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UNA
SCUOLA PER LA VITA:
di Dario
Nicoli
Il dilemma della scuola La scuola si trova di fronte ad un dilemma di
rilevanza storica, che concerne la risposta da dare alla progressiva
caduta di motivazione degli studenti nei confronti degli studi. Da un
lato vi è la soluzione prevalente che possiamo definire “accomodante”, e
consiste nell’abbassare progressivamente le mete, ridurre il carico di
lavoro, concordare le verifiche, dare peso nel giudizio alle condizioni
psico-sociali degli studenti, concedere ulteriori chance, aumentare i
recuperi; dall’altro si coglie una risposta di segno opposto di tipo
“neo-rigorista” che punta a circoscrivere il ruolo della scuola alla
sola istruzione liberandosi da tutte le “educazioni” che negli ultimi
anni si sono aggiunte, accrescere il peso e la gravità della disciplina
scolastica, enfatizzare il carico di lavoro degli studenti, sostenere
(si potrebbe meglio dire “armare”) il ruolo del docente con voti e
sanzioni, stigmatizzare lacune e inadempienze, selezionare. Mentre la prima strategia tendenzialmente
trasforma la scuola in una sorta di servizio di animazione finalizzato
alla cura delle problematiche giovanili, la seconda ritiene di poter
ristabilire il principio di autorità e di impegno così come si
riscontravano in un tempo passato, precisamente quello precedente al
Sessantotto. A ben vedere, entrambe queste risposte appaiono
inadeguate: la soluzione accomodante, con l’intento di “venire incontro
ai giovani”, finisce per svuotare l’esperienza scolastica trasformandola
in un tempo noioso in cui non accade nulla di interessante, riducendo la
cultura a formulette e schemi di dubbio valore; la soluzione
neo-rigorista, illudendosi di riesumare un tempo oramai superato, non
può che accrescere il disagio degli studenti e la loro avversione nei
confronti degli studi, aumentando la dispersione ed i passaggi verso
indirizzi di studi ritenuti più facili.
Si tratta di un’alternativa fra due visioni, nessuna delle quali
si rivela, in pratica, accettabile. A bene vedere, esse presentano un
decisivo fattore comune: considerano indiscutibile una metodologia di
insegnamento centrata sulla epistemologia delle discipline, realizzata
secondo micro-sequenze orarie di lezioni-esercizi, sulla base di compiti
di tono scolastico e non tratti dalla realtà, finalizzati non tanto alla
maturazione della personalità dello studente attraverso la cultura
quanto a prendere voti. Ambedue assumono come inevitabile la “visione
dei due tempi”: prima bisogna studiare, dopo il diploma si potrà
applicare nella realtà ciò che si è appreso. Una simile scuola, la cui
cifra principale è l’inerzia, non è assolutamente in grado di far fronte
alle sfide del tempo presente ed in particolare l’irruzione nel mondo
giovanile dell’irrealtà, ovvero dell’estetica dell’apparire e del
consumare.
La sfida della iper-realtà
La demotivazione dei giovani allo studio non è
sintomo di indebolimento delle capacità intellettive di un’intera
generazione, ma trova la sua spiegazione in quel “delitto perfetto” di
cui ha parlato in modo convincente Jean Baudrillard: la realtà sarebbe
stata sostituita da rappresentazioni fittizie che risultano più
interessanti e coinvolgenti rispetto ai contenuti degli studi presentati
in modo inerte. L’iper-realtà, fatta di oggetti, media, informazione,
spettacolo, illusione, risulta composta da esperienze intense e
coinvolgenti, che popolano il mondo dei giovani e costituiscono un
formidabile competitore della scuola. Questa realtà virtuale sollecita
l’immersione totale, una finta partecipazione anche a cause che, se
affrontate realmente, sarebbero benemerite, una specie di relazione
immediata con tutto e con tutti realizzata tramite l’annullamento di
distanze entro uno spazio che tutto ingloba nell’istante. Da qui
l’impressione di una gioventù demotivata agli studi, amorfa di fronte
alle sollecitazioni scolastiche, protesa semmai a considerare lo studio
come una prestazione volta meramente all’acquisizione del voto e della
pagella. Di fronte al pericolo di un “inselvatichimento” della gioventù,
esito dell’azione della potente agenzia antieducativa costituita dal
mondo dei media e dei consumi, con il loro seducente mito di una vita
facile, leggera, piacevole e capricciosa, risulta urgente che la vita
scolastica acquisisca la valenza di
esperienza culturale, tramite la quale i giovani possano ampliare la
propria capacità di visione della realtà, provare il gusto della
scoperta e della conquista personale del sapere. In tal modo,
sperimentando la dimensione reale propria della cultura, essi possono
divenire consapevoli dei valori della civiltà cui appartengono,
desiderare le mete più alte connesse alle proprie attitudini e
potenzialità, acquisire una disciplina che consenta loro di perseguirle
con convinzione superando le difficoltà che necessariamente si
incontrano in tale cammino, così da diventare protagonisti della propria
storia personale e capaci di contribuire in modo attivo al bene di
tutti. Viene quindi meno la teoria dei due tempi: la
scuola non può limitarsi ad un trasferimento di nozioni, ma deve,
tramite l’incontro con la cultura, abilitare i giovani ad entrare
positivamente nel mondo reale, fornendo loro punti di riferimento,
rendendoli consapevoli delle loro potenzialità, cogliendo le possibilità
di bene, giusto, bello che insistono nella realtà, insegnando loro a
connettere il presente con il passato ed immaginare il futuro in modo
ragionevole, agendo in esso da veri ricercatori e costruttori di senso.
