Infanzia:
ricerca o conquista di un nuovo pianeta dell’uomo?
(una
risposta europea alla psicopedagogia americana)
Roberto
Mazzetti
Le
prospettive più diffuse e partecipate di un più alto sviluppo dell’uomo o
di un suo salto di qualità sono, indubbiamente, quelle di tipo ideologico e
politico.
Queste
prospettive fanno perno sulla società e umanità degli adulti, col suffragio
di tutta la storia del passato, in quanto essa è stata arrestata, mandata
indietro o mandata avanti, dalle lotte e dalle collaborazioni,
dall’intelligenza o dalla follia degli adulti, fin dal tempo della
trasformazione dell’animale definito “homo sapiens” in uomo civile.
Un
progetto, di ben più limitate dimensioni in ordine al miglioramento dello
sviluppo umano, e stato quello proposto in genere dai biologi, i quali, in
base ai risultati verificati o ottenuti in diverse specie animali, hanno
teorizzato la possibilità, ricca di alte promesse, di intervenire
scientificamente sulle trasmissioni genetiche, al fine di provocare
nell’uomo la formazione di un super cervello o di un cervello più
voluminoso. Ma, come ha osservato a questo proposito lo psicofisiologo Henri
Piéron questa non è solo una via piena di ostacoli, ma è anche tale da
portare a disconoscere la funzione autentica del cervello umano. Il cervello
degli uomini, infatti, ha raggiunto, nella lenta evoluzione della specie, una
ampiezza tale, oltre il limite del quale l’organismo si troverebbe
squilibrato e la specie umana non potrebbe dar luogo che a mostri
ipermacrocefali. D’altro canto, l’encefalo umano non ha nella sua
struttura capacità naturali di pensiero, ma soltanto prestigiosi strumenti
capaci di registrazione della esperienza e di acquisizione, ma il progresso
dello stesso encefalo è dipeso in modo dominante dalle possibilità di
trasmissioni sociali. In tal guisa, la struttura dei complessi neuronici
cerebrali, la moltiplicazione delle connessioni intercellulari tra i neuroni,
nel corso della evoluzione della specie, sono sempre state incitate da
determinate condizioni ambientali e culturali e dalla stessa attività pratica
tecnica e intellettuale degli uomini stessi, per cui i prodotti di questa
attività, dai riti ai miti, dalla tecnica alla scienza, si sono in qualche
modo ripiegati sull’uomo, riqualificandosi da prodotti in strumenti e valori
a servizio dell’uomo produttore.
Nessuna
miracolistica riduzione, dunque, del mentale al fisiologico e nessuna
illusione che il solo studio delle funzioni organiche sia idoneo, nonché ad
autorizzare un salto di qualità nello sviluppo della specie, neppure a
spiegare da solo il determinismo delle condotte e delle attività umane, in
quanto, quando si tratti dell’uomo, il condizionamento storico del
comportamento implica, come ebbe a riconoscere lo stesso Piéron, un
intervento predominante delle azioni sociali o meglio, come ha sottolineato il
Wallon, una tensione dialettica fra natura e umanità, condizionamento storico
e cultura. Ciò è quanto riconoscere che senza dialettica e integrazione
sociale, senza tecnica e linguaggio (al quale è connessa la funzione non solo
dell’esprimere e del comunicare, ma quella del simbolizzare, per segni e
simboli, la realtà), non é possibile alcuna trasformazione dell’animale
uomo in uomo civile. In questo quadro, la lunga infanzia dell’uomo e la sua
iniziale enorme fragilità e plasticità, consentendo l’acquisizione del
linguaggio prima orale, poi orale e scritto, consentono e irrobustiscono nei
figli dell’uomo non solo la attitudine a fare, ma l’attitudine a
percepire, a rappresentare e cioè l’ascesa verso il potere
dell’astrazione. La quale, se esige un’attivazione nelle condizioni
neuroniche e nel moltiplicarsi delle loro vie associative, realizza ciò, solo
in quanto quelle condizioni e quelle associazioni sono state incitate e
modellate dalle azioni educative, specie nella prima e nella seconda infanzia.
