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RAPPORTO BERTAGNA: UN COMMENTO CRITICO
PARTE I I DIRITTI DELLA PERSONA UMANA: Umberto Tenuta
Vorremmo tentare di abbozzare un commento critico, super partes, al Rapporto Bertagna del 28.11.2001, un commento che tenga conto delle osservazioni che da ogni parte ad esso vengono rivolte, ma nello stesso tempo cerchi di coglierne, anche al di là della forma, il significato essenziale, nella prospettiva di una riforma della scuola che dovrebbe risultare quanto più possibile rispettosa del diritto all'educazione ed all'istruzione dei singoli alunni, al di là delle ideologie di parte. Si tratta di un compito estremamente difficile, stante la contrapposizione che ieri opponeva la Destra alla Riforma Berlinguer e che oggi, ancora più forte, oppone la Sinistra alla Controriforma Moratti. In effetti, i contrasti non nascono oggi ma vengono da lontano e forse potevano essere resi meno stridenti da una più accorta strategia di dialogo, necessaria ieri come oggi. Il passato non ci appartiene, ma gli errori di ieri dovrebbero servire ad evitare quelli di oggi. È in tale prospettiva che, al di là degli schieramenti formalizzati, occorre compiere uno sforzo da ambedue le parti, dai sostenitori ad oltranza della Riforma Berlinguer e dai sostenitori ad oltranza della Controriforma Moratti, assumendo come valore supremo il diritto all'educazione ed all'istruzione garantito dalla Carta costituzionale a tutti i cittadini (<<È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese>>) (art. 3 Cost.) e che sembra risultare abbastanza ben recepito nel Regolamento dell’autonomia scolastica di cui al D.P.R. 275/1999, laddove si prevede che le istituzioni scolastiche attuano <<interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti, al fine di garantire loro il successo formativo>> (art. 1). Il successo formativo, inteso come <<pieno sviluppo della persona umana>>, sancito nel Regolamento dell’autonomia scolastica, sembra poter costituire il riferimento essenziale per portare avanti il processo riformatore, valorizzando quanto finora è stato fatto, ma senza assolutizzarlo. In effetti, oggi non si dovrebbe più parlare di Riforma (ri-forma), inteso come sostituzione di un modello organizzativo ad un altro modello organizzativo, ma come processo innovativo sempre aperto, ma definito e mai definitivo. Se si ha il coraggio di assumere a criterio di valore il diritto all'educazione ed all'istruzione, inteso come piena formazione della persona umana nel rispetto delle identità personali, sociali, culturali e professionali dei singoli alunni e se si fa lo sforzo di ascoltare le ragioni degli altri, forse è possibile portare avanti il prc innovativo di cui la scuola ha indubbiamente urgente necessità. È in tale prospettiva che ci accingiamo, a prendere in esame, in successive puntate, i singoli aspetti del Rapporto Bertagna, nella speranza che alla contrapposizione faccia sempre più seguito la riflessione e, auspicabilmente, il dialogo quanto più possibile aperto e costruttivo. È il caso di cominciare dall’analisi delle prime 2 Raccomandazioni che il Ministro Moratti ha fatto al GRL Bertagna. 1° E 2° RACCOMANDAZIONE DEL MINISTRO MORATTI
Il sistema educativo di istruzione e di formazione deve essere al servizio della società e del progresso economico, ma lo può essere solo se è primariamente al servizio della persona di ciascuno. La 1° Raccomandazione riecheggia l’art. 3 della Costituzione (<<il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese>>. C’è il riferimento alla società e c’è il riferimento al progresso economico: il riferimento al progresso economico è insistente nel Rapporto Bertagna e potrebbe suscitar qualche perplessità perché potrebbe lasciare intravedere il rischio di una subordinazione del successo formativo alle esigenze , non solo del progresso economico, ma anche del mondo produttivo: la subordinazione della scuola alle esigenze aziendali, tanto per essere espliciti. È, questo, un rischio da scongiurare, da evitare, da combattere