Ma, per fare questo, come ci insegna Edgar Morin,
occorre superare un sistema didattico
che punta ad isolare gli oggetti dal loro ambiente, a separare le
discipline, a disgiungere i problemi, piuttosto che a collegare e a
integrare, per un approccio che aiuti i giovani ad interconnettere le
conoscenze separate, uscire dal locale e dal particolare concependo
degli insiemi, capace di prolungarsi in un’etica di solidarietà tra gli
uomini. Va pertanto sostenuta l’attitudine a organizzare la conoscenza,
l’insegnamento della condizione umana, l’apprendistato alla vita e
all’incertezza, l’educazione alla cittadinanza.
Da scuola depositaria del sapere a maieuta del
reale Questo nuovo approccio chiede di passare
dall’informazione alla formazione, incoraggiando un atteggiamento attivo
nei confronti della conoscenza piuttosto che un atteggiamento passivo di
ricorso alla mera autorità. Spinge a ritrovare nella realtà, in modo
selettivo, il materiale su cui svolgere l’opera dell’educazione. L’Unione europea si fa portavoce di questo
passaggio, specie quando sollecita a considerare come “cultura” ogni
apprendimento, qualsiasi sia il modo in cui viene acquisito (formale,
non formale, informale), e propone di dotare ogni cittadino di
competenze chiave che gli
permettano di vivere da protagonista la società della conoscenza.
Le conseguenze di questo cambiamento consistono
nel coinvolgimento della comunità nel compito educativo e formativo, e
nel superamento dei curricoli formali a favore di una pedagogia del
reale. Per l’Italia, si tratta in particolare di evitare di cadere in
una sorta di autoritarismo vacuo, per affrontare l’educazione alla
verità e nel contempo l’educazione morale partendo da esperienze che
consentono una scoperta personale e quindi una relazione vitale con il
sapere. Ciò richiede un modo di fare esperienza del
sapere che stimoli la persona a porsi di fronte alla realtà, così da
poter essere in grado di comprendere, orientarsi e agire. Occorre mobilitare
la persona in modo attivo a fronte di compiti-problema in modo da
stimolarne l’autonomia, l’iniziativa concreta, in definitiva il
desiderio di apprendere tramite coinvolgimento personale. È ciò che si
intende per “competenza”. Questa impostazione è resa possibile dalla
consapevolezza circa le tre dimensioni fondamentali del sapere:
-
il sapere
possiede una dimensione
logico-cognitiva che presuppone un linguaggio, un campo di
riferimento ed inoltre un’epistemologia che permette di delineare gli
impianti concettuali e gli schemi cognitivo-operativi delle discipline.
-
Inoltre il
sapere presenta una dimensione
affettiva e relazionale che rimane nascosta quando si riduce
l’intelligenza a pura funzione di calcolo, memoria e ripetizione. Ogni
ambito disciplinare possiede la capacità di “seduzione” nel senso che
esprime un fascino proprio tale da attrarre la persona e suscitare
emozioni. In tal modo avviene una mobilitazione dell'intelligenza
emotiva, si sollecita lo studente a mettersi in gioco, a prendersi cura
dell'oggetto del suo studio apprezzando il carattere personale e sociale
del sapere sia come procedura sia come aspirazione e bisogno.
-
Infine il
sapere evidenzia una dimensione
concreta: ogni conoscenza è implicata nella realtà che ne
costituisce l’ambiente entro cui prende vita dando nome alle cose ed ai
processi, rendendo comprensibile ciò che accade, contribuendo a
formulare ipotesi di soluzione e motivando l’utilizzo degli strumenti
idonei, fornendo criteri appropriati per valutare il percorso che si sta
seguendo e suggerire miglioramenti. Il carattere pratico del sapere è
presente anche nella sua epistemologia: infatti, si dice che un sapere è
astratto nel senso che è stato tratto dalla realtà che rappresenta i
luogo nel quale esso è necessariamente incorporato.
