che essi possano comprendere senza tuttavia accettare come verità assolute. "A questo riguardo è importante distinguere tra capire e credere: è possibile e fondamentale riuscire a capire delle interpretazioni alternative, proposte da compagni di classe o di ricerca scientifica, senza necessariamente credere ad alcune di esse"[7].

     2) La necessità di tenere conto costantemente delle conoscenze dello studente.

   Come abbiamo già evidenziato nelle pagine precedenti, secondo la Driver e molti altri ricercatori questo assunto costituisce un nodo fondamentale sia sul piano interpretativo che diagnostico: le scienze potranno effettivamente contribuire all'evoluzione delle strutture cognitive degli studenti soltanto quando si individueranno delle modalità didattiche che permettano un'interazione effettiva tra le nuove conoscenze e le conoscenze degli studenti.

     3) La necessità di effettuare scelte nei programmi di insegnamento.

   "I suggerimenti finora presentati hanno in comune un'esigenza, che è quella del tempo. Prevedere delle discussioni in classe di tipo speculativo richiede tempo, e ancor più ne occorre se gli allievi devono far sì che le idee in competizione abbiano un seguito, o se essi devono intraprendere delle proprie indagini". Un modello pedagogico che considera fondamentale l'attività cognitiva dello studente ha evidentemente delle conseguenze tutt'altro che marginali rispetto alla vastità del programma: occorrerà indubbiamente impostare il programma in modo diverso rispetto all'impostazione prevalente nozionistica ed enciclopedica. "Ma forse il taglio dei programmi non è un prezzo troppo alto da pagare se ne consegue una maggiore fiducia degli alunni nella loro comprensione delle idee trattate, ed inoltre del tempo che può essere destinato specificamente alle loro per quanto semplici indagini personali"[8].

   Viene in altre parole attribuita grande importanza alla discussione tra pari, mediata dall'insegnante per realizzare connessioni significative tra concezioni alternative e conoscenze formalizzate. Non vi è tuttavia l'illusione che i concetti fondamentali delle discipline possano essere riscoperti dagli studenti. "I modelli teoretici e le convenzioni scientifiche non saranno "scoperti" dai ragazzi mediante la loro attività pratica. Essi devono essere presentati. E' perciò necessaria una guida per aiutare i bambini ad incorporare le loro esperienze pratiche in quello che costituisce presumibilmente un nuovo modo di pensare riguardo ad esse”[9].   

 

Riflessioni critiche sul costruttivismo

 

   Il costruttivismo costituisce indubbiamente in riferimento all'insegnamento scientifico un modello pedagogico di grande rilevanza: esso si è proposto di realizzare una sintesi tra gli aspetti più fondati delle diverse teorie psicologiche e pedagogiche; ha cercato inoltre di saldare la dimensione psicopedagogica con una riflessione epistemologica sia di tipo generale sulla conoscenza scientifica che specifica, sulle strutture concettuali delle singole discipline. Il costruttivismo ha contribuito inoltre, grazie alle innumerevoli ricerche effettuate, a mostrare in modo incontrovertibile, l'inconsistenza cognitiva dell'insegnamento scientifico oggi prevalente basato sulle strutture specialistiche delle discipline.

   Il costruttivismo rappresenta indubbiamente uno dei principali punti di riferimento per chi fa ricerca in ambito di didattica delle scienze. Tuttavia ci sembra che la strada aperta dal costruttivismo vada ancora ampliata ed approfondita. In particolare, in riferimento alla scuola di base, la scuola dai 3 ai 14 anni, ci sembra non siano state colte tutte le conseguenze delle critiche rivolte al modello pedagogico bruneriano del Dopo Dewey[10]: mentre, a nostro parere, l'educazione scientifica nella scuola elementare e media non può essere organizzata sulla base dei concetti fondamentali delle discipline, la posizione dei costruttivisti è tutt'altro che chiara. L'impressione che si ricava è che siano rimasti a metà del cammino. Quale la spiegazione ?

   Si ha l'impressione, da una parte, che l'opera di sintesi effettuata della tradizione psicologica e pedagogica sia stata troppo affrettata ed unilaterale (che, ad esempio, il contributo piagetiano non sia stato adeguatamente compreso), e dall'altra, che l'impostazione epistemologica sia stata troppo influenzata da alcuni temi dominanti nel dibattito epistemologico suscitato dal libro di Kuhn "La struttura delle rivoluzioni scientifiche". In ambito di esperti di didattica delle scienze si è passati cioè, in modo poco meditato, da una visione di tipo positivistico ad una concezione pervasivamente di tipo teoreticistico; si è conseguentemente dimenticato totalmente il ruolo dell'induzione nello sviluppo scientifico, l'acquisizione, cioè, di conoscenze che si realizza, seppur all'interno di quadri teorici, senza ipotesi specifiche. In questi ultimi venti anni, si è sottolineata, spesso enfatizzata, l'importanza nella scienza del procedimento ipotetico-deduttivo senza coglierne purtroppo le più importanti implicazioni pedagogiche.

   Mostrando che i concetti scientifici significativi non sono stati ricavati direttamente da osservazioni ed esperimenti, ma sono sempre stati il frutto della capacità di andare oltre i dati percettivi, della genialità dei grandi scienziati, è stata giustamente indicata l'illusorietà sia degli epistemologi induttivisti sia di quei pedagogisti che hanno sostenuto metodi basati sulla scoperta dei concetti scientifici da parte degli studenti. Ma non si sono analizzate in modo rigoroso e conseguente le implicazioni di queste conclusioni epistemologiche sul piano psicopedagogico, non è stata cioè discussa in modo serio la congruità dei concetti scientifici, tutti caratterizzati secondo quest'impostazione teoreticistica, dalla capacità "di spiegare il noto per mezzo dell'ignoto" con le strutture cognitive del bambino e dell'adolescente.

   La conclusione pedagogica più rilevante non è stata in genere colta: dal punto di vista psicopedagogico è insostenibile l'insegnamento della maggior parte dei concetti scientifici prima che si sia realizzato un adeguato consolidamento delle strutture cognitive dello studente, finché, cioè, lo studente non abbia effettuato un lungo percorso educativo che l'abbia portato ad acquisire consapevolezza, riflessione e razionalità intorno a problematiche e fenomenologie connesse, o simili sul piano cognitivo, all'esperienza quotidiana. Non condividiamo quindi l'ipotesi prospettata da molti costruttivisti che sia possibile insegnare molti concetti scientifici fondamentali anche a studenti della scuola elementare e della scuola media.