Prendere
atto di ciò, significa già intuire la possibilità di un terzo progetto
migliorativo dello sviluppo umano, di tipo psicosocioeducativo. Appunto in
questa direzione, rivela il suo pieno significato la moderna e contemporanea
scoperta dell’infanzia.
L’intelligenza
umana, in quanto strumento adattativo legato alla natura e trasformatore
dell’esperienza, “destinato a dirigere le modalità
dell’azione” ha proprio nell’età dell’infanzia, attraverso la
acquisizione del linguaggio, la via dominante della sua formazione e della sua
crescita. Da qui, la ragione e la funzione della scuola e in particolare di
quella dell’infanzia, a integrazione dell’opera delle famiglie; ragione e
funzione della scuola, specie di quella connessa prima alla scoperta
dell’alfabeto, poi a quella dell’arte tipografica e, infine, a quella dei
moderni mezzi di comunicazione di massa.
Da
Rousseau in poi, almeno nella civiltà occidentale, i progetti più diffusi
per lo sviluppo migliorativo dell’uomo procedono lungo due direttive: una
predominante, che punta su determinate mutazioni, nell’ambito della
società degli adulti e una subordinata, che mira a determinate
mutazioni nell’ambito delle generazioni infantili e giovanili.
L’istituzione della frequenza scolastica obbligatoria e di forme educative
prescolastiche, per la prima e la seconda infanzia, sono espressione e
documento di questa ultima istanza.
In
condizioni normali, ove si ha una notevole frequenza scolastica e con alunni
cresciuti in ambienti d’alta civiltà, mentre si svolge una più fervida
socializzazione dell’infanzia, si attua altresì una più intensa
sollecitazione alle sue acquisizioni linguistiche e, con ciò, una crescente
formazione di capacità estrattive e rappresentative iconiche e simboliche.
Coll’estendersi in quantità e qualità della frequenza scolastica, e con
l’aumento di individui forniti di istruzione media e superiore si, ha,
pertanto, una crescita sottolinea Piéron delle probabilità di più
larga manifestazione dell’intelligenza non solo a livello comune, ma anche a
livello di genialità.
In
questa prospettiva, lo stesso pensiero logico, che è fondamento della
scienza, trova le migliori opportunità per il suo dispiegamento, che è,
poi ovviamente dispiegamento della scienza e dell’intelligenza, in quanto
energia naturale e storicosociale, “destinata a dirigere le modalità
dell’azione”, adattandosi ai risultati degli esperimenti e operando
secondo i!. successo o l’insuccesso, delle ipotesi e delle previsioni.
“Ma
l’accrescimento del capitale intellettuale, che ad ogni nuova generazione è
necessario acquisire, determina un obbligo di allungare socialmente il periodo
dell’infanzia, già lungo sotto l’aspetto biologico, dedicato alla
preparazione della vita creativa degli adulti. E, in realtà, siccome i
progressi sono sempre più rapidi, le acquisizioni dovranno continuare
nell’arco dell’intera vita; in proposito, per la scienza, il vecchio
rimane un fanciullo che ha sempre da imparare”.
La
presente citazione, come taluni pensieri sopra riferiti, sono attinti dai due
volumi di Henri Piéron: De l’actinie a l’homme[1]
e dal volume dello stesso autore: L’homme, rien que l’homme[2],
tradotto anche in italiano col titolo meno ideologico: L’avventura
umana[3].
Richiamiamo
e riassumiamo, ora, quanto sopra accennato.
1)
Il cervello si sviluppa durante i primi setteotto anni;
2)
la conquista del linguaggio orale e poi di quello scritto costituisce
l’attività e lo strumento fondamentale per la formazione dell’uomo
civile;
3)
lo stesso pensiero logico si acquisisce con le possibilità di
astrazione, fornite dalle lingue civili;
4)
la comunicazione del pensiero e dell’esperienza fra gli individui, i
gruppi e i popoli, cioè la civiltà, ha nel linguaggio scritto il suo
strumento fondamentale;
5)
lo sviluppo del cervello, nei primi setteotto anni, trova incitazioni
positive o negative negli ambienti culturali, in cui vivono gli uomini, che
sono qualche cosa di più del loro stesso cervello. Intensificando questi
ambienti e strumenti culturali é possibile, per conseguenza, elevare il
livello intellettuale degli uomini, in quanto il livello intellettuale non é
determinato dai soli fattori genetici;
6)
più é elevato il livello di civiltà raggiunto, più elevato deve
essere anche il livello intellettuale dei singoli e delle comunità. Da qui,
l’estensione della frequenza scolastica obbligatoria e la frequenza delle
riforme dell’insegnamento.