Il potere della cultura e la “persona
competente” È proprio in forza di queste tre caratteristiche
del sapere – logico-cognitiva, affettiva e relazionale, concreta – che
si possono pensare esperienze di apprendimento non più inerti bensì
vitali, in grado di sollecitare maggiormente la persona dello studente
che in tal modo ha l’occasione di sperimentare personalmente la cultura. Il giovane che si avvicina al sapere è posto in
tal modo entro un’affezione che sollecita la sua sensibilità e suscita
un legame ed un desiderio di apprendere; nel contempo, egli è portato a
cogliere il valore di ciò che impara poiché tramite esso si apre sempre
più alla realtà, scopre la possibilità di conoscerla effettivamente e
quindi si rende consapevole delle proprie capacità e dei propri talenti. Occorre precisare che la competenza non è un
oggetto né un fattore che possa essere trasferito dall’insegnante al
discente. Essa indica in senso proprio la
qualità di una persona, che
viene riconosciuta quando questa si mostra capace, con prove tangibili e
significative, di mobilitare le proprie risorse – abilità e conoscenze –
al fine di fronteggiare in modo adeguato i compiti ed i problemi che gli
sono affidati.
La competenza non è assimilabile né ad un insieme
di saperi, e neppure ad un adattamento sociale, ma indica una
caratteristica di natura etico-morale della persona, una disposizione
positiva di fronte al reale. È competente la persona autonoma e
responsabile che ha coscienza dei propri talenti e della propria
vocazione, possiede un senso positivo dell’esistenza, entra in un
rapporto amichevole con la realtà in tutte le sue dimensioni, di cui
coglie i principali fattori in gioco, è inserita in forma reciproca nel
tessuto della vita sociale in cui agisce in modo significativo ed
efficace. Le abilità e le conoscenze costituiscono la trama
e nel contempo gli ingredienti di un’azione formativa per compiti e
problemi che è tale se è in grado di sollecitare lo studente alla
scoperta del valore del sapere in quanto fonte di affezione, utile,
dotato di senso. Paola Mastrocola, nel suo recente volume
“Togliamo il disturbo”, nel suo furore antipedagogico trova conveniente
l’espediente teso a confondere la competenza con l’abilità, riducendo
quest’ultima ad “esigenza delle imprese”. In realtà, un approccio per
competenze permette di fissare in modo univoco ed impegnativo per tutti
– insegnanti, studenti e famiglie - le mete necessarie ad una seria
preparazione dell’allievo: ad esempio indicando nelle evidenze (o
prestazioni attese) la corretta padronanza della lingua italiana anche
sotto il profilo lessicale, ortografico e grammaticale; inoltre
prevedendo che lo studente sappia presentare pubblicamente le opere
letterarie di autori ritenuti indispensabili, manifestando in ciò non
solo preparazione, ma anche passione e capacità di convincimento presso
i propri compagni. L’approccio per competenze punta in realtà a “mirare
in alto” ed a contrastare la tendenza alla banalizzazione del sapere ed
alla scomparsa di una reale padronanza della parola, ma lo fa evitando
posizioni restauratrici che non sono credibili perché non fanno i conti
con la realtà culturale e sociale del nostro tempo che non va
demonizzata, ma compresa, prendendo da essa ciò che è buono. Mentre il
rinchiudersi nel vecchio liceo per pochi risulta un’operazione alla
lunga poco convincente proprio su quel piano culturale che si dichiara
invece di voler difendere dall’ennesima “nuova barbarie” vaticinata
dagli apocalittici delle riforme scolastiche.
In
questa prospettiva la scuola può, come
afferma Jerome
Bruner,
coltivare le energie naturali che stimolano l’apprendimento spontaneo o
“volontà di apprendere”, quelle che non dipendono da una ricompensa
esterna, ma derivano da una sorgente
intrinseca alla persona, essendo inerente al felice compimento
dell’attività:
-
la
curiosità:
infatti
la
più singolare caratteristica umana è l’attitudine ad apprendere;
-
il
desiderio di competenza,
ovvero lo stimolo ad affrontare e risolvere problemi, così che la
competenza diventa a sua volta un fattore di motivazione prima ancora di
divenire una capacità conseguita;
-
l’aspirazione
ad emulare un modello
proposto dagli insegnanti intesi in quanto équipe, che non consiste
necessariamente nell’imitare il maestro, quanto nel fatto che egli
divenga parte integrante del dialogo interno dello studente, una
persona, cioè, di cui egli desidera il rispetto, di cui vuole far sue le
qualità;
-
l’impegno
consapevole ad inserirsi nel tessuto della reciprocità sociale,
che rappresenta il desiderio intrinseco nella natura umana di rispondere
agli altri e cooperare con essi in vista di un obiettivo comune:
vi
è nel legame sociale una spinta intrinseca ad apprendere, ed è non già
un’imitazione, quanto una dinamica in cui si apprende reciprocamente. La
volontà di apprendere è un motivo intrinseco, che trova la sua sorgente
e la sua ricompensa nell’esercizio di sé. Essa diventa un problema
soltanto in determinate circostanze: come quelle di una scuola in cui si
impone un programma, gli studenti sono privati di ogni iniziativa, la
linea da seguire è rigidamente fissata. Quindi non vi è un problema di
apprendimento in sé, quanto di un metodo di insegnamento che impone
compiti che non riescono a far leva sulle energie naturali
dell’apprendimento proprie dell’allievo.