   Noi viceversa riteniamo che vi siano dei limiti precisi nell'apprendimento dovuti all'età; saremmo quasi portati ad affermare che non vi dovrebbe essere insegnamento scientifico nella scuola di base se la scienza fosse completamente riducibile al procedimento ipotetico-deduttivo.       

 

Le conoscenze fenomenologiche

 

   Lo sviluppo scientifico della fisica, della chimica, della biologia, ecc., si è realizzato sostanzialmente negli ultimi quattro secoli, ma ciò non significa che nei secoli o millenni precedenti non fosse stato elaborato nulla di significativo. Riprendendo l'esempio della chimica, la sua fondazione scientifica si realizzò soltanto nella seconda metà del Settecento grazie alle geniali intuizioni lavoisieriane, ma essa fu possibile anche grazie alle conoscenze accumulatesi nel corso dei secoli: queste di per sé non erano state sufficienti per ricavare induttivamente i principi basilari della chimica, quali quello di elemento e di composto, ma avevano permesso di individuare, descrivere e definire specifici ambiti fenomenologici. In particolare, durante il Seicento ed il Settecento, per mezzo di attività, sostanzialmente di tipo induttivo di artigiani e scienziati, era stato possibile acquisire quella che Lavoisier considererà poi "la parte più certa e più completa della chimica"[11], e cioè la conoscenza fenomenologica che i  sali si ottengono dalla combinazione di acidi e sostanze basiche.                     

   Che differenza abissale tra il significato attribuito alla parola "teoria" da Lavoisier e dai manuali contemporanei di chimica! Mentre per questi ultimi soltanto spiegazioni in termini di modelli microscopici possono aspirare ad essere considerati "teoria", per Lavoisier erano "teoria" importanti generalizzazioni fenomenologiche. Per il grande chimico francese vi era una profonda differenza tra un ricettario di sostanze, come erano i manuali seicenteschi -che consistevano in un accumulo bruto di conoscenze empiriche- ed un libro che iniziava a raccogliere molte di queste sostanze in classi ed era anche in grado di indicare alcune importanti relazioni tra classi.

   Tutto ciò ha secondo noi delle decisive implicazioni con l'insegnamento scientifico nella scuola di base: riteniamo infatti che la sua impostazione debba essere qui essenzialmente di tipo fenomenologico. Siamo quindi totalmente in disaccordo con la Driver e molti altri costruttivisti che tendono ad evidenziare anche sul piano educativo i profondi limiti delle attività sperimentali, di attività di tipo induttivo: essi non attribuiscono grande rilevanza, nella prima alfabetizzazione scientifica, a conoscenze strettamente connesse ad aspetti operativi. Noi pensiamo, invece, che prima di spiegare i fenomeni scientifici occorra conoscerli, e riteniamo che sia indispensabile a questo proposito un lungo lasso di tempo, corrispondente per i fenomeni percettivamente elementari sostanzialmente alla scuola di base.

   E' a questo punto necessario effettuare una puntualizzazione: noi pensiamo che nella scuola di base procedimenti di tipo induttivo debbano svolgere un ruolo decisivo, ma ciò non significa che ricadiamo nell'errore di molti sperimentalisti ingenui; siamo, cioè, perfettamente consapevoli che molti fatti scientifici sono carichi di teoria e che vi è quindi un intreccio costante tra aspetti fenomenici ed aspetti teorici. Ma, come le teorie ed i concetti non sono sullo stesso livello di complessità, così anche i fenomeni sono, seppur in senso lato, gerarchizzati. Ritorna quindi di nuovo in campo l'analisi epistemologica per individuare i livelli di complessità degli aspetti fenomenologici.

   Ci rendiamo perfettamente conto che la formulazione "conoscenza dei fenomeni scientifici" ha una dose di ambiguità; occorre infatti effettuare delle scelte molto precise all'interno della fenomenologia scientifica, individuando i fenomeni il più possibile "privi di conoscenze teoriche specifiche", se non quelle già costruite negli anni precedenti, e quindi sostanzialmente connessi ad attività di osservazione e sperimentazione.

 

Un esempio di sperimentalismo ingenuo

 

   Per esplicitare in modo più chiaro la nostra proposta, prendiamo un esempio tra i tanti: il fenomeno della combustione.Questo costituisce un argomento tradizionalmente presente anche nella scuola elementare: in tutti i sussidiari è illustrato l'esperimento della candela, collocata in una bacinella contenente acqua, che si spenge quando viene messa sotto un recipiente di vetro; immediatamente vengono ricavate le seguenti conclusioni: 1) la combustione è un fenomeno che avviene per combinazione con l'ossigeno; 2) la candela si spenge perché l'ossigeno si è consumato; 3) ed infine l'ossigeno è circa 1/5 dell'aria, come si capisce dall'innalzamento dell'acqua.

   Ora alcune di queste affermazioni sono vere, altre sono false, ma tutte non sono ricavabili soltanto dall'osservazione di questo esperimento. Ci troviamo di fronte ad uno degli innumerevoli esempi di sperimentalismo ingenuo, che in questo, come negli altri casi, non differisce in nulla dal nozionismo trasmissivo più insignificante. Fare degli esperimenti non serve a nulla se le conclusioni che si ricavano dipendono soltanto dalle conoscenze che l'insegnante ha già e lo studente non ha.

   Esperimenti di questo tipo erano conosciuti da millenni: la combustione è infatti uno dei fenomeni chimici più importanti nella storia dell'umanità. Basta pensare alla scoperta del fuoco ed alla funzione delle fornaci nell'antichità nella scoperta delle tecniche della ceramica e dei metalli. Fin dai tempi dell'antico Egitto fu acquisita la consapevolezza che occorreva soffiare aria nelle fornaci per avere del fuoco più potente e capace di fondere il rame ed il ferro. Tuttavia le conoscenze significative sulla combustione sono rimaste soltanto di tipo fenomenologico fino a Lavoisier; anzi la rivoluzione chimica lavoisieriana ebbe proprio inizio con la più grande scoperta della chimica, ebbe, cioè, inizio con l'ipotesi lavoisieriana che il fenomeno della combustione consiste in una combinazione chimica tra combustibile ed aria; furono poi necessari alcuni anni per comprendere che soltanto una parte dell'aria è attiva (essa venne allora chiamata ossigeno).