con ogni mezzo e con forza, rivendicando la supremazia della persona umana, non solo nei confronti del mondo della produzione ma anche della stessa società. Abbiamo conosciuto i rischi della subordinazione dell’educazione alla società, al potere politico nelle forme del collettivismo e del totalitarismo, ma abbiamo conosciuto e conosciamo anche i rischi della subordinazione dell’educazione al mondo della produzione (taylorismo, fordismo…) (1). Tuttavia, ci sembra che la 1° Raccomandazione del Ministro Moratti si proponga proprio di evitare questi rischi, nel momento in cui afferma <<il sistema di istruzione e di formazione del Paese è al servizio della società e del progresso economico se e solo se è primariamente al servizio della persona di ciascuno e mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti>>. Al riguardo, piace rilevare che il riferimento è alla <<persona di ciascuno>>, non alla persona in astratto. Ci si pone in una chiara, inequivocabile prospettiva personalistica, che è e deve essere sempre ineludibile, in quanto sancita dalla Carta costituzionale e peraltro riaffermata sia nel Regolamento dell’autonomia scolastica che nell’art. 1 della Legge 30/2000 (Riforma dei cicli) (<<Il sistema educativo di istruzione e di formazione è finalizzato alla crescita e alla valorizzazione della persona umana, nel rispetto dei ritmi dell'età evolutiva, delle differenze e dell'identità di ciascuno, nel quadro della cooperazione tra scuola e genitori, in coerenza con le disposizioni in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche e secondo i principi sanciti dalla Costituzione e dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo>>. Occorre che il sistema educativo di istruzione e di formazione sia <<primariamente al servizio della persona di ciascuno>>, e lo è se <<mira al massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti>>. Nel Regolamento dell’autonomia scolastica si afferma che il successo formativo va assicurato a tutti gli alunni. È questo l’impegno che la scuola italiana è andata assumendo, a cominciare dagli anni ’50, in particolare con l’istituzione della scuola media unica di cui alla Legge 1859 del 1962, con le attività integrative degli anni ’60 e soprattutto degli anni ’70 ed ’80, con l’istituzione della scuola a tempo pieno e a tempo lungo, con la valutazione formativa ecc. Cinquant’anni impegnati a superare la scuola di èlites ed a realizzare la scuola di tutti: non la scuola "aperta a tutti" ma la scuola che si impegna ad assicurare a tutti il successo formativo realizzando il <<massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti>>. <<In questa prospettiva va collocato l’obbligo di 12 anni di istruzione e/o di formazione per tutti>>. In questa prospettiva va collocato il prolungamento dell’obbligo scolastico, ma non solo. Il problema non si risolve con il solo prolungamento dell’obbligo scolastico. Il tempo è una risorsa essenziale, ma non basta. Quello che importa non è la frequenza della scuola per 12 anni, fino al 18° o al 19° anno di età. Quello che importa è assicurare il successo formativo (<<massimo sviluppo possibile delle capacità di tutti>>). Ed allora occorre non solo prevedere tempi più lunghi ma anche una migliore utilizzazione dei tempi, a cominciare dalla nascita del bambino. Opportunamente nel Rapporto Bertagna si precisa che << L’imponente mole di conoscenze scientifiche sull’infanzia maturate in un secolo ha insegnato che la qualità dell’educazione successiva è potentemente condizionata da quella ricevuta nella prima e nella seconda infanzia. Eventuali programmi di sviluppo delle capacità linguistiche, logiche, espressive, sociali, affettive, etiche, motorie della persona e, a maggior ragione, eventuali programmi compensativi per deficit di sviluppo accumulati in questi campi dai bambini per ragioni genetiche, neurofisiologiche o, peggio, familiari e sociali hanno, infatti, tante più speranze di successo quanto più sono precoci e ben organizzati sul piano pedagogico. Dopo i cinque anni, a questo