Il metodo
per l’apprendimento autentico
L’insegnamento non è una successione di lezioni e neppure una semplice
sequenza di pratiche operative, ma organizzazione e animazione di
situazioni di apprendimento che si riferiscono a situazioni reali in cui
il soggetto è chiamato ad esercitare ruoli attivi, procedendo tramite
essi nella piena consapevolezza e padronanza anche teorica dei saperi
sottostanti. Per lavorare in modo consapevole sulle competenze
è necessario quindi collegare ciascuna competenza a un insieme
delimitato di problemi e di compiti; inventariare le risorse
intellettive (saperi, tecniche, saper-fare, attitudini, competenze più
specifiche) messe in moto dalla competenza considerata.
Il discente è posto in tal modo nella condizione di fare un’esperienza
culturale che ne mobilita le capacità e ne sollecita le potenzialità
buone. Il sapere si mostra ad egli come un oggetto sensibile, una realtà
ad un tempo simbolica, affettiva, pratica ed esplicativa.
Ciò comporta la scelta di occasioni e di compiti che sollecitano lo
studente a fare la scoperta personale del sapere, di rapportarsi ad esso
con uno spirito amichevole e curioso, di condividere con gli altri
questa esperienza, di acquisire un sapere effettivamente personale.
È
errato contrapporre la didattica per competenze a quella per discipline;
semmai la prima, se bene intesa, contrasta la degenerazione di
quest’ultima che consiste nel ridurre il lavoro del’insegnante al
trasferimento di una certa quantità di nozioni senza un legame ricercato
né con gli studenti né con la realtà, ma neppure con i colleghi.
L’insegnamento “impiegatizzato” è divenuto una routine e così la libertà
di insegnamento è degenerata nell’automatismo.
L’insegnante non si limita a trasferire le conoscenze, ma è una guida in
grado di porre domande, sviluppare strategie per risolvere problemi,
portando in tal modo il discente a comprensioni più profonde. I
“prodotti” dell’attività degli studenti costituiscono le evidenze di una
valutazione attendibile, ovvero basata su prove reali ed adeguate.
Il
valore della didattica per competenze è definita dalla seguenti mete
formative: formare cittadini consapevoli, autonomi e responsabili;
riconoscere gli apprendimenti comunque acquisiti; favorire processi
formativi efficaci in grado di mobilitare le capacità ed i talenti dei
giovani rendendoli responsabili del proprio cammino formativo;
caratterizzare in chiave europea il sistema educativo italiano rendendo
possibile la mobilità delle persone nel contesto comunitario; favorire
la continuità tra formazione, lavoro e vita sociale lungo tutto il corso
della vita; valorizzare la cultura viva del territorio come risorsa per
l’apprendimento; sollecitare una corresponsabilità educativa da parte
delle famiglie e della comunità territoriale.
Scuola come comunità di apprendimento Una scuola in grado di fare ciò è definibile non
come burocrazia né come organizzazione di servizi, bensì assume i
caratteri di una comunità di apprendimento che è tale quando fornisce a
coloro che vi abitano una prospettiva unitaria e pone l’enfasi sul
processo più importante che accade al suo interno, ovvero la relazione
educativa come sollecitazione delle qualità umane dei giovani, mettendo
in moto il loro desiderio di sapere e muovendosi insieme lungo una pista
di ricerca e di scoperta.