   La rivoluzione chimica lavoisieriana costituiva una confutazione totale della teoria del flogisto che durante il Settecento era stata considerata una grande teoria scientifica, capace di spiegare molti fenomeni chimici. Questa teoria aveva compreso che combustione e calcinazione dei metalli sono due fenomeni chimici simili nonostante la diversa apparenza fenomenica, ma era arrivata a questa importante conoscenza sulla base di una spiegazione sbagliata: la teoria del flogisto affermava infatti che in ambedue i fenomeni vi era, invece che combinazione con aria, emissione di flogisto. Furono necessari 20 anni per l'affermazione della teoria lavoisieriana; molti chimici affermati non l'accettarono mai. E’ emblematico il caso del grande chimico sperimentalista Priestley che fino alla morte considerò vera la teoria del flogisto, nonostante che fosse stato lui ad effettuare per primo molti esperimenti che vennero poi utilizzati da Lavoisier per confermare ed approfondire la sua teoria.

   I chimici ormai affermati dovevano effettuare una specie di conversione: erano in gioco due visioni del mondo totalmente opposte. Sono rivelatrici di queste immani difficoltà epistemologiche e psicologiche le seguenti considerazioni che il grande chimico francese Macquer effettuò nella seconda edizione del suo "Dizionario di chimica" nel 1778: "Se ciò fosse vero, verrebbe distrutta tutta la teoria del flogisto, cioè del fuoco combinato. A tal idea non ha però almeno finora acconsentito questo valente fisico (Lavoisier), e sopra un punto così delicato vuole ancora sospendere il suo giudizio. Questa cautela è certamente lodevole, essendo appunto quella, che forma il carattere d'un vero chimico, di cui fregiati non sono que' fisici, i quali non conoscendo il pregio di questa bella scienza, si credono capaci di realmente rovesciarla, e colla scorta d'un solo fatto, che essi suppongono bastantemente comprovato, presumono di oscurare in un momento tutto lo splendore di una delle più grandi teorie, a cui siasi innalzato il genio della chimica: d'una teoria appoggiata ad un numero sorprendente di convincenti esperienze, alla forza delle quali non possono resistere neppure i talenti più illuminati".

   Apparentemente l'esperimento della candela è estremamente semplice, è sul piano pratico facilmente eseguibile, la sua complessità è infatti concettuale. Se l'esperimento viene effettuato nel secondo ciclo della scuola elementare, probabilmente potrebbe capitare che siano i bambini stessi a prospettare la nozione dell'ossigeno, senza però avere minimamente la capacità di raccordarla a ciò che hanno osservato.

   La nozione dell'ossigeno funziona come pre-concetto, nell'accezione deweiana del termine, che impedisce al bambino di utilizzare la propria mente per investigare il problema. "Non vi è niente nel mero fatto del pensiero, in quanto identico alla credenza, che possa rilevare se quest'ultima è ben fondata o no. Poniamo che due diverse persone dicano: "Io penso che il mondo è sferico". Una di esse, se messa alla prova, può non essere capace di dare che poche o addirittura nessuna spiegazione del perché pensa come pensa. La sua è un'idea presa dagli altri ed accettata perché è un'idea generalmente corrente, non perché l'individuo ha esaminato la questione o perché la sua mente ha avuto una parte attiva nel raggiungere e concepire quella credenza. "Pensieri" del genere affiorano inconsciamente. Ci si imbatte in essi non si sa come. Da oscure sorgenti e per vie sconosciute essi si insinuano nella mente e diventano senza che ce ne accorgiamo parte del nostro equipaggiamento mentale. Ne sono responsabili la tradizione, l'istruzione, l'imitazione, ognuna delle quali cose o dipende da una qualche autorevole fonte o fa appello ad un nostro personale vantaggio, o coincide con qualche forte nostra passione. Pensieri siffatti sono pregiudizi; cioè giudizi pre-maturi, non conclusioni raggiunte come risultato di una personale attività mentale quali l'osservare, il raccogliere ed esaminare i dati. Anche quando accade che tali giudizi siano corretti, la correttezza è una faccenda accidentale, almeno per quello che concerne la persona che li accoglie"[12].

   Vi sono innumerevoli termini che fanno ormai parte del senso comune, come il termine "ossigeno"; essi sono tuttavia carichi di teoria e funzionano quindi anche per molti adulti sul piano cognitivo come pre-giudizi. Essi non possono evidentemente essere esorcizzati: se si effettuasse, per esempio, l'esperimento con la candela con lo scopo effettivamente accessibile sulla base della sola osservazione di rendersi conto che l'aria ha un ruolo, e venisse prospettata dai bambini la nozione del consumo di ossigeno, essa non può evidentemente essere rifiutata, ma sarebbe sbagliato nella scuola elementare concentrare l'attività educativa su quest'aspetto.

   Spesso gli insegnanti confondono la conoscenza da parte degli studenti di termini scientifici con la conoscenza del loro significato. Ora anche molti adulti conoscono termini specialistici, sopratutto grazie ai mas-media, senza avere la minima idea del loro significato.

   La conclusione che si deve ricavare da queste riflessioni è allora quella che della combustione è meglio non parlare nella scuola elementare ?

   Tutt'altro, la conclusione è che ci si deve limitare ad un approccio fenomenologico. La combustione è sicuramente già conosciuta dai bambini del secondo ciclo della scuola elementare; nella vita quotidiana più volte è loro capitato di assistere a fenomeni di combustione, quali l'accensione di un fiammifero, dei fornelli di una cucina a gas, o di un braciere con carbone o legna, ecc. Ma la conoscenza  spontanea di questa fenomenologia, come in generale di tutte le fenomenologie, è irriflessiva, inconsapevole, asistematica, in quanto si verifica essenzialmente attraverso i sistemi della rappresentazione attiva ed in particolare iconica. Raramente nella vita quotidiana, ad eccezione di chi svolge mansioni o mestieri particolari, vi è l'esigenza di attivare in riferimento a fenomenologie di carattere scientifico il sistema di rappresentazione simbolico, cioè quello della consapevolezza.