Questo
à il pensiero del Piéron e della quasi totalità dei biologi e psicologi. I
discepoli dello psicologo francese, che hanno curato dopo la sua morte, la
pubblicazione degli ultimi suoi scritti nel libro: L’homme, rien que l’homme,
accompagnano l’esposizione dei pensieri sopra citati, fra l’altro, con
due note:
a)
in una osservano che, nel nostro tempo, “l’età di frequenza
scolastica obbligatoria s’eleva progressivamente sin verso i diciotto anni e
l’obbligo scolastico reale si estende ad aliquote crescenti di giovani.
In
Francia dal 1915 al 961 gli effettivi sono passati da 6.500.000 a 1o.100.000;
l’insegnamento secondario diventa obbligatorio e l’insegnamento superiore
si generalizza”[4].
b)
Nella stessa pagina, appena sopra la nota ora citata, i curatori del
volume riferiscono: “In un istituto, in cui uno sforzo educativo
particolarmente rigoroso era applicato a fanciulli dotati normalmente, un
progresso notevole del Q.I. fu ottenuto da Reymert e da Hinton per tutti
coloro che erano stati presi in età situate tra i tre e i sei anni; nessun
progresso invece per quelli entrati dopo i sette o gli otto anni”.[5]
In
aggiunta a ciò, bisogna tener presente che, nel corso del suo libro, il Piéron
ha sottolineato soprattutto il caso dei fanciulli selvaggi, allevati, in
particolare, da lupe e raccolti più o meno tardivamente, che per essere stati
privati dell’ambiente linguistico umano, nella prima età, si sono sempre
rivelati insuscettibili di educazione. Comunque, se i progressi fondamentali
dal punto di vista emotivo e linguistico si hanno dalla nascita ai sei anni,
e, nel caso concreto, anche dai tre ai sei anni, con quale logica i curatori
del volume in parola non si sono accorti che l’espansione della frequenza
scolastica obbligatoria, anche a livello dell’insegnamento secondario e che
perfino la stessa generalizzazione dello stesso insegnamento universitario,
avendo il loro primo inizio all’età di sei anni, si lasciano sfuggire il
meglio del potenziale intellettuale, o, quel meglio che va per lo meno dai tre
ai sei anni?
Con
quale logica?
Proprio
per rispondere a questo interrogativo è stato scritto il libro dell’autore
del presente saggio: “Scuola materna e società degli adulti”
Si
sono sopra indicate le tre vie del miglioramento dello sviluppo umano: quella
della rivoluzione politica, che fa perno sulla società degli adulti, quella
scientifica biologica, che fa perno sull’intervento nel patrimonio genetico
della specie; quella psicosociopedagogica che fa perno sulla mutazione della
vita e dell’educazione infantile.
Mentre,
tutti sanno che i paesi che fanno capo alla Russia e alla Cina seguono la
prima via, e, ora, da sottolineare che specie gli Stati Uniti di
America sembrano incamminarsi soprattutto per la terza via.
Negli
Stati Uniti, durante gli ultimi venti anni, è andata sempre più
affermandosi, in larghe cerchie sociali, il convincimento che, accelerando le
fasi di sviluppo dell’infanzia, è possibile aiutare ogni bambino a
sviluppare una mente superiore.
A
Piaget, durante alcune sue conferenze negli Stati Uniti, il pubblico non
faceva che chiedere come si possono accelerare le fasi dello sviluppo
intellettuale infantile. Quando egli rispondeva: “le fasi di sviluppo si
possono accelerare, ma non indefinitamente, e non c’è molto da guadagnare
se lo si fa oltre una certa misura” trovava il pubblico un po’
sconcertato. Quanto all’affermazione di Bruner, secondo la quale
“qualsiasi materia può di fatto essere insegnata in una forma
intellettualmente onesta a qualsiasi fanciullo, in qualsiasi fase del suo
sviluppo”, il Piaget dichiarava: questa famosa affermazione “è sempre
stata per me causa di profondo stupore”. Per gli americani, invece, la
sopradetta affermazione pare che sia diventata quasi, almeno per molti, un
articolo di fede.