L’organizzazione formativa intesa in senso
comunitario rende possibile la fluidità e la continuità dei processi di
apprendimento e di maturazione. Ciò richiama i requisiti delle
learning organization secondo
la regola dello “svilupparsi apprendendo”, mobilitando non solo le
abilità cognitive, ma anche quelle intuitive, emozionali, pratiche e
sociali. Tale modello spinge le scuole a rimodellare
continuamente la propria materia che è costituita da un pensiero
creativo in grado di far emergere continuamente nuove strategie. Ciò
richiede di promuovere corsi di azione sempre nuovi, abbandonando
l’enfasi eccessiva sugli obiettivi che spesso finiscono per diventare
camicie di forza, per far sì che le persone capiscano da sole qual è
l’obiettivo adeguato per ogni situazione (gli obiettivi “emergono”
attraverso il processo) e quali sono i
limiti da evitare. I principi di questo modo di organizzare la
comunità di apprendimento sono: inserire l’intero nelle singole parti
(aree disciplinari, tecniche, ruoli…) puntando alla
ridondanza delle funzioni (ogni
docente non è solo esperto di una materia, ma anche membro di una
comunità di apprendimento e animatore di situazioni di apprendimento dal
carattere olistico), spingendo gli individui ad
accettare le sfide indipendentemente dalla loro natura ed
origine; perseguire la differenziazione e la varietà necessaria puntando
a far sì che le competenze e le capacità siano possedute dal gruppo e il
singolo sia multifunzionale; adottare il minimo di regole per garantire
la libertà di auto-organizzazione, evitando che i dirigenti diventino
“progettatori di tutto” per essere guide; imparare ad apprendere,
evitando le ricette, ma promuovendo atteggiamenti mentali aperti e
creativi. Occorre che l’organizzazione-comunità non cada
nella routine, neppure in quella “progettuale”. Essa deve cercare le
novità ed aprirsi agli eventi potenzialmente formativi, anche mettendo
in discussione pratiche consolidate quando necessitano di rinnovamento. Va ricordato che il fattore identitario, se non è
continuamente “incarnato” nella vita della comunità, può trasformarsi in
un mero discorso retorico, senza che ne fluisca una linfa vitale in ogni
ambito della vita interna. I processi organizzativi tendono al
raffreddamento, i sistemi tendono all’entropia (perdita di energia) e
ciò accade specie quando dominano processi di inerzia che replicano il
già noto. Il fattore che sta al centro dell’identità e nei
suoi valori va rinnovato nella vita quotidiana dell’organizzazione: esso
è in tal modo convalidato ogni volta che gli allievi apprendono, i
genitori partecipano, gli insegnanti traggono soddisfazione dal loro
lavoro, il contesto riconosce l’importanza del servizio prestato. Va
altresì considerato il pericolo di cadere nell’eccessiva progettualità
che porta a spostare l’attenzione dal successo degli studenti a quello
del progetto. Anche in tema di qualità, non va costruita una
“organizzazione di carta”, ma una realtà dove la cultura è esperienza,
scoperta, cammino verso il sapere che si rinnova continuamente traendo
insegnamento dalle proprie pratiche migliori, aperta agli eventi che
portano novità buone. La comunità di apprendimento richiede un’opera di
protezione a carico del responsabile, un equilibrio tra apertura e
conservazione del suo stile peculiare, così che la storia della scuola
cresca con le persone che via via ne sono parte.
Va posta attenzione affinché gli insegnanti non
siano oberati da troppi impegni, ciò che viene ritenuto uno dei
principali impedimenti per il realizzarsi di una vera comunità
educativa: non tutto quello che è possibile deve essere fatto, occorre
che sia anche conforme alla sensibilità del contesto che può respingere
anche idee buone se le avverte estranee al proprio stile.
Va perseguita e continuamente migliorata la
distribuzione dei carichi di lavoro, in modo da dare più tempo e spazio
al “fare comunità”. Vanno ridimensionate fino ad un livello ”giusto”
le tendenze alla proceduralizzazione dei processi che rappresentano la
forma attuale delle logiche di controllo e di omologazione che
provengono da varie strutture esterne ma anche interne (è il caso della
qualità). Non tutti gli
spazi ed i tempi vanno riempiti, perché occorre anche lasciare aperte le
porte ad eventi inattesi ed idee non scritte nei progetti e nei
documenti programmatici. Infatti, il nuovo può emergere dal vecchio e la
routine può evidenziare per contrasto un fattore imprevisto che merita
di essere preferito al comportamento ripetitivo.
Un’organizzazione-comunità che lascia spazi per eventi non previsti
sa vivere l’attesa,
coltiva il
senso di privazione ed educa alla
meraviglia. Vanno ridotti all’essenziale i
progetti cui la struttura partecipa, preferendo solo quelli che
consentono di innovare la didattica ordinaria ovvero concorrono in modo
concreto e riscontrabile al maggiore successo formativo degli studenti
ed alla soddisfazione degli insegnanti.
Diverse indicazioni che derivano dalle nuove
teorie costruttivistiche peccano di un limite di eccessività: si può
esagerare anche in idee e proposte in sé buone, ma deleterie se
finiscono per soffocare la giusta fisiologia dell’ambiente di
apprendimento. Il piano formativo e le unità di apprendimento L’attore principale del processo formativo è
costituito dal gruppo/comunità dei docenti aggregati sia per assi
culturali/aree professionali sia per consigli di classe. Entro tale
comunità si svolgono i passi indispensabili per una didattica per
competenze: aggregare le
discipline per assi culturali e identificare i “nuclei portanti” del
sapere; scegliere un approccio misto, che alterna – in modo intelligente
– lezioni, compiti, esperienze; sospendere il giudizio e incoraggiare il
cammino, tollerando anche incertezze o errori purché vi sia dedizione e
impegno; seguire ciò che l’esperienza ci ha insegnato: aspetti che
sollecitano la curiosità, errori da evitare, variazioni che richiamano
l’attenzione, momenti in cui è possibile chiedere rigore e “disciplina”;
evitare la dispersione del tempo e la noia; sollecitare gli studenti a
proporre pubblicamente l’esito del proprio lavoro.