   Approccio fenomenologico significa, quindi, essenzialmente attivazione del sistema simbolico, perché se ci si limitasse ai sistemi attivo ed iconico si farebbero pochi passi in avanti rispetto alla conoscenza di senso comune. In particolare poi se la fenomenologia facesse già parte dell'esperienza quotidiana, l'attività didattica sarebbe sostanzialmente inutile, se invece non ne facesse parte si avrebbe comunque un ampliamento della base esperienziale. Le fasi della rappresentazione attiva ed iconica non vanno evidentemente saltate, ma non ci si può fermare ad esse.

 

La proposta metodologica

 

   Riprendendo l'esempio della combustione, la prima fase dell'attività didattica non può non essere che l'esecuzione di alcuni esperimenti di combustione, per mezzo dei quali gli studenti rinnoveranno determinate immagini mentali più o meno familiari.

   Noi pensiamo che questo possa essere assunto come un principio generale: anche quando la fenomenologia in oggetto è molto presente nella vita quotidiana occorre sempre prevedere come prima fase un'attività di sperimentazione e/o di osservazione.

   La seconda fase è generalmente quella della verbalizzazione scritta individuale. Riteniamo, in altre parole, che il bambino, dopo aver effettuato (o man mano che effettua) un esperimento, debba innanzitutto, generalmente, essere impegnato individualmente in un'attività di riflessione, debba cioè tradurre in linguaggio scritto (e/o in certi casi in disegni, schemi e rappresentazioni di altro tipo) le sue conoscenze attive ed iconiche. Nel processo di concettualizzazione, la verbalizzazione scritta individuale ci sembra una fase prioritaria ed ineliminabile in quanto, innanzitutto, pensiamo che in generale[13], ed in particolare per lo studente della scuola di base, essa costituisca il modo principale per sviluppare consapevolezza e riflessione in relazione a qualcosa che sta osservando - non riusciamo infatti ad immaginare che cosa possa significare dare ai bambini la consegna di riflettere su qualcosa che si sta sperimentando senza l'utilizzo della verbalizzazione scritta -; ed in secondo luogo perché, diversamente dalla discussione collettiva, permette effettivamente a ciascun bambino di iniziare a cercare di "mettere in forma", sulla base delle proprie strutture cognitive , "il mondo" che sta osservando. Dopo che ciascun bambino ha costruito le proprie rappresentazioni, le proprie ipotesi, il momento del confronto, della discussione collettiva, diventa effettivamente decisivo sia nello sviluppo della concettualizzazione che nel potenziamento della motivazione.

   La terza fase è quella della discussione collettiva, del confronto; la quarta fase è quella dell’affinamento della concettualizzazione. La terza fase è quella più consolidata sia sul piano teorico che sul quello pratico. Indubbiamente, infatti, questa fase è impiegata da molti insegnanti elementari, anche se raramente con piena padronanza epistemologica e tecnica della metodologia. Nel dibattito teorico italiano, rilevanti sono i contributi forniti da Clotilde Pontecorvo nell’evidenziare, rifacendosi al cognitivismo americano di ispirazione vygotskiana, il grande significato motivazionale, cognitivo e comportamentale del confronto e della discussione in classe[14]. Non abbiano nulla da aggiungere a queste riflessioni nei loro aspetti generali di proposta pedagogico-metodologica adatta a tutti gli ambiti disciplinari. L’unica considerazione che riteniamo necessario sviluppare è in riferimento all’educazione scientifica: la terza fase ha, anche a nostro parere grande importanza, ma non di per sé, e solo nella misura in cui è connessa alle prime due, solo in quanto, cioè, contribuisce in modo determinante con l’intervento dei pari all’affinamento, con correzioni e completamenti, della costruzione della conoscenza che ciascun studente ha già realizzato.

   Abbiamo preferito aggiungere una quarta fase, nonostante che l’affinamento della conoscenza si realizzi essenzialmente nella terza, perché c’è bisogno anche di un momento in cui ciascun bambino corregga, modifichi e integri, alla luce della discussione collettiva, la sua precedente concettualizzazione.

    Anche la quinta fase, infine, quella della sintesi collettiva, è strettamente connessa alla terza, ma abbiamo ritenuto da alcuni anni necessario evidenziarla per la seguente motivazione: l’insegnante alla fine dell’attività, utilizzando tutto il materiale prodotto e condiviso dagli studenti, ne realizza una sintesi scritta graficamente chiara e linguisticamente corretta, che deve poi essere fotocopiata per tutti i bambini e incollata nel loro quaderno. Ci siamo convinti di questa necessità, perché, da una parte, le modalità con cui i bambini realizzano l’affinamento della concettualizzazione sono troppo diversificate, anche nella chiarezza grafica, e perché dall’altra, è necessario che il quaderno, che rappresenta il resoconto del processo di costruzione della conoscenza, contenga anche delle sintesi di questo processo comuni a tutti gli studenti.

    Se le cinque fasi del modello metodologico proposto sono tutte necessarie e tra loro strettamente interdipendenti, indubbiamente quelle più innovative sono, a nostro parere, la seconda e la quarta, quelle, cioè, che postulano, all’interno di un processo di costruzione della conoscenza scientifica caratterizzato significativamente dalle dimensioni fenomenologica, sociale e relazionale, anche delle attività cognitivo-linguistiche individuali. Infatti se queste due fasi fossero saltate, l’attività procederebbe indubbiamente in modo molto più spedito e sarebbe quindi possibile affrontare molte più problematiche, ma la concettualizzazione non sarebbe generalmente realizzata da nessuno studente; la sintesi collettiva sarebbe in questo caso effettuata, non solo graficamente, soltanto dall’insegnante che la realizzerebbe componendo in una struttura organica le impressioni atomiche esplicitate ora dall’uno ed ora dall’altro studente. Prendendo ancora, ad esempio, la descrizione di un esperimento, la concettualizzazione non consiste nell’indicare qualche aspetto disorganico del fenomeno, ma nel coglierne gli aspetti significativi nella loro successione spaziale e temporale; la concettualizzazione non consiste, cioè, in un’elencazione atomica di aspetti percettivi, ma nella loro concatenazione in una trama narrativa.