Ad
esempio, un libro dal titolo: Give Your Child a Superior Mind dà
istruzioni per aiutare i bambini a leggere centocinquanta parole al minuto,
addizionare, sottrarre, moltiplicare, dividere, capire le frazioni e
l’algebra elementare, il tutto all’età di cinque anni. Aggiunge a ciò
altri schemi dedicati ai genitori per l’educazione intellettuale dei bambini
a cominciare dai trenta mesi di età.
John
Kenneth Galbraith ha riferito che, nell’agosto del 1969, la New York Time
Book Rewiew annunciò mediante inserzione pubblicitaria l’uscita della
“Guida dell’adolescente in borsa”, con la seguente dicitura:
“Un libro assolutamente da far leggere ai ragazzi e ragazze non appena
dimostrano di interessarsi alle finanze. Per soli dollari 5,25. Un libro che
vale milioni”.
Si
è citato sopra il libro per i prodigi intellettuali dei bambini a cinque
anni, ma non si tratta solo di un libro.
Il
suo titolo: Date al vostro bambino una intelligenza superiore, può
essere considerato come il motto della bandiera, che raccoglie i seguaci della
rivoluzione educativa nella prima infanzia. Questa rivoluzione educativa, (che
pure risponde non solo ad una possibilità ma ad una realtà in atto in molti
paesi civili), viene da molti negli Stati Uniti difesa e promossa, non solo in
sé e per sé, ma anche come sostitutiva della rivoluzione a livello della
società degli adulti. Qui, però, si presenta subito un problema: se il
superiore sviluppo dell’intelligenza infantile viene promosso soltanto per
una minoranza di bambini delle classi agiate, o anche solo per i bambini
bianchi e non anche per i bambini negri, non si prospetta forse
nell’immediato futuro lo spettro di un nuovo razzismo di tipo intellettuale
e, comunque, l’accentuazione di quei contrasti di fondo, che, a quanto pare,
sono già numerosi e pericolosi per gli Stati Uniti, già, oggi come oggi? È
in vista, dunque, una scoperta dell’infanzia in funzione di una più
elevata omogeneità di base, oppure si tratta solo di una certa conquista dell’infanzia?
A
questo punto, il quadro si allarga e definisce: insieme al contrasto fra affettivisti
e cognitivisti si ha il contrasto fra adultisti e infantilisti,
adulto centristi e puerocentristi, per cui l’un contrasto si interseca
con l’altro, generando molteplici campi di società e cultura, con dinamismi
e strutture assai differenziati. Ma passiamo, ora, su di un piano di ricerca
minore.
“Revolution
in LearningThe years froin Birth to Six”, ha intitolato Maya
Pines il suo libro, del quale si è fatto cenno nelle pagine precedenti.
“An
educational revolution is upon us.
One
of most important events of this peaceful, but profound revolution is our
dawning discovery that the child is born comprehensively competent and
coordinate, capable of treating with large quantities of data and families
of variables right from the start”[6].
Con
le citate parole, Buckminster Fuller ha avviato un suo saggio psicopedagogico
e presentato un libro sulla lettura precoce.
In
che cosa consiste questa “dawning discovery”, questa scoperta nascente?
La
parola “revolution” ricorre nei due scritti sopra citati come in molte
altre scritture psicopedagogiche americane dei nostri giorni. Che c’è
dietro all’uso di quel termine? Che c’è dietro quella “scoperta
nascente”?
È
singolare come, a cavallo fra il 1950 e il 1960, molti gruppi di studiosi,
psicologi, pedagogisti ed educatori, negli U.S.A., abbiano cominciato a
invocare quasi un’inversione di tendenza nella organizzazione educativa.
