BERTAGNA GIUSEPPE, Fare, in Scuola Italiana Moderna, 1999/2000, n.9, p.21, Editrice La Scuola, Brescia |
C’è un fare che non gode di nessun prestigio in campo educativo o, il che è lo stesso, nel campo umanistico: in tutto ciò che riguarda, la promozione dell'umano in ogni età della vita.
E il fare del borbonico facite ammuina. I comandanti della marina del defunto Regno delle due Sicilie davano quest'ordine quando la loro ciurma aveva terminato i lavori che si fanno regolarmente sulle navi: pulire i ponti, oliare gli ìngranaggi, raccogliere le vele e quant'altro. L’ozio è il più pericoloso dei vizi. Per evitarlo, perciò, i marinai che erano a poppa andavano a prua, quelli che erano sottocoperta si recavano sui ponti e viceversa. Un muoversi tanto per muoversi. Un fare fine a se stesso: senza scopo.
Se guardiamo bene, tuttavia, è un fare analogo a quello che Carlo Marx ed i suoi seguaci, fino alla Scuola di Francoforte, hanno sempre classificato con l'aggettivo alienato. Il fare di un uomo che lavora soltanto per guadagnare il necessario per vivere o anche il superfluo per divertirsi, ma che non sa né sceglie né controlla né vede il fine del lavoro che sta facendo.
Questo è deciso da altri, l'imprenditore, il dirigente, il capo squadra. Nel fare alienato ci si comporta alla stregua di Charlie Chaplin nel film Tempi moderni: si avvitano bulloni per tutto il giorno, ma non si sa se per costruire un contenitore o una macchina utensile; inoltre, non si é scelto di avvitare bulloni ma si è stati costretti a farlo per guadagnarsi il necessario per vivere. Naturale, alla fine, sentirsi stritolati da un ingranaggio che non ha. più nulla di umano.
Il fare educativo, e perciò umanistico, invece, è un altro. I Greci lo chiamarono tecne, i latini ars-artis. Comenio, il grande educatore boemo fondatore della pedagogia moderna, scrive che esso richiede la presenza di tre requisiti: <<il modello o idea (…); la materia che consiste nella sostanza cui si deve imprimere una nuova forma; gli strumenti, con l'aiuto dei quali si porta a termine l'opera>>. In altre parole, si fa in senso educativo ed umanistico: quando si sa, con la mente, che cosa si vuole fare (si sa lo scopo, il fine, il modello); quando c'è una materia disponibile a lasciarsi plasmare da questo scopo, fine, modello intellettuale; quando si è, infine, capaci (abili) nell'escogitare i mezzi necessari e più opportuni per realizzare il fine, lo scopo, il modello nella materia che è pronta ad accoglierli.
Il fare educativo-umanistico, dunque, è sempre, come diceva Aristotele, «disposizione o ambito produttivo accompagnato da ragione».
Da un lato, valorizzazione della capacità trasformativa e creativa insita nella manualità dell'uomo.
Non per nulla ars-artis ha la medesima radice di artus, l'articolazione dei corpo umano, che si conclude con le mani e le gambe.
Un’evocazione di significati ancora presente nei nostri artista, artieri, artefice, artificio, artigiano: qualcuno che opera e che costruisce qualcosa di nuovo con le mani.
Dall’altro lato, uso della manualità accompagnato in ogni momento dalla consapevolezza e dall'intenzionalità razionale: sapere ciò che si fa, perché lo si fa, come lo si fa, ed interrogarsi se, i fini ed i mezzi, che si impiegano sono, anche i migliori ed i più giusti disponibili.
Per questo, dicevano i Greci, l'uomo che agisce per tecne, è pantoporos («scopritore di tutte le strade possibili», Eschilo, Prometeo), ha lo «sguardo acuto» (Esiodo, Teogonia), la rapidità del fulmine e del dardo «sempre sveglio» (Eschilo, Prometeo incatenato, v. 358), la mobilità del mare (i 'tecnici' furono messi sotto la protezione della dea marina Metis), la lungimiranza degli indovini (Iliade, I, v.434; II, 108-110; XVII, 249-250), l’astuzia di Ulisse, l’ingegnosità di Prometeo (Esiodo, Teogonia, v. 559 ed Erga, v. 54); l'intuizione di Ermes che (Coefore 815-818) «rischiara tutti i segreti», l'abilità di Efesto (Iliade, XVIII, 503 e ss.) e la sapienza di Atena.
Le stesse caratteristiche manifestano i fanciulli quando fanno in modo educativo.
Quante, volte, tuttavia, in una mattinata, in un anno scolastico sono posti nella condizione di fare nel senso che si è indicato?
Quante volte, invece, essi diventano soltanto oggetti del dire dei docenti e della scuola: questi sì fanno, ma gli allievi subiscono?
Eppure non esistono occasioni più fecondamente educative del fare.