 

Il ruolo degli esperimenti

 

Riteniamo necessario effettuare ulteriori considerazioni sulla prima fase. Continuiamo a considerare, come si è già detto, un principio irrinunciabile, il dogma dell'attivismo, dell'impossibilità di prescindere dal contatto diretto con le cose. Ci sembra infatti che molti esperti, che si rifanno al costruttivismo, vi abbiano nella sostanza rinunciato attribuendo in sua vece, anche nella didattica e non solo nella ricerca, un ruolo centrale soltanto alla ricognizione delle concezioni degli studenti. Noi continuiamo invece a pensare che la costruzione del significato, in particolare nella scuola di base, non possa fare a meno del contatto diretto con le cose. Continuiamo infatti a ritenere un assioma del processo educativo anche dei prossimi decenni le seguenti considerazioni di Dewey: "Tentare di dare un significato tramite la parola soltanto, senza una qualsiasi relazione con la cosa, significa privare la parola di ogni significazione intellegibile; è contro questo tentativo, una tendenza purtroppo prevalente nell'educazione, che i riformatori hanno protestato (...) In primo luogo essi (i simboli) rappresentano per una persona questi significati solo quando essa ha avuto esperienza di una qualche situazione rispetto a cui questi significati sono effettivamente rilevanti. Le parole possono isolare e conservare un significato solo allorché esso è stato in precedenza implicato nei nostri contatti diretti con le cose (...) Inoltre vi è la tendenza ad ammettere che ovunque vi sia una definita parola o forma linguistica, vi sia anche un'idea definita; mentre, in realtà, sia gli adulti che i fanciulli possono adoperare formule verbalmente precise, avendo solo la più vaga e confusa idea di ciò che esse significano. E' più proficua la genuina ignoranza perché è facilmente accompagnata da umiltà, curiosità ed apertura mentale; mentre l'abilità a ripetere frasi fatte, termini convenzionali, proposizioni familiari, crea la presunzione del sapere e spalma la mente di una vernice impenetrabile alle nuove idee"[15].

   Riteniamo, tuttavia, necessario prendere le distanze da alcuni aspetti dell'attivismo che hanno sicuramente contribuito, nonostante le sue nobili intenzioni, al suo discredito e alla sua sconfitta. La parabola dell'attivismo non riguarda ovviamente soltanto l'educazione scientifica, ma se osserviamo l'evoluzione dell'insegnamento scientifico negli ultimi quarant'anni, dopo il libro di Bruner già citato, non si può non prendere atto della sua sconfitta. Nel movimento attivistico, l'attività di sperimentazione, l'attività concreta, l'attività in prima persona da parte del bambino sono diventate spesso dei fini; sono state inoltre molte volte trascurate le attività di riflessione, di concettualizzazione; è stata sottovalutata in modo macroscopico la dimensione linguistica.

   Nell'ipotesi da noi prospettata, che cerca di realizzare una sintesi tra paradigmi generalmente contrapposti, quello piagetiano e quello vygotskiano, la prima fase, quella sperimentale-osservativa, rimane imprescindibile, ma non deve essere in generale quella più impegnativa né temporalmente né come impegno cognitivo richiesto allo studente. Pensiamo infatti che, proprio per le caratteristiche dello studente della scuola di base - per le sue capacità di attenzione e per i limiti nel mantenere la motivazione - gli esperimenti proposti debbano essere semplici e di veloce esecuzione.

   La maggior parte del tempo deve essere, quindi, riservata alle fasi di concettualizzazione, deve essere, cioè, dedicata alla verbalizzazione scritta (più in generale alla rappresentazione) e alla discussione collettiva. La dimensione linguistica assume conseguentemente nella nostra proposta un ruolo centrale, non evidentemente come attività estemporanea dettata da esigenze aprioristiche, ma come strumento fondamentale per il bambino per dare significato al mondo che sta osservando. L’importanza della dimensione linguistica in tutti gli ambiti disciplinari rappresenta indubbiamente un’antica consapevolezza dei linguisti, che è riuscita a farsi strada, però purtroppo generalmente soltanto come petizione di principio, sia nei programmi della scuola media del 1979 che in quelli della scuola elementare del 1985. Noi pensiamo che la dimensione linguistica sia essenziale per un’educazione scientifica adeguata, e riteniamo inoltre che l’utilizzo del linguaggio, come da noi indicato nell’insegnamento scientifico, sia un fattore importante per lo sviluppo della competenza linguistica generale dello studente.

   Rispetto all'impostazione più diffusa nella scuola elementare, sostanzialmente anche qui di tipo trasmissivo, l'educazione scientifica impostata in questo modo necessita di tempi molto più dilatati per ciascuna percorso didattico; e ciò implica la necessità di scelte precise rispetto ai contenuti da proporre, come d'altra parte era già indicato dai programmi del 79 e del 85. E' molto diffusa sia nella scuola elementare che nella scuola media la sindrome della scuola successiva: gli insegnanti della scuola media e della scuola secondaria superiore richiederebbero alla scuola precedente studenti con più solide basi scientifiche (la sindrome c'è ovviamente anche per le altre discipline), cioè, con il maggior numero possibile di nozioni scientifiche. Vi è qui evidentemente un totale fraintendimento, determinato potentemente dall'impostazione enciclopedica e trasmissiva dei libri di testo, di che cosa significhi "basi scientifiche" per uno studente della scuola di base.

   Un altro dogma infine che non condividiamo è quello che gli esperimenti siano significativi soltanto se sono eseguiti direttamente dal bambino. Ora, noi siamo perfettamente consapevoli dell'importanza dell'attività del bambino, e continuiamo a ritenere fondamentale il costrutto piagetiano di azione-operazione. Pensiamo,  quindi, che quante più occasioni di attività diretta da parte del bambino vi siano nella scuola di base meglio sia, a condizione però che queste occasioni non si esauriscano in se stesse, a condizione però che non vengano trascurate le altre fasi della concettualizzazione.

   Sul piano teorico non si può non essere d'accordo; tuttavia, la realtà, che è fatta spesso di classi di 25 e più bambini, è molto più complessa: può risultare infatti impossibile condurre in modo produttivo attività in cui sempre i bambini agiscano in prima persona. Noi riteniamo, quindi, che debba essere lasciata all'insegnante la possibilità di effettuare una mediazione tra le esigenze teoriche ed i limiti imposti dalla realtà scolastica, che debba, cioè, l'insegnante scegliere quali esperimenti sia indispensabile far fare direttamente ai bambini e quali esperimenti possano essere fatti collettivamente. Se si indicano agli insegnanti delle mete teoricamente ineccepibili ma praticamente ingestibili si rischia di contribuire al mantenimento dello status quo, giustificando agli occhi dell'insegnante, per la sua maggiore praticità ed efficacia, la didattica tradizionale trasmissiva[16].

