UNA RIFLESSIONE PEDAGOGICA
di Luciano Corradini
La riflessione pedagogica, com'è noto, cerca di comprendere e d'ispirare
l'esperienza educativa. Mentre si studia storia, letteratura e scienze
per diventare colti, la pedagogia la si studia per diventare capaci
d'intendere criticamente e di fare o di aiutare a fare l'educazione. Si
tratta di un sapere pratico, che gravita per natura sua verso l'azione:
un'azione da impostare, da condurre al meglio e da valutare: un'azione
che dev'essere in realtà interazione fra chi educa e chi viene educato.
Di fatto il sapere pedagogico s'indirizza soprattutto all'educatore (che
può anche essere lo stesso pedagogista), per aiutarlo a capire e a
vivere al meglio la sua funzione, il suo ruolo, il suo compito, nei
contesti culturali, relazionali e istituzionali sempre diversi in cui
deve risolvere i suoi problemi vitali e professionali. Si tratta di
capire le categorie fondamentali e le situazioni reali, e di proporre
linee di azione il più possibile argomentate e ragionevoli.
L'incertezza e l'instabilità, che non sono inconvenienti della sola
pedagogia, in questa sofferta postmodernità, richiedono costanti messe a
punto dell'oggetto, del metodo, dei rapporti interdisciplinari e
intradisciplinari, alla ricerca di un equilibrio sempre più valido fra
ragioni legittimanti, pregnanza culturale ed efficacia pragmatica..
Ciascuno di noi è variamente sollecitato, in diversi momenti della sua
vita professionale, da due istanze complementari, talora in conflitto
fra loro: intendo riferirmi all'istanza giustificativa e all'istanza
esecutiva, indisgiungibili nel lavoro pedagogico. Quanto dedicarsi
all'una o all'altra di esse, dipende certo da scelte personali, ma anche
da circostanze contingenti, che ci inducono solitamente a "squilibrarci"
in una direzione o nell'altra, in attesa di tempi che consentano di
ricuperare l'equilibrio perduto. Il fatto poi che altri, durante la
temporanea fase di "squilibramento", continui a lavorare nella direzione
complementare alla nostra, non può che far bene alla complessiva salute
della disciplina e accelerare il ricupero di ciò che si perde
concentrando per un certo tempo l'attenzione su una soltanto delle due
facce dell'impegno di ricerca pedagogica.
Si tratta di capire perché fare, che cosa è bene fare, come fare. Un
discorso su queste tematiche può essere correttamente pedagogico anche
senza essere sufficiente a "coprire" tutte le ragioni e le dimensioni
dell'operare educativo. Di qui la consapevolezza del limite del lavoro
di ciascun pedagogista, che non solo difficilmente domina tutto il
sapere chiamato in causa da un determinato processo educativo, ma non
sempre possiede tutte le articolazioni interne allo stesso discorso
pedagogico, da quelle di tipo epistemologico a quelle di tipo didattico.
Forse è anche per questo che gli insegnanti sono spesso delusi e
risentiti nei riguardi dei pedagogisti, che vedono talora come grilli
parlanti, il cui sapere è scarsamente fruibile, addirittura fuorviante o
comunque insufficiente a risolvere dubbi della più varia natura. Se poi
si considera che i pedagogisti concorrono in qualche modo, magari in
combutta con i sindacalisti e con i burocrati, a costruire le norme, sia
quelle che trovano poi lenta e faticosa sanzione in parlamento, sia
quelle che sono dalla normativa delegate ai governi, si può capire di
quale considerazione sia potenzialmente circondato chi si trovi a fare
il mio lavoro.
E' vero che ad occuparsi di scuola ci s'imbatte, lo si voglia o no, in
problemi pedagogici, che dunque vanno affrontati pedagogicamente; è vero
che occorrono motivi per accettare, per adottare e per adattare una
norma, o per impegnarsi ad innovare, chiedendo e proponendo nuove norme:
è però altrettanto vero che la complessità delle situazioni, la
pluralità dei punti di vista e la sfiducia più o meno motivata nei
riguardi dei decisori inducono molti a squalificare in partenza le
categorie del dover essere e le innovazioni imposte per via
istituzionale, salvo però invocare interventi dall'alto, per rimediare
al caos che si andrebbe diffondendo, in assenza di indicazioni capaci di
metter tutti d'accordo.
La parola caos è infatti la più utilizzata dai mass media per indicare
l'esito di qualunque intervento normativo, insieme alla parola disagio,
che è una sorta di basso continuo di ogni sinfonia dedicata alla scuola.
Il disagio c'è e va combattuto con qualche provvedimento. Per
l'incapacità e/o la malvagità di chi comanda però i provvedimenti
falliscono uno dopo l'altro e il disagio aumenta. Così le cronache e
così il vissuto di molti, che hanno l'impressione d'esser guidati da
ministri ubriachi e irresponsabili, tutti uguali, dalla fine della
guerra ad oggi, con una variante: che quello in carica è sempre il
peggiore di tutti. In questa situazione complicata e grottesca il CENSIS
ha ricordato che per i greci caos significava non solo disordine e
distruzione, ma anche condizione di partenza e apertura creativa al
nuovo. Poiché però il nuovo non nasce come Minerva armata dal cervello
di Giove, ma arriva a pezzetti, con provvedimenti che appaiono casuali,
anche quando sono collocabili entro una prospettiva dignitosa, si teme
il nuovo come i troiani temevano i greci, anche quando portavano doni. (L.C.,
1996)
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