… e dagli al "concorsone"
di Pino Santoro
Volevo evitare di scendere nell’agone, vestirmi in abiti curiali e guardare il mondo dall’alto di una faticosamente guadagnata stoica imperturbabilità.
Non ce l’ho fatta. La cosa mi sta troppo a cuore, per stare in disparte. Tocca quindi reindossare l’elmetto e buttarsi nella mischia, per combattere un’altra battaglia, l’ennesima. Guerra "giusta", battaglia di civiltà. Almeno così a me pare.
Il mio sarà un discorso – lo avrete capito - volutamente partigiano, perché i principi vanno difesi non solo "prendendo parte" ma anche "essendo di parte". Vale per le cose in cui in genere "si crede", ed io credo alla bontà della scelta contrattuale prevista dall’art. 29 del CCNL della scuola. E’ un credo disincantato e laico, che non presuppone nessun atto di fede, ma nasce dalla consapevolezza che la scuola italiana non va da nessuna parte se pensa di continuare a retribuire gli insegnanti attraverso un sistema che riconosce e premia solo ed esclusivamente l’anzianità di servizio.
Il perché di una scelta. La professione docente
Tutto parte da lì. Qualsiasi discorso retributivo non può infatti che fare i conti con che cosa significhi "lavoro docente", a quale modello esso debba essere ricondotto (impiegatizio? libero-professionale?), che cosa implichi, che cosa chiami in campo. La discussione è stata lunga e feconda, in questi ultimi anni. Il nuovo CCNL del comparto scuola fa una scelta, da questo punto di vista, netta e coraggiosa (il vecchio art. 38 del contratto del ’95 è stato proprio per questa ragione in parte riscritto): la funzione docente si fonda "sull’autonomia culturale e professionale dei docenti" (art. 38/4); il loro profilo professionale è costituito "da competenze disciplinari, pedagogiche, metodologico-didattiche, organizzativo-relazionali e di ricerca, tra loro correlate ed interagenti, che si sviluppano con il maturare dell’esperienza didattica, l’attività di studio e di sistematizzazione della pratica didattica" (art. 38/6). E’ detto bene, forse non si poteva dire meglio. Ma se è così (e di questo sono per esempio personalmente convinto) le scelte operate dal contratto per riconoscere economicamente il lavoro docente sono coerenti e conseguenti. C’è una logica interna all’articolato ferrea, cogente, che impone e richiede scelte di campo altrettanto nette: penso ad esempio al "tutti uguali" sbandierato ai quattro venti da più di qualcuno, soprattutto in queste ultime settimane, in cui la polemica si è fatta più aspra. Il contratto non sposa questo punto di vista, proprio perché non pensa al lavoro docente ritagliato sul modello impiegatizio, a cui sono affezionati per esempio i sostenitori del todos caballeros egualitarista (lo scambio indecoroso bassi salari equamente distribuiti/nessuna verifica e nessun controllo del proprio operato ha creato guasti e danni enormi alla scuola italiana: ci vorranno decenni per liberarsi di questa tara ed eredità, essa sì, della prima repubblica).
Il docente a cui guarda il contratto opera in piena autonomia (e non potrebbe non essere così, stante la Costituzione vigente), è un professionista della formazione che mette a disposizione le sue competenze per la realizzazione di un progetto educativo specifico, che trova la sua definizione puntuale nel piano dell’offerta formativa elaborato dalla scuola in cui opera. Autonomia non significa pertanto autoreferenzialità, isolamento, lavoro sganciato da un fare ed un saper fare collegiale e condiviso (e infatti la funzione docente "si esplica nelle attività individuali e collegiali", art. 38/4).
Ebbene: come retribuire questo lavoro complesso? Quali parametri adoperare? Che cosa prendere a riferimento? Solo il tempo (di lavoro, e quello che con il semplice trascorrere mi "arricchisce" – per modo di dire! - anche economicamente), come è stato finora?