In
che senso? Nel senso, appunto di centrare l’attenzione dominante di studio e
di organizzazione non più soprattutto verso la fanciullezza e
l’adolescenza, ma in particolar modo verso l’età dell’uomo che va dalla
nascita ai sei anni.
Chi
abbia seguito, anche da lontano, il prorompere delle iniziative pratiche e di
ricerca scientifica degli U.S.A. in questa direzione, ha l’impressione che
gli Stati Uniti si stiano buttando a capo fitto, non tanto in una nuova moda,
quanto in un nuovo appassionato dirizzone culturale.
Si
ha l’impressione che larghi strati di quella società stiano quasi
scoprendo, con un senso di stupore e con la visione di meravigliose
prospettive, un nuovo continente dell’esistenza: quello della prima
infanzia. Il senso di questa scoperta consiste nell’avere compreso che il
bambino non è un essere sregolato, implicante passività, ripetività,
l’essere spinto o manovrato; nell’aver capito che il bambino non é
comprensibile in termini psicologici di riflesso, reazione, risposta,
ritenzione, ma, per usare ancora termini di Gordon W Allport, in termini
di promessa, progettazione, procedimento, proazione.
In
questa direzione, non è, dunque, sufficiente una attenzione rivolta al
parziale, al quasi meccanico, al regolare e al logico della vita infantile,
solo perché questi aspetti possono essere ben controllati, ma bisogna porre
attenzione anche agli aspetti che non possono essere attendibilmente
controllati, e cioè al singolare e all’individuale, al soggettivo,
al non classificato, all’illogico, al simbolico, allo
strutturale. È ovvio, pertanto, che fino a quando la psicologia americana è
stata dominata dal comportamentismo si sia trovata nella impossibilità di
afferrare i lati più segreti e operativi della vita infantile. Con
l’accennato, sia pure parziale, cambiamenti di rotta metodologica si è,
dunque, reso possibile l’avere compreso che il bambino nasce,
comprensibilmente, competente e coordinato, capace di trattare con una
larga quantità di dati e gruppi di regole, fin dalla nascita. Secondo
questa visione, il bambino nasce con una capacità di comprensione, a suo
modo, totale e con una intelligenza coordinatrice, che gli permette di
selezionare e di assimilare una quantità di dati, nel contesto di una
situazione e di un ambiente integrante. Per questo ogni bambino fornito di
capacità di autoregolazione può essere inibito e impedito nel suo sviluppo
da negative invadenze e influenze del suo ambiente, anche se il soggetto più
intellettualmente dotato può risultare meno danneggiato. Abbiamo ripreso con
questo, la iniziale dichiarazione sopra citata di R. Buckminster Fuller, per
cercare di definire il senso dell’attuale scoperta americana
dell’infanzia. A questo fine, possono essere ancora indicative altre
citazioni, quasi testuali, dello stesso autore.
L’uomo,
sondando elettronicamente il cervello umano, comincia a comprenderne il
funzionamento. Noi iniziamo la vita con una totale funzionalità di cellule
cerebrali. Queste cellule cominciano a funzionare, per sezioni, attivate da
cromosomi che come “orologisveglia”, danno il via all’attività della
regione cerebrale.
Si
ponga un dito sulla mano di un bambino; si vedrà che egli chiuderà la mano
per toccare e sentire. C’è una rigorosa corrispondenza fra ambiente ed
attività cerebrale. Un ambiente ricco e stimolante attivizzerà le varie
sezioni del cervello e tutte le capacità e facoltà di coordinazione.
In
tal modo, il bimbo impara da solo attraverso l’ambiente.
A
questo punto, il nostro autore si richiama alla ricerca di due eminenti
psicologi: Hunt e Bloom. Il fatto, suggerisce il Nostro, del rapporto
informazionale intrinseco del bambino col suo ambiente e delle motivazioni
inerenti al processo di informazione è stato trattato da J. M. V. Hunt nel
suo libro: “Intelligence and Experience”.
B.