Questo modo di fare scuola richiede un quadro di riferimento unitario
dell’équipe/consiglio di classe circa le esperienze che connotano il
percorso formativo dell’anno: da qui la necessità di delineare un
Piano formativo, uno strumento che rappresenta
le esperienze che, nel corso dell’anno, sono in grado di suscitare
un rapporto degli studenti con il sapere in termini affettivi
(curiosità, legame, fascino), concreti (utilità, scoperta) e cognitivi
(padronanza) e di sollecitare l’identificazione con la scuola a partire
dallo stile delle esperienze nelle quali si è coinvolti. Tali esperienze
(intenzionali e programmate, quindi elaborate sotto forma di unità di
apprendimento) prevedono un legame ed
un’intesa tra le diverse discipline al fine di delineare un piano di
lavoro
comune in grado di perseguire
effettivamente le mete educative, culturali e professionali dichiarate.
Occorre trovare un’intesa comune tra scuole dello stesso indirizzo e
dello stesso contesto intorno alle evidenze delle competenze, al fine di
garantire univocità di riferimenti e trasparenza delle certificazioni.
Per fare un esempio, le evidenze della competenza “consapevolezza
ed espressione culturale” con riguardo alle dimensioni storica e sociale
possono essere così formulate:
-
Collocare fatti ed eventi nel tempo e nello spazio, in dimensione
sincronica e diacronica, riconoscere gli elementi fondanti delle civiltà
studiate e la loro evoluzione, misurare la durata cronologica degli
eventi storici e rapportarli alle periodizzazioni fondamentali.
-
Selezionare, confrontare e interpretare informazioni da fonti e
documenti di varia origine e tipologia (reperti di epoche diverse,
documenti scritti, risorse in rete,….).
-
Individuare i possibili nessi causa - effetto, cogliendone il diverso
grado di rilevanza.
-
Ricercare e individuare nella storia del passato le possibili premesse
di situazioni della contemporaneità e dell’attualità. Riconoscere il
valore della memoria delle violazioni di diritti dei popoli per
non ripetere gli errori del passato. Individuare le tracce della
storia nel proprio territorio e rapportarle al quadro socio-storico
generale.
-
Interpretare i rapporti tra i fenomeni storici e il loro contesto
sociale, scientifico e culturale, con particolare riferimento
all’evoluzione della tecnologia e alla reciproca interazione tra questa
e la dimensione sociale.
-
Individuare il ruolo che le strutture organizzative della civiltà
(familiare, sociale, politica, economica) hanno nella vita umana e il
rilievo delle dimensioni religiosa, culturale e tecnologica, analizzarne
le trasformazioni nel tempo e le diverse configurazioni nello spazio
geografico.
-
Leggere e comprendere indagini
e sviluppare percorsi di ricerca demografica, con l’utilizzo
degli strumenti e della metodologia appropriata.
Un’intesa relativa alle evidenze delle competenze, ed ai livelli tipici
di padronanza, consente di sviluppare in modo ordinato l’autonomia delle
scuole e nel contempo il necessario rapporto di solidarietà e
sussidiarietà che si instaura tra di esse, evitando sia l’omologazione
che uccide la cultura sia il caos che impedisce una corretta interazione
tra gli attori del sistema educativo.
L’unità di apprendimento
(Uda) costituisce la struttura di base dell’azione formativa che
consiste nell’insieme delle occasioni di apprendimento che permettono
all’allievo di entrare in un rapporto personale con il sapere,
affrontando compiti che conducono a prodotti di cui egli possa andare
orgoglioso e che costituiscono oggetto di una valutazione più
attendibile. Possiamo
avere alcune essenziali UdA ad ampiezza massima (tutti i formatori),
mentre la maggior parte saranno medie (alcuni) o minime (asse
culturale). L’Uda prevede sempre compiti reali (o simulati) e conduce a
prodotti che i destinatari sono chiamati a realizzare, ed indica le
risorse (capacità, conoscenze, abilità) che è chiesto di mobilitare
all’allievo per diventare competente. Ogni UdA deve sempre mirare almeno
una competenza tra quelle presenti nel repertorio di riferimento. Il
criterio di fondo cui riferirsi è la possibilità di sollecitare i
talenti dei giovani e di stimolarli alla ricerca, a prendere il cammino.