La variabile "tempo" è un elemento imprescindibile: tempo di lavoro e arricchimento professionale derivato dall’esperienza accumulata con il suo semplice trascorrere sono elementi che devono continuare a pesare, nella definizione economica delle carriere. Ed infatti il contratto non trascura questo aspetto, riconfermando l’impianto retributivo del ’95.
La prestazione lavorativa si esplica quindi in un tempo certo, contrattualmente definito. Chi è chiamato a svolgere attività ulteriori, di insegnamento o non insegnamento, ha diritto ad accedere ad un compenso aggiuntivo, anch’esso definito in modo preciso.
Ma se restassimo legati al solo parametro "tempo" (con il quale si riconosce, ad esempio, il lavoro impiegatizio) non daremmo compiutamente conto della complessità e ricchezza del lavoro docente: su questo il contratto consuma una scelta chiara ed irreversibile. Il modello impiegatizio è assolutamente insufficiente, la ricchezza professionale, per poter essere adeguatamente riconosciuta, non può consentire che si prenda ad unico e solo parametro di riferimento il tempo di lavoro. C’è infatti dell’altro, ed è a questo altro che guarda, con coraggio e lungimiranza, l’art. 29 del CCNL.
Il concorsone
"Valorizzare la professionalità acquisita con particolare riferimento all’attività di insegnamento" (art. 29/1). A questo mira la procedura concorsuale definita dall’art. 29, al termine della quale al docente è riconosciuta una maggiorazione stipendiale di 6.000.000 annui lordi. Come si sa tale beneficio potrà essere riconosciuto a non più del 20% di coloro che risultano in servizio al 31 dicembre 1999; in fase di prima applicazione, alla selezione saranno ammessi soltanto coloro che abbiamo maturato un’anzianità di servizio di insegnamento di ruolo di almeno 10 anni.
Le modalità di svolgimento delle prove sono state definite dal CCNI sottoscritto il 31 agosto scorso, ma è soltanto con l’emanazione dei decreti attuativi da parte del ministro della P.I., che danno il via alla procedura concorsuale, che si è scatenata la bagarre contro il nuovo istituto contrattuale. Le motivazioni sono in alcuni casi assolutamente pretestuose, per cui non vale la pena di prenderle in considerazione (penso alla polemica, tutta politica, del Polo o a quella della GILDA, che da sempre insiste sui temi della professionalità, ma che non è stata capace di proporre altro in sede di confronto contrattuale che una valutazione del lavoro docente tutta affidata ai capi d’istituto!). In altri casi invece nascono da preoccupazioni legittime, proprio perché la procedura, così come è stata definita, presenta aspetti discutibili, e sui quali vale la pena di riflettere.
L’esiguità delle risorse
E’ questa la ragione che ha costretto a limitare la partecipazione al concorso a coloro che hanno almeno dieci anni di servizio e a riconoscere il beneficio a non più del 20% dei partecipanti. E’ un limite evidente, che condiziona l’impianto innovatore dell’art. 29 e che solleva i maggiori dubbi e perplessità. Il contratto non aveva a disposizioni risorse illimitate: c’è comunque l’impegno, di OO.SS. e Amministrazione, non solo a rifinanziare l’istituto, in occasione dei prossimi rinnovi, ma anche ad incrementare le risorse per consentire l’aumento della platea dei beneficiari.
Divide et impera
Uno degli argomenti più abusativi contro l’art. 29 è che, differenziando le retribuzioni si minerebbe, dalle fondamenta, la possibilità per i docenti di operare collegialmente, proprio perché il clima positivo verrebbe impedito dalle invidie e i sordi rancori dei colleghi nei confronti di coloro che otterrebbero l’incremento stipendiale. Inoltre, proprio contando sul clima avvelenato e sulle divisioni interne al corpo docente, il capo d’istituto (prossimo dirigente) fonderebbe il suo dominio incontrastato nella prossima ventura scuola dell’autonomia. A dir la verità ricordo che i capi d’istituto (e non soltanto coloro che si riconoscono nelle posizioni dell’A.N.P.) hanno reclamato, a gran voce, la possibilità di poter partecipare e svolgere un ruolo non secondario nell’attribuzione di questa quota di salario accessorio al personale docente. E’ stata una scelta intelligente del contratto avere precluso loro questa possibilità, per ragioni che è abbastanza facile comprendere (il modello aziendalistico, a cui guardano i fautori del preside manager, non coincide infatti, né in tutto né in parte, con il modello di scuola a cui guardano coloro che hanno sottoscritto il contratto).