riguardo, tutto diventa più difficile e lento. Soprattutto per l’intervento compensatorio. Esistono quindi tutte le condizioni di opportunità e di merito per concentrare l’attenzione di tutti sull’importanza sociale e pedagogica della scuola dell’infanzia e per ribadire il ruolo istituzionale centrale che essa assume nell’insieme del sistema educativo di istruzione e di formazione. La proposta del credito riconosciuto a chi frequenta la scuola dell’infanzia è ritenuta un contributo in questa direzione>>. Sembra di poter leggere nel Rapporto Bertagna la piena consapevolezza che il destino formativo dei giovani si gioca soprattutto nei primissimi anni di vita. Ed allora, la logica conseguenza è la valorizzazione dei contesti educativi informali e formali, con specifico riferimento alla scuola dell’infanzia. Malgrado tutti i discorsi degli anni ’70 sui condizionamenti socioculturali e familiari, non sembra che si siano ancora dedicati adeguati sostegni ed attenzioni all’azione formativa del contesto socioculturale e soprattutto della famiglia. I richiami all’azione educativa della famiglia sembra che restino ancora su un piano teorico e generico, anche quando si affrontano le problematiche del disagio giovanile. Non sono mancati i richiami all’azione formativa della famiglia nei testi programmatici del 1979, del 1985 e soprattutto del 1991 e, con maggiore consapevolezza e forza, nella Legge 104/1990, seppure solo per gli alunni in situazione di handicap. La Legge 30/2000 rappresenta un forte avanzamento in tale prospettiva nel momento in cui sancisce la <<cooperazione tra scuola e genitori>>. Ma non si tratta di realizzare solo la cooperazione. Occorre che la famiglia, tutte le famiglie, siano messe nella condizione di assolvere alla loro funzione educativa, nella consapevolezza che la formazione della personalità si realizza soprattutto nei primissimi anni di vita. Si pongono in tale prospettiva i riferimenti alla famiglia presenti nel Regolamento dell’autonomia scolastica e nella Legge 30/2000 (Riforma dei cicli), nello statuto delle studentesse e degli studenti ecc. Il Rapporto Bertagna richiama con forza al ruolo educativo della famiglia, dei genitori, del contesto socioculturale, in piena linea di continuità con il discorso portato avanti finora. Alo stesso modo, il Rapporto Bertagna evidenzia con forza il ruolo formativo della scuola dell’infanzia, che peraltro risultava adeguatamente delineato negli Orientamenti educativi del 1991, nei quali la scuola dell’infanzia viene riconosciuta come primo segmento del sistema scolastico. E tuttavia, non si può non prendere atto che alla affermazioni di principio non hanno fatto seguito, ieri, gli interventi normativi ed amministrativi, oggi le prospettiva legislative idonee a mettere la scuola dell’infanzia nella condizione di assolvere alla sua riconosciuta funzione di primo segmento della scuola per la formazione di base. Se la formazione della personalità si realizza soprattutto nei primissimi anni di vita, ogni progetto volto ad assicurare la piena formazione, a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana, a garantire il successo formativo, dovrebbe puntare soprattutto sulla scuola dell’infanzia. Innanzitutto, riaffermando sul piano programmatico i compiti formativi quali risultano indicati negli Orientamenti educativi del 1991 e troppo debolmente richiamati nel Rapporto Bertagna (<<La scuola dell’infanzia partecipa alla funzione critica generale del sistema educativo di istruzione e di formazione, non dissimulando, tra tutti gli altri strumenti di intervento a sua disposizione, la centralità della strategia del gioco. Nel gioco, i bambini, contemporaneamente, pensano, imparano, sentono, esprimono, producono, agiscono, progettano, si relazionano con gli altri, diventano autonomi, pregano. A partire dal gioco dei bambini, quindi, spontaneo e organizzato, la scuola può inaugurare il proprio percorso educativo fatto di riflessioni ed azioni intenzionali via via più coinvolgenti. Questo impedisce di adottare, in questa