Occorre insegnare per compiti con consegne chiare e stimolanti, variare
le situazioni di apprendimento ed il modo di implicazione degli
studenti, puntare talvolta sul paradosso e sul contrasto con il punto di
vista usuale. Va
evitata la pratica tesa a riversare sugli interlocutori quantità
rilevanti di nozioni e regole, per sostituirla con l’intento di
sollecitare curiosità, definire un percorso di studio, fornire strumenti
e stimolare la riflessione e la strutturazione del sapere acquisito. In
questo modo,
si impara lavorando.
Il focus della competenza è pertanto posto
sull’evidenza dei compiti/prodotti che ne attestano concretamente la
padronanza da parte degli allievi, valorizzando così il concetto di
“capolavoro” che viene esteso anche agli assi culturali e alla
cittadinanza. È il significato del criterio della attendibilità:
con essa si intendere che
solo in presenza di almeno un prodotto reale significativo, svolto
personalmente dal destinatario, è possibile certificare la competenza
che in tal modo corrisponde effettivamente ad un “saper agire e reagire”
in modo appropriato nei confronti delle sfide (compiti, problemi,
opportunità) iscritte nell’ambito di riferimento della competenza
stessa. Una valutazione attendibile Le competenze, come abbiamo visto, non sono dei
saperi, dei saper-fare o delle attitudini, ma padronanze in base alle
quali la persona è in grado di mobilitare, integrare ed orchestrare tali
risorse. Questa mobilitazione è pertinente solo entro una situazione
reale (o simulata); ogni situazione costituisce un caso a sé stante,
anche se può essere trattata per analogia con altre situazioni già
incontrate. L’esercizio della competenza passa attraverso operazioni
mentali complesse, quelle che permettono di determinare (più o meno
coscientemente e rapidamente) e di realizzare (più o meno efficacemente)
un’azione relativamente adatta alla situazione. In base a ciò, è incongruo ritenere che la
valutazione delle competenze si svolga attraverso la somma algebrica di
voti conseguenti a verifiche aventi per oggetto conoscenze ed abilità,
attuate in modo inerte ovvero slegate da un compito-problema
contestualizzato, perché questo modo di procedere non permette di
esprimere un giudizio sulla capacità della persona di mobilitare le
risorse a disposizione a fronte di compiti-problema reali, fattore che
costituisce il cuore di una valutazione attendibile. È quindi
indispensabile che la valutazione segua una didattica per competenze;
questa è svolta tramite unità di apprendimento, caratterizzate
dall’insieme di occasioni che consentono allo studente di entrare in un
rapporto personale con il sapere, affrontando compiti che conducono a
prodotti di cui egli possa andare orgoglioso e che costituiscono oggetto
di una valutazione attendibile. Tre sono pertanto gli
elementi fondamentali per la descrizione di una competenza: i tipi di
situazione di cui essa dà una certa padronanza; le risorse che mobilita,
saperi teorici e metodologici, attitudini, saper-fare e competenze più
specifiche,; la natura degli schemi di pensiero (schemi motori, schemi
di percezione, di valutazione, di anticipazione, di decisione) che
permettono la sollecitazione, la mobilitazione e l’orchestrazione di
risorse pertinenti, in situazione complessa e in tempo reale. A
differenza della valutazione di conoscenze ed abilità, la
valutazione di una competenza richiede l’analisi della dimensione da
valutare, la scelta di criteri di valutazione, gli strumenti di
valutazione, i livelli di prestazione.
Tale approccio necessita di un quadro di dimensioni che possono essere
riferite:
È rilevante in questo tema il riferimento ad EQF
- il sistema europeo di
classificazione delle competenze - perché illustra
in modo univoco i risultati dell’apprendimento, pone al centro dell’apprendimento le competenze, propone una relazione
“attiva” tra competenze, abilità e conoscenze, valorizza allo stesso tempo i risultati di apprendimento formali, non
formali ed informali. Un tale sistema richiede l’adozione di un
modello rigoroso e fondato di valutazione, convalida e riconoscimento
dei risultati di apprendimento delle competenze e dei saperi, in modo da
porre in luce le evidenze della competenza ed i relativi livelli di
padronanza da parte della persona che ne è titolare.
Sulla base di quanto detto, si può delineare nel
modo seguente il processo di valutazione, distinto in quattro fasi:
previa, formativa, finale o accertativa, infine attestativa e
certificativa:
La
valutazione finale avviene
tramite prove pluri-competenze (sempre sulla base delle rubriche di
riferimento) collocate in corrispondenza delle scadenze formali dei
corsi (quando vengono rilasciati titoli di studio) e consente di
rilevare in forma simultanea, sulla base di un compito rilevante, la
padronanza di più competenze e saperi da parte dei candidati.
La prova
di valutazione finale, o “prova esperta” concorre, assieme alle attività
di valutazione di tipo formativo che si svolgono al termine di ogni UdA,
di rilevare il patrimonio di saperi e competenze – articolati in
abilità, capacità e conoscenze - di una persona, utilizzando una
metodologia che permetta di giungere a risultati certi e validi.