Sul clima positivo che si guasterebbe poi non occorre spendere molte parole: è l’appiattimento retributivo ad aver avvilito le energie migliori, nella scuola, e non il contrario.
Sulla procedura
La procedura di selezione, come si sa, si articola in tre fasi. La prima riguarda il curricolo professionale, che la commissione valuta a seguito dell’illustrazione e discussione da parte del candidato. La seconda consiste nello svolgimento di una prova strutturata nazionale, predisposta dal Ministro, volta all’accertamento delle competenze metodologico-pedagogico-didattiche, mentre la terza si svolge mediante una verifica in situazione alla presenza in aula degli alunni e della commissione giudicatrice. E’ una procedura un po’ macchinosa e complessa, per la verità. Così come per altro complesso è il lavoro docente e le competenze che chiama in causa. La semplificazione polemica di chi sostiene che attraverso il "quizzone" si stabilisce il merito è palesemente falsa, per cui non val pena di considerarla. La procedura infatti è così articolata proprio perché rifiuta scelte semplificatrici: il peso infatti attribuito alle tre distinte fasi della procedura privilegia la verifica in situazione (50%), perché è l’attività di insegnamento quella che deve essere valutata e valorizzata soprattutto e prima di tutto.
Sulle Commissioni
Che ne capiscono gli insegnanti universitari di didattica, dal momento che saranno chiamati a far parte delle commissioni giudicatrici?
Se le commissioni fossero tutte formate da insegnanti universitari, l’obiezione sarebbe sicuramente fondata. Così non è, dal momento che è previsto che a farne parte siano gli stessi insegnanti (e non solo quelli in pensione).
Sul "bravo insegnante"
Ci saranno insegnanti di seria A ed insegnanti di serie B, dopo il concorso. E questo è inaccettabile.
Il problema è che il concorso non farà che riconoscere (economicamente) quanto già tutti sanno: e cioè che nella scuola operano insegnanti bravi ed insegnanti meno bravi. E’ sulla bocca di tutti. Non mi sembra uno scandalo (e perché dovrebbe esserlo?) che qualcuno, attraverso una procedura obiettiva e trasparente, finalmente lo certifichi.
Si sostiene da più parti, per altro con convinzione, che la procedura messa in campo non sarebbe in grado di individuarli, i bravi insegnanti. Meglio sarebbe stato, dicono questi esperti di questioni scolastiche, legare il beneficio economico agli esiti degli studenti. Un bravo insegnante infatti è tale se è in grado di formare dei bravi studenti (sul piano delle performances, ma non solo). Strana proposta, in verità. Il rapporto di insegnamento/apprendimento è di natura probabilistica (ci sono infatti solo delle probabilità che un bravo insegnante formi dei bravi alunni, ma non è detto che questo sempre accada). Legare ad un’eventualità probabile un incremento stipendiale sarebbe stata una stupidaggine bell’e buona. Per fortuna che una simile sciagura non si è abbattuta sul personale della scuola.
Pagare chi lavora di più, non chi lavora "meglio"
Se il contratto avesse spostato tutte le risorse sulla retribuzione delle prestazioni aggiuntive, avrebbe creato una distorsione difficilmente sanabile. Non è solo chi fa altro e oltre gli obblighi, che serve alla scuola, ma anche (e soprattutto, direi io) chi fa bene il suo lavoro in classe. L’altro e l’oltre va pagato, non c’è dubbio, ed in maniera più adeguata di quanto oggi ancora non avvenga. Ma non può essere solo ed esclusivamente questo ad essere riconosciuto, pena il ricadere in una considerazione del lavoro docente che in niente si differenzierebbe dal modello impiegatizio, caro a chi non vuole il bene della scuola italiana, pubblica e della repubblica.