Bloom, nel suo libro: “Stability and Change in Human Characteristics”
tende a provare sottolinea il nostro autore che
l’ambiente ha la più grande influenza nel periodo che va dalla nascita al
quarto anno, poiché, a quattro anni, il bambino ha già sviluppato il 50%
della sua capacità intellettiva (o quoziente intellettuale), mentre a otto ne
ha sviluppato l’80% e a tredici il 92%. Posto questo, è evidente che
occorre capovolgere il nostro sistema educativo e pagare le madri e gli
addetti all’infanzia più che i professori universitari. In questa
direzione, occorre concentrare i nostri sforzi per una preparazione
dell’ambiente dei bambini, dalla nascita ai tredici anni, in quanto quelli
sono gli anni di formazione in cui si sviluppano, con le funzioni
intellettive, anche le altre caratteristiche basilari della personalità.
Compito dell’immediato futuro è, dunque, attuare questo capovolgimento del
nostro sistema educativo, procurando a tutti i bambini degli Stati Uniti un
ambiente che promuova fiducia, autonomia e iniziativa.
R.
Buckminster Fuller richiama a questo punto un lavoro sperimentale svolto nella
Southen Illinojs University. Qui abbiamo imparato, dice il Nostro, che tutti i
bambini, grandi e piccoli, vogliono un posto tutto loro proprio. Abbiamo dato
a ciascuno di essi una piccola stanza privata. Nella stanza c’è un telefono
per comunicare con l’insegnante, un dizionario, tabelle murali, un globo,
una tabella per lo spettro elettromagnetico, una macchina da scrivere e
(scusate se è poco!) altri articoli desiderati dai bambini: cioè materiali
finalizzati alla attività e concentrazione e conoscenza per e da parte dei
bambini stessi.
Pertanto
in questo ambiente tutto loro, i pargoletti si danno spontaneamente allo
studio, ottenendo risultati irraggiungibili per i fanciulli normali, che
vivono al di fuori di quell’ambiente opportunamente strutturato.
Il
fallimento delle nostre scuole indica l’inadeguatezza del nostro sistema
scolastico e non già l’inadeguatezza dei nostri bambini.
La
carenza del nostro sistema scolastico è dovuta alla obsolescenza e alla
arcaicità dei suoi strumenti e dei suoi criteri di lavoro, al punto che si può
ritenere, a giudizio dell’Autore, che tutto ciò che l’uomo ha creduto di
scoprire, per il passato, nel campo dell’educazione è diventato, oggi,
inutile e dannoso. A questo punto, lo studioso americano esalta la sua
scoperta di un sistema didattico modulatore e coordinatore che unisce fisica,
chimica e matematica, sistema qualificato sinergetico e che
permetterebbe di portare anche elevati insegnamenti scientifici in versioni
idonee all’assimilazione perfino dei bambini dell’asilo e della scuola
elementare. Esalta pure una sua invenzione didattica che riproduce la terra in
miniatura, (Geoscope), costituito da una sfera dal diametro di circa sei
metri, con dieci milioni di lampadine elettriche, ciascuna con una intensità
di luce controllabile, e collegate tutte insieme a un computer, con un
tubo televisivo rappresentante tutte le direzioni. Si vuole rappresentare, ad
esempio, l’aumento della popolazione mondiale negli ultimi cento anni? Per
indicare mille uomini, ad esempio, si adopera una lampadina rossa. Vedremo,
allora, una massa di lampadine rosse correre ad aggrupparsi come intensi
fuochi in varie località. Si vogliono mostrare nuvole e condizioni
atmosferiche intorno alla terra? Si faccia come sopra.
L’autore
ritiene che, nonostante la riconosciuta buona reputazione, le scuole del suo
paese e, a maggior ragione, quelle degli altri sono nella maggior parte
antiquate.
Da
qui la sua ricerca di nuovi strumenti e di nuove organizzazioni, (spesso al
limite fra tecnologia avanzata e fantapsicopedagogia), che facciano piazza
pulita delle tradizionali realizzazioni scolastiche e aiutino a instaurare
quella inversione di tendenza, a cui si è accennato. In questo orizzonte, la
più limitata questione della lettura precoce, ad esempio, pare che diventi un
impegno dominante di buona parte dei genitori e degli insegnanti, negli U.S.A.