   Non condividiamo, quindi, quanto afferma Piaget a questo proposito: "Pare che molti educatori, credendo di applicare i miei principi di psicologia, si limitino a mostrare degli oggetti senza procedere a farli manipolare dai bambini stessi, oppure, ancora peggio, semplicemente presentando rappresentazioni audiovisive di oggetti (fotografie, film, ecc.) nella credenza erronea che il semplice fatto di percepire gli oggetti e le loro trasformazioni equivalga all'azione da parte di chi apprende nell'esperienza diretta. Quest'ultimo è un grave errore perché l'azione è istruttiva solo quando implica la concreta e spontanea partecipazione del bambino stesso con tutti i goffi tentativi e l'apparente spreco di tempo che tale partecipazione implica. E' assolutamente necessario che gli scolari abbiano a loro disposizione delle esperienze materiali concrete (e  non solamente delle illustrazioni), che essi formulino le loro personali ipotesi e che le verifichino (o non le verifichino) loro stessi attraverso le loro attive manipolazioni. Le attività di altri osservate, incluse quelle dell'insegnante, non sono attività che formino nuove organizzazioni nel bambino"[17].

   Queste affermazioni ci appaiono emblematiche dell'attivismo più radicale e ci sembrano in contraddizione con molte altre riflessioni piagetiane, ed in particolare con il suo concetto di azione che è tutt'altro che circoscritto alla dimensione concreta: pensiamo, infatti, di aver compreso che per Piaget " un soggetto attivo è un soggetto che confronta, esclude, ordina, categorizza, riformula, verifica, elabora ipotesi, riorganizza,ecc."[18]. Cogliamo inoltre in queste affermazioni un'implicita sottovalutazione, all'interno di una concezione costruttivista dello sviluppo della conoscenza, del ruolo della dimensione linguistica. Riteniamo, invece, che le precedenti considerazioni piagetiane siano sostanzialmente condivisibili se riferite al bambino della fase preoperatoria, ed in particolare al bambino della scuola dell'infanzia.

   Il fatto che determinati esperimenti siano effettuati collettivamente ed eseguiti materialmente dall'insegnante non deve tuttavia modificare le altre fasi del processo di concettualizzazione. Gli esperimenti, anche in questo caso, non debbono rappresentare la conferma o l'illustrazione di qualche concetto spiegato precedentemente dall'insegnante, ma devono servire a porre concretamente i fatti, cioè determinate fenomenologie, davanti agli occhi e alla mente dei bambini; la concettualizzazione avviene con le modalità già indicate, che sono caratterizzate dal ruolo centrale dello studente, dal ruolo decisivo, nella costruzione della conoscenza,della sua attività intellettuale e linguistica. A noi appare, infatti, la dimensione linguistica, sia individuale che collettiva, uno strumento imprescindibile per lo studente per costruire la propria conoscenza, per realizzare il passaggio da rappresentazioni intuitive, irriflessive ed asistematiche a rappresentazioni consapevoli e connesse. In questa prospettiva, pensiamo che la dimensione linguistica sia quella che in modo più significativo possa rendere possibile l'esplicitazione del ruolo attivo e costruttivo dello studente. D'altra parte comprendiamo, anche se non condividiamo, la profonda diffidenza dell'attivismo nei confronti del linguaggio, tenendo conto del fatto che ancora oggi spesso il linguaggio è a scuola lo strumento fondamentale di acquisizione delle nozioni e delle informazioni in modo trasmissivo e non costruttivo.

   Noi riteniamo che un'impostazione di questo tipo permetta effettivamente all'insegnamento scientifico di svolgere nella scuola di base le due funzioni fondamentali che  la migliore pedagogia contemporanea attribuisce a tutte le discipline, cioè da una parte, di contribuire effettivamente al processo formativo - e nello specifico delle scienze di contribuire al potenziamento di capacità osservative - logiche - linguistiche[19], e dall'altra, di fare acquisire, contemporaneamente,  allo studente solide conoscenze scientifiche elementari che costituiscano realmente la base su cui continuare nella scuola secondaria la costruzione della conoscenza scientifica.

 

La discussione collettiva

 

   Abbiamo precedentemente attribuito un ruolo centrale alla discussione collettiva, come dimensione costitutiva dell'attività didattica; pensiamo però che vi siano due condizioni imprescindibili da rispettare, e cioè che la discussione si riferisca a fenomenologie, a problemi, a concetti, che siano alla portata delle strutture cognitive degli studenti, e che le ipotesi formulate siano sottoponibili a conferma sperimentale o siano comunque controllabili dai bambini; tutto ciò implica, come abbiamo già affermato, scelte adeguate dei contenuti.

   Non crediamo, quindi, alla valenza pedagogica di questa metodologia di per sé; pensiamo che vi sia sempre una connessione stretta tra metodo e contenuti e pensiamo che sia un retaggio dell'attivismo la loro separazione e la conseguente mitizzazione del metodo in sé. Riteniamo che la discussione collettiva applicata a contenuti complessi (come sono ad esempio la maggior parte di unità didattiche di molti sussidiari del secondo ciclo della scuola elementare, quando trattano il principale argomento di scienze, il corpo umano) sia sostanzialmente insignificante sia nella costruzione di conoscenze scientifiche significative da parte dello studente che nel potenziamento delle sue strutture cognitive.

   Consideriamo importante l'attività del fare ipotesi da parte dei bambini, in certi casi essenziale, a condizione tuttavia che anche questa attività si riferisca a problemi da loro dominabili e non sia soltanto un esercizio di immaginazione fantascientifica. Vi è chi, per un popperismo male inteso, ha prospettato come centrali anche per la scuola elementare il momento dell'ipotesi nel significato che assume nel procedimento ipotetico-deduttivo. Riteniamo invece che l'attività del fare ipotesi che crediamo  sia utile  nella scuola elementare e nella scuola media sia quella connessa invece al significato piagetiano: consiste nel tentativo di pensare il possibile, quello che protrebbe accadere, come le cose dovrebbero essere sulla base delle conoscenze passate e delle competenze logiche gia consolidate.