scuola, la logica molto strutturata dei piani di studio pensati per il sistema di istruzione, magari con tanto di quota nazionale e quota locale, ma ripropone, aggiornata, quella già da tempo attiva degli Orientamenti per l’attività educativa. Il carattere allo stesso tempo spontaneo e volontario del gioco, inoltre, induce a difendere, sul piano istituzionale, il carattere facoltativo della scuola dell'infanzia: l’adesione alla sua offerta formativa deve restare spontanea e volontaria, contemporaneamente manifestazione di libertà e di responsabilità>>). Si continua a proclamare ancora il carattere facoltativo della scuola dell’infanzia, nel vieto pregiudizio che porta a considerarla scuola della socializzazione (così era stata definita nella prima bozza di Riforma dei cicli e così di fatto continua ad essere considerata nel Rapporto Bertagna, in piena contraddizione con le forti argomentazioni a riconoscimento del suo ruolo formativo). Ma se si riconosce e si afferma con forza, come si fa nel Rapporto Bertagna, che la scuola dell’infanzia riveste un ruolo fondamentale, decisivo, condizionante sul processo di formazione della personalità, non si vede come non debba essere obbligatoria. Se l’istituto giuridico dell’obbligo scolastico nasce dal diritto/dovere della Repubblica di <<rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese>>, non si vede perché l’obbligo scolastico debba cominciare a 6 anni, quando è estremamente difficile recuperare i danni che si sono prodotti, come pure il Rapporto Bertagna evidenzia, e non invece a 3 anni, quando ancora è possibile porre rimedio agli eventuali danni che nei primi 3 anni di vita si sono prodotti nelle famiglie e nei contesti socioculturali deprivati. Nel momento in cui si riconosce, come è opportuno si riconosca, la parità delle istituzioni scolastiche, di tutte le istituzioni scolastiche, non si vede il motivo perché non si debba affermare il principio dell’obbligo scolastico sin dal 3° anno, salvaguardando peraltro il diritto all’istruzione/educazione familiare già previsto dal nostro ordinamento scolastico (2). Che significato ha l’istituzione dell’obbligo scolastico se non quello di creare le condizioni che rendono possibile la piena formazione della persona umana? Se queste condizioni si verificano nei primissimi anni di vita, sembra obbligatorio rendere obbligatoria la scuola dell’infanzia. Non basta affermare in linea di principio che la scuola dell’infanzia è parte fondante della scuola per la formazione di base . Se la scuola dell’infanzia è parte costitutiva, fondamentale, decisiva della scuola per la formazione di base, per salvaguardare, garantire, assicurare il diritto all'educazione ed all'istruzione, il successo formativo, la piena formazione della persona umana, occorre che tutti i bambini usufruiscano della scuola dell’infanzia: occorre che ne usufruiscano tutti, anche e soprattutto quel 10 % che oggi non ne usufruisce e che forse è quello che ne avrebbe maggiormente bisogno. Oggi, assicurata la parità, non dovrebbe esistere più alcuna difficoltà a sancire l’obbligo scolastico sin dai 3 anni. Tuttavia, ove assurdamente le difficoltà dovessero permanere e risultare insormontabili, si potrebbe almeno rendere utilizzabile il credito formativo all’inizio della scuola elementare. La spendibilità del credito al termine dell’obbligo appare un fatto meramente giuridico, privo di significato sul piano formativo. A 17 anni l’alunno che ha frequentato la scuola dell’infanzia non ha maturato maggiori competenze rispetto a chi non l’ha frequentata. Semmai le maggiori competenze le ha maturate a 6 anni, quando arriva alla scuola elementare ed è nella condizione di accedere alla classe seconda, come di fatto molto spesso ormai avviene. Al riguardo, è appena il caso di prendere atto dell’alta percentuale di bambini che salta ormai la classe prima. Si tratta di un fenomeno che ormai non può essere più trascurato, perché risulta negativo sotto tutti i punti di vista. Innanzitutto, è discriminante: solo alcuni bambini hanno la