A
questo fine, non a caso sono state sperimentate macchine elettroniche per
insegnare a leggere e a scrivere ai bambini dai tre ai quattro anni, ed è,
comunque, assai intensa la sperimentazione e la ricerca tecnologica di
macchine e strumenti per sollecitare l’attività percettiva linguistica e
intellettuale dei bambini.
In
questo nuovo slancio culturale e produttivo, si ha l’impressione che gli
U.S.A. stiano aggredendo la scoperta dell’infanzia, con lo stesso entusiasmo
e la stessa decisione con cui hanno intrapreso la conquista della luna.
Comunque,
a questo punto può servire ottimamente, a dare un’idea ulteriore della
vastità e della profondità dell’impegno in questione, una grossa e assai
pregevole antologia di scritti psicopedagogici, che reca il titolo: “Early
Childhood Education Rediscoverd”[7].
Abbiamo
già trovato privilegiato il termine: “revolution” troviamo, ora,
privilegiato anche il termine “early”; early childhood; early
reading.
L’accento
batte, dunque, su ciò che sta al principio, sul mattutino, sul precoce. Early
Childhood, come prima infanzia. Si è aperto, in tal modo, “a new look
“ sulla prima infanzia, a favore della quale molti gruppi di cittadini
autorevoli si sono dati a propugnare il bisogno d’istituzioni prescolastiche
universalizzate.
In
questo orizzonte, si afferma anche, attraverso una buona messe di scritti, la
riscoperta della Montessori e la scoperta della fondamentale ricerca sullo
sviluppo della intelligenza del Piaget. Non solo, ma si fanno avanti anche
alcuni eminenti psicologi americani, con talune loro opere significative:
Jerome Bruner con il suo “The process of Education”[8]
e i connessi studi sulla psicologia dello sviluppo cognitivo; Jac. Mc V.
Hunt con il lavoro “Intelligence and Experience”[9]
e B. S. Bloom con il testo “Stability and Change in Human
Charateristics”[10].
Si
tralascia qui il discorso sul Bruner, anche perché a questo psicologo è
stato dedicato, da chi scrive, un largo saggio.
Valga,
invece, un breve accenno sulla ricerca di Benjamin S. Bloom e su quella di J.
Mc Hunt.
È,
comunque, caratteristico che questi tre ricercatori siano concordi nel
rifiutare le ragioni parascientifiche, con cui la cultura in U.S.A., fra il
1910 e il 1915, si oppose alle esperienze montessoriane.
Quelle
ragioni parascientifiche, a giudizio dello Hunt, erano le seguenti: i primi
anni della vita dell’uomo hanno valenze istintive, affettive e non
cognitive; le dotazioni intellettuali dell’uomo sono costituite
ereditariamente, per cui, fin dalla nascita, l’intelligenza è prefissata;
il ritardo mentale è un difetto organico al quale nessun trattamento
psicologico e pedagogico può recare giovamento; la condotta è motivata dagli
istinti o da stimoli basati sugli istinti, per cui nel bambino non c’è
alcuna motivazione intrinseca all’apprendimento; l’educazione dei sensi
non ha significato perché ciò che conta è unicamente il meccanismo
stimolorisposta; la casa dei bambini, che elimina la classe ordinata e il
controllo sul processo dell’insegnamento, nega il ruolo dell’insegnante e
compromette ogni progresso educativo.
J.
Mc Y. Hunt nella sua densa e lucida introduzione a “The Montessori Method
by Marie Montessori”[11]
ha passato in rassegna le anzidette opposizioni, dimostrando la loro
inadeguatezza o erroneità e, insieme, facendo vedere come la pratica della
pedagogia montessoriana fosse più lungimirante della scienza dei suoi
critici: Dewey e Kilpatrick compresi.
Queste
posizioni sono condivise anche da S. B. Bloom, per il quale le caratteristiche
umane, fra cui l’intelligenza, si costituiscono nel periodo più intenso
di sviluppo e di cambiamento, in una interazione informazionale tra
individuo e ambiente, per cui, all’età di quattro anni, il 50% della totale
capacità del bambino a sviluppare il suo Q.I. è realizzato.