   L'attività del fare ipotesi è inoltre, a nostro parere, in certi casi essenziale per un'acquisizione intelligente e non cieca, nel significo di Whertheimer[20], di determinate conoscenze. Prendiamo un esempio adatto ad una quarta o quinta elementare. Una problematica scientifica su cui riteniamo importante lavorare è quella dell'evaporazione, dell'ebollizione e della distillazione dell'acqua; dopo che questi fenomeni sono stati concettualizzati, può essere effettuato un ulteriore approfondimento: alla definizione operativa di ebollizione dell'acqua può essere aggiunto l'attributo "l'acqua bolle a 100 gradi". Molti adulti hanno questa nozione ma non conoscono il suo significato, perché l'hanno appreso o come pura formulazione linguistica o a volte per mezzo dell'immagine del diagramma relativo. Ma anche in quest'ultimo caso il significato non è stato acquisito perché non vi è la capacità di passare da una conoscenza astratta, generale ad una conoscenza concreta. Questo è uno degli innumerevoli concetti scientifici che ci portano a concludere che Piaget sia stato ottimista rispetto allo stadio delle operazioni formali; nel nostro esempio pensiamo che sia ben oltre i 14 anni l'età in cui lo studente comprende il fenomeno in oggetto soltanto sulla base dell'immagine del diagramma.

   Non si può quindi prescindere dall'esperimento, ma esso può essere effettuato per lo meno con due modalità, una cieca ed una intelligente. Sarebbe infatti cieca[21] la semplice constatazione sperimentale che all'ebollizione la temperatura dell'acqua non cambia, rimane costantemente a 100 °C (in realtà non è mai 100 -ma è comunque costante- perché l'acqua non è pura, i termometri non sono precisi, la pressione atmosferica non è 1 atmosfera). Operando in questo modo lo studente acquisirebbe effettivamente il significato dell'espressione "l'acqua bolle a 100 °C", e non la sola formulazione linguistica, ma sarebbe pur sempre una acquisizione non intelligente perché lo studente la farebbe propria come una cosa ovvia, non problematica, logica, quando invece non lo è.

   Quella conoscenza diventa intelligente quando lo studente acquisisce contemporaneamente la sua apparente stranezza, la sua illogicità. L'esperimento (che consiste nel registrare ogni 20-30 secondi per mezzo di un termometro la temperatura dell'acqua contenuta in un becker e sottoposta a riscaldamento) andrebbe quindi effettuato in due tempi: dopo alcuni minuti, quando la temperatura è intorno a 40-50 °C, occorre interrompere il riscaldamento e chiedere ai bambini che cosa si aspettano che succeda alla temperatura dell'acqua continuando il riscaldamento -ovviamente questa unità didattica presuppone alcune altre attività, alcuni prerequisiti elementari sul riscaldamento dei corpi, sul termometro come strumento che indica il "caldo" dei corpi-. Quasi tutti i bambini effettueranno la previsione logica, cioè che la temperatura dell'acqua continui a salire, non ipotizzando un arresto all'ebollizione. Quando poi, ripreso il riscaldamento, si arriverà all'ebollizione, i bambini constateranno l'erroneità della loro ipotesi, constateranno la stranezza della temperatura dell'acqua che rimane costante a 100 °C durante l'ebollizione. Anche le affermazioni scientifiche più banali, non sono in molti casi una diretta conseguenza dell'esperienza quotidiana, del senso comune. Tuttavia in questo caso vi è uno scarto limitato tra le strutture cognitive di un bambino di 10 anni e la scienza; questa conoscenza è accessibile al bambino della scuola elementare, ma è fondamentale che egli contemporaneamente comprenda che essa è oltre l'apparenza percettiva, che essa non è in continuità ma in contraddizione con l'esperienza quotidiana.

D'altra parte simile fu la reazione iniziale degli scienziati settecenteschi che scoprirono questo strano fenomeno: esso sembrò loro talmente anomalo, contradditorio con la logica dell'esperienza quotidiana che, non capendo dove andava a finire il calore che continuavano a fornire all'acqua all'ebollizione -esso infatti non determinava più l'innalzamento della temperatura - coniarono il termine "calore latente di ebollizione" che significa calore che si nasconde all'ebollizione. Questo termine, come molti altri termini scientifici, è poi rimasto nell'uso scientifico, si utilizza ancora oggi, anche se con un significato completamente diverso. Vi è qui, di nuovo, un parallelismo significativo tra l'ontogenesi e la filogenesi.

 

Gli obiettivi trasversali dell’educazione scientifica

 

    Abbiamo lasciato questo nodo pedagogico per ultimo non casualmente. In relazione all’importanza che gli attribuiamo avremmo dovuto invece trattarlo per primo. Abbiamo fatto questa scelta per voler evidenziare l’autonomia culturale delle considerazioni e delle proposte rispetto a finalità politiche e pedagogiche, di per sé ineccepibili, ma che potrebbero, tuttavia, risultare estrinseche ad una fondazione solida di tipo epistemologico e metodologico-didattico adeguata al sapere scientifico. Ci interessa particolarmente, alla fine di questo nostro contributo, cogliere la convergenza fra i due piani del discorso.  Da molto tempo vengono indicati, come obiettivi fondamentali dell’educazione scientifica, obiettivi di carattere generale, quali il contribuire allo sviluppo nello studente di competenze osservative-logico-linguistiche. E questi obiettivi vengono in generale prospettati, non solo per le scienze ma per tutte le discipline, come per tutti gli insegnamenti viene indicata come finalità fondamentale quella di contribuire alla formazione democratica dell’uomo e del cittadino. Tuttavia, spesso questa finalità e questi obiettivi rimangono delle proclamazioni di intenti, che non trovano nessuna realizzazione nell’impostazione tradizionale dell’insegnamento, e ciò non tanto per cattiva volontà degli insegnanti, quanto per l’impossibilità epistemologica e psicopedagogica di conferire una dimensione educativa, in una scuola di tutti, a modelli di saperi che sono stati strutturati per formare le  elite.