possibilità di sostenere gli esami di idoneità alla classe seconda elementare, o perché preparati nelle cosiddette "primine" camuffate nelle scuola dell’infanzia, o perché hanno avuto la possibilità economica di frequentare le apposite scuole private che preparano a tale esame. Altri bambini non hanno questa possibilità. Se a tutti i bambini che hanno frequentato la scuola dell’infanzia si offre la possibilità di iscriversi alla seconda elementare, la classe prima si configura come una classe ponte, di attività educative e didattiche compensative per quei bambini che non hanno frequentato la scuola dell’infanzia o che, pure avendola frequentata, non hanno maturato le competenze per accedere alla classe seconda. Si può lasciare alla valutazione dei docenti delle due scuole questa valutazione. Il discrimine non dovrebbe essere costituito tanto dal leggere, scrivere e e far di conto, cui oggi si riducono gli esami di idoneità alla classe seconda, quanto la maturità complessiva dei bambini. Al riguardo, occorre prendere atto che tre anni di scuola dell’infanzia, impegnati in attività che, seppure fondate sul gioco, come debbono essere peraltro fondati anche i primi anni della scuola elementare, dovrebbero assicurare ai bambini le competenze per portarli direttamente alla classe seconda. In effetti, già oggi la scuola elementare ha la durata di 4 anni, per una gran parte degli alunni che accede direttamente alla classe seconda. Si tratta di generalizzare questa situazione, anche senza renderla obbligatoria, lasciando la classe prima come anno ponte, come snodo tra la scuola dell’infanzia e la scuola elementare, come anno supplementare per quei bambini che non dovessero frequentare la scuola dell’infanzia o che non dovessero maturare le competenze necessarie. D’altra parte, se non si abolisce l’esame di ammissione alla classe seconda, questa è l’effettiva situazione che si verifica comunque, ma in una forma che produce danni alla scuola elementare ed alla scuola dell’infanzia. La scuola elementare vede ridotto comunque a quattro il numero delle annualità e si ritrova con classi seconde di diverso livello di maturazione e di apprendimento. La scuola dell’infanzia si riduce a due anni ed impegna il terzo anno nella preparazione agli esami di idoneità assumendo il carattere di una vera e propria scuola elementare. Occorre avere il coraggio di legalizzare la situazione oggi di fatto esistente, in modo che la scuola dell’infanzia si senta impegnata a dare piena attuazione ai suoi Orientamenti educativi del 1991: senza aggiunte, senza supplementi, senza differenziazioni, i bambini possono accedere alla classe seconda. Il discrimine tra i bambini che sostengono gli esami di idoneità alla classe seconda ed i bambini che invece accedono alla classe prima non può essere costituito dal leggere, scrivere e fare di conto. Si tratta di competenze che oggi i bambini maturano già prima del sesto anno di età. Una più puntuale attenzione agli impegni formativi previsti dagli Orientamenti educativi del 1991 può consentire ai bambini di saltare di piè pari il lavoro che oggi si fa nelle classi prime della scuola elementare, costrette ad accogliere bambini che hanno frequentato la scuola dell’infanzia e bambini che non la hanno frequentata. L’alternativa alla scuola dell’infanzia obbligatoria resta il recupero del credito formativo all’inizio della scuola elementare. Diversamente si abbia il coraggio di abolire gli esami di idoneità alla classe seconda. Ma, se come siamo tutti convinti, un credito formativo la scuola dell’infanzia merita, questo credito deve essere spendibile all’inizio della scuola elementare. A meno che non si renda obbligatoria la frequenza della scuola dell’infanzia, soluzione che appare la più auspicabile. In questo caso, si ha una effettiva continuità tra scuola dell’infanzia e scuola elementare che, pur lasciando immutato il numero delle annualità, può assicurare più alti livelli formativi all’uscita dalla scuola elementare.
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