L’utilizzo della prova di valutazione finale (prova esperta) richiede
necessariamente che l’attività di apprendimento venga svolta secondo la
metodologia delle Unità di apprendimento, centrate su compiti e
prodotti. Infatti l’insegnamento
non è inteso, nel contesto dell’approccio per competenze, come una
“successione di lezioni”, ma come organizzazione e animazione di
situazioni di apprendimento orientate ad attivare la varietà delle
dimensioni dell’intelligenza indicate:
affettivo-relazionale-motivazionale, pratica, cognitiva,
riflessivo-metacognitiva e del problem solving, tutte in un continuum
dinamico tra loro.
La prova esperta si caratterizza per questi aspetti: è un compito aperto
e problematico, che richiede allo studente l’attivazione della capacità
di stabilire collegamenti, di ricavare da fonti diverse e da più codici
informazioni anche implicite, di affrontare l’analisi di un caso o di
risolvere una situazione problematica, infine di giustificare le scelte
praticate e il percorso svolto. È dunque una manifestazione in itinere
della capacità (e della competenza chiave europea) di imparare a
imparare, espressa in contesti ancora limitati e alla portata dello
studente, ma capace di porlo nella condizione di attualizzarne gli
atteggiamenti in modo che possano diventare oggetto di valutazione. È un
atto prevalentemente
individuale, che conclude percorsi nei quali i medesimi atteggiamenti si
erano manifestati soprattutto in ambiente cooperativo. Richiede da parte
dei docenti (e la formulazione al plurale è d’obbligo perché questo tipo
di prova è sempre interdisciplinare) l’individuazione anticipata di
criteri di valutazione consoni.
Per una
certificazione “onesta”
La
certificazione rappresenta un’azione complessa, tesa a soddisfare i
seguenti criteri:
la
comprensibilità del linguaggio, che deve riferirsi - in forma
narrativa e non stereotipata - a locuzioni e sintagmi che consentano ai
diversi attori di visualizzare le competenze;
l’attribuibilità
delle competenze alla persona con specificazione delle evidenze che la
contestualizzano entro processi reali in cui è coinvolta insieme ad
altri attori;
la
validità del metodi adottati nella valutazione e validazione delle
competenze stesse, con specificazione del loro livello di padronanza.
Un
certificato siffatto necessita di una raccolta dei prodotti più
significativi realizzati dalla persona valutata. Si tratta del
portfolio, ovvero una
raccolta significativa dei lavori dell’allievo che racconta la
storia del suo impegno, del suo rendimento e del suo progresso. Permette
di capire la crescita e lo sviluppo di una persona tramite materiali che
permettono di comprendere “che cosa è avvenuto” lungo il percorso
formativo.
È
elaborato dall’allievo che è chiamato a scegliere
i lavori di cui va più
orgoglioso, accanto a quelli che, d’intesa con i docenti,
risultano significativi
al fine di documentare i suoi progressi nell’apprendimento. Tra i lavori
documentabili vi sono anche quelli realizzati in alternanza. Possono
essere rilevanti anche gite, tornei, concorsi, eventi purché gestiti in
chiave formativa. La
certificazione, riferita ad ogni studente e svolta dall’intera équipe
dei docenti-formatori, si svolge nei seguenti modi:
1.
si
riportano le competenze indicate in ciascuna delle rubriche e
corrispondente UdA;
2.
si
indicano le situazioni di apprendimento più significative
traendole dal portfolio e dall’attività didattica;
3.
si
attribuisce il livello della competenza (se positivo),
specificandone il grado ed eventualmente altre informazioni utili, sotto
forma di note. La certificazione è onesta quando il consiglio di
classe evita la tentazione di “barare” trasponendo i voti delle
discipline sotto l’elenco delle competenze, ma indica effettivamente le
prove reali ed adeguate della padronanza dello studente, ovvero ciò che
sa fare con ciò che sa. In questo modo il giudizio risulta fondato ed
attendibile, ed indica la capacità della persona di fronteggiare in modo
adeguato i compiti ed i problemi che sono propri del suo ambito di
studio, oltre che della cittadinanza intesa in senso lato. * * * * * * * La formazione di persone competenti non può
essere assimilata ad una tecnica, poiché rientra nel più ampio compito
educativo della società. Annah Arendt ha espresso nel testo Vita
Activa una definizione
assolutamente convincente circa tale compito: «Il fatto che
l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può attendere
l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente
improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la
nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità».
Bibliografia
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Bompiani, Milano, p. 129.
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comunità che apprende, LAS, Roma.
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Wald P.,
Castleberry M. (2010), Insegnanti
che apprendono. Costruire una comunità professionale che apprende,
LAS, Roma. * Relazione tenuta dal
prof. Dario Nicoli al Convegno Regionale UCIIM svoltosi a Pisa l’ 8
ottobre 2011. |
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