   Le proposte epistemologiche e metodologiche effettuate possono, a nostro parere, effettivamente contribuire alla formazione democratica e allo sviluppo di competenze trasversali di carattere osservativo-logico-linguistico. E lo possono fare perché gli obiettivi specifici di conoscenza (conoscenze fenomenologiche) proposti per la scuola di base sono soltanto quelli che possono essere acquisiti per mezzo della metodologia da noi prospettata di carattere, appunto, osservativo-logico-linguistico. Gli obiettivi generali possono essere effettivamente realizzati perché sono stati trasformati, in modo non estrinseco, nella modalità usuale, costante di conduzione dell’attività didattica.

   Considerazioni simili possono essere effettuate per il contributo alla formazione democratica. Anzi già lo sviluppo delle competenze trasversali precedentemente indicate costituisce un aspetto fondamentale nella formazione dell’uomo e del cittadino, in quanto viene facilitata la realizzazione di uno sviluppo sinergico ed armonico sia della componente culturale che di quella comportamentale. Ed in particolare la proposta metodologica prospettata permette costantemente di sviluppare, di nuovo in modo non estrinseco, alcuni aspetti centrali della formazione democratica, quali: 1) l’apertura mentale, 2) l’importanza del confronto e del dialogo, 3) un atteggiamento non dogmatico e rigido, 4) il coinvolgimento emotivo, 5) l’adeguatezza cognitiva del materiale oggetto di studio, ecc.[22]

   Abbiamo più volte evidenziato l’inutilità cognitiva della proposta culturale dell’insegnamento scientifico tradizionale, in quanto i contenuti proposti risultano generalmente incomprensibili. Alla fine del nostro contributo vogliamo sottolinearne il significato educativo: sviluppare negli studenti, nell’arco di molti anni, comportamenti opposti a quelli indicati precedentemente, abituarli ad impegnarsi, a studiare e memorizzare delle nozioni di cui non si conosce il significato hanno indubbiamente un ruolo educativo, contribuiscono, infatti, a non realizzare una formazione democratica.

 

 

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[1] D. Ausubel, Educazione e processi cognitivi, Angeli, Milano, 1983, p. 448.

[2] R. Driver, L’allievo come scienziato?, Zanichelli, Bologna, p. 85

[3] Ibidem, p. 16, 20.

[4] Ibidem, p. 74

[5] Ibidem, pp. 8, 78.

[6] Molto diversa è la posizione di Bruner degli anni successivi. Bruner realizza la sintesi dei contributi più significativi proprio di Dewey e Piaget da una parte e di Vygotskij dall’altra. J. Bruner, La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997.

[7] Ibidem, pp. 79.80.

[8] Ibidem, pp. 82-83.

[9] Ibidem, p. 14.

[10] J. Bruner, Dopo Dewey. Il processo di apprendimento nelle due culture, Armando, Roma, 1969.

[11] A. Lavoisier, Oeuvres, Imprimerie Imperiale, Paris, 1862, II, p.248.

[12] J. Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, 1961, pp. 65-66.

[13] Piaget, che è stato negli ultimi decenni criticato per la sottovalutazione del ruolo del linguaggio, nella sua autobiografia fa questa affermazione rivelatrice: “Scrivevo anche soltanto per me, poiché non potevo pensare senza scrivere – ma la cosa doveva avvenire in modo sistematico, come se si trattasse di un articolo destinato alla pubblicazione” (A.A.V.V., Jean Piaget e le scienze sociali, La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 149).

[14] C. Pontecorvo, A. M. Ajello, C Zucchermaglio, Discutendo si impara, Il Mulino, Bologna, 1972.

[15] J. Dewey, Come pensiamo, La Nuova Italia, Firenze, p. 333. Questo passo non può essere interpretato in modo attivistico, come a volte hanno fatto sia gli attivisti che i critici dell’attivismo. Questo passo è immediatamente preceduto dalla seguenti considerazioni: “Presa alla lettera, la massima ‘insegna le cose, non le parole’ o insegna cose prima che parole’ sarebbe la negazione stessa dell’educazione; ridurrebbe la vita mentale a semplici adattamenti fisici e sensoriali. Imparare, in senso rigoroso, non significa imparare cose, ma i significati delle cose, e questo processo implica l’uso di segni o del linguaggio nel suo senso generico. Parimenti, l’avversione contro i simboli di alcuni riformatori dell’educazione, se spinta agli estremi, implicherebbe la distruzione della vita intellettuale, dato che questa vive, si muove, ed ha la sua stessa possibilità di esistenza in quei processi di definizione, astrazione, generalizzazione e classificazione che solo i simboli rendono possibili”.

[16] Nella scelta degli esperimenti da effettuare collettivamente, un aspetto da prendere in considerazione è anche evidentemente quello legato a questioni di sicurezza.

[17] J. Piaget, Prefazione a Piaget in classe, di M. Schwebel, J. Raph, Loescher, Torino, 1977, pp. 15-16

[18] E. Ferreiro, A. Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel bambino, Giunti, Firenze, 1985, p. 25.

[19] Insieme alla capacità di osservare e descrivere fenomeni, un’altra capacità fondamentale è quella della classificazione. L’attività di classificazione, come hanno magistralmente mostrato Piaget e Vigotskij, è tutt’altro che un’attività spontanea, di senso comune: molto spesso, infatti, gli studenti della scuola di base, ma anche molti adulti, non possiedono classi, ma complessi, pseudoconcetti o collezioni non figurative.

[20] M. Wertheimer, Il pensiero produttivo, Firenze, Giunti Barbera, 1965.

[21] “Vi sono due specie di apprendimento. Le connessioni che si stabiliscono con la tecnica del riflesso condizionato, o col ripetere più e più volte gli stessi contenuti o le stesse risposte, come in tutti gli esercizi meccanici, sono caratteristiche di una delle due specie. Tracciamo quindi una linea divisoria ben marcata. Dall’altra parte troviamo processi di apprendimento che si descrivono come “percezione di relazioni”, “comprensione di un procedimento”, “penetrazione di una situazione”… Sul lato in cui abbiamo messo l’insieme delle connessioni possiamo scriverev la dicitura “apprendimento cieco”, e sull’altro, dove il risultato può essere chiamato comprensione, la dicitura “apprendimento intelligente”. (G. Katona, Memoria e organizzazione, Giunti Barbera, Firenze, p. 3)

[22] R. Rorty, Scritti sull’educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1996.


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