Basando
i suoi studi, anche su gemelli separati dalla nascita, il Bloom ha concluso
che la differenza d’ambiente può comportare, ad esempio, 20 punti di
differenza nel quoziente d’intelligenza. E cioè: un lavoro da manovale, o
una carriera da professionista; una vita in un istituto per minorati mentali,
o una vita produttiva nella società.
L’incidenza
dell’ambiente è massima, si è detto, proprio nel periodo in cui le varie
caratteristiche umane si sviluppano più rapidamente. Ad esempio: la
mancanza di nutrimento per un bambino di un anno è disastrosa in misura
incommensurabilmente peggiore che all’età di 18 anni. Denutrito a un anno,
il bambino, nel corso successivo della vita, non potrà mai più colmare la
perdita di sviluppo, subita a quell’età.
Così,
secondo le ricerche del Bloom, è anche per l’intelligenza. Il bambino non
nutrito intellettualmente, fin dalla prima infanzia, viene, poi, costretto a
sforzarsi di apprendere a scuola, in una situazione competitiva con altri
bambini più avvantaggiati, per cui egli finisce col perdere la fiducia in se
stesso e per darsi per vinto. Gli effetti della deprivazione percettiva,
linguistica e culturale, colpiscono con eguale ferocia sia i bambini negri che
i portoricani, sia quelli inglesi delle classi lavoratrici, che gli jemeniti e
così via. In tal modo, in tutto il mondo, le scuole diventano causa di
squilibrio emotivo e sociale, per tutti i bambini meno fortunati, proprio
perché dal curriculum occulto delle loro famiglie sono stati posti in
condizione di svantaggio, rispetto ai bambini delle famiglie più fortunate.
Quando l’ambiente familiare della prima infanzia non promuove fiducia,
autonomia e iniziativa, lo sviluppo morale e cognitivo del bambino è coartato
e colpito nelle stesse sue più intime potenzialità
È
questa anche l’atmosfera che pervade il già citato libro: “Intelligenza
ed esperienza”, di J Mc Hunt, libro che diventò in U.S.A. un
bestseller, nello spazio di un giorno.
Hunt
ha centrato alcuni punti nodali della sua ricerca attorno al “problem of
the match”, e al problema della “incongruity”.
Il
primo potremmo definirlo come problema dell’incontro, consistente
nell’individuare per ogni bambino, in ogni momento e ritmo del suo sviluppo,
le richieste circostanze e proazioni più adeguate e più stimolanti. (Uno dei
lati più positivi della Casa dei bambini è nell’avere risolto
questo problema).
Il
problema della incongruità qualifica o evidenzia il fatto per il quale
i bambini ignorano o rifiutano le circostanze e le mete sia troppo lontane, e,
perciò, inafferrabili nel loro significato, sia quelle troppo comuni, trite,
già consumate.
S’impone,
allora, un optimum d’incongruità e cioè trovare circostanze o
compiti che siano un poco al di là di ciò che il bambino ha già
immagazzinato nel cervello. Hunt cita l’esempio di due gemelli, uno di
undici mesi, condotto a correre sui pattini a rotelle quando egli stava
imparando a camminare, per cui a sedici mesi pattinava con abilità, mentre il
fratello, condotto a pattinare a ventidue mesi, non fece alcun progresso per
diverso tempo. Nel primo caso lo schema del pattinaggio ben si fondeva con lo
schema del camminare, nel suo primo sviluppo, mentre nel secondo caso i due
schemi erano troppo distanziati. Di più: lo schema del camminare, nel secondo
caso, era già consolidato, sicché l’intervento del nuovo schema del
pattinare, recava disturbo e non riceve va alcun rinforzo dal primo. Questa è
la ragione, spiega Hunt, per la quale i bambini, nel periodo in cui stanno
imparando a parlare la propria lingua, imparano agevolmente anche le
lingue straniere, come già aveva intuito la Montessori.
A
giudizio di Hunt, non esiste un’unica motivazione, ma una pluralità e
gerarchia di sistemi motivazionali: evitare il dolore, soddisfare il bisogno
della fame, della sete, del sesso, realizzare il desiderio di far progetti, di
assorbire informazioni e avere esperienze d’ordine estetico.
Soddisfatti
i primi, più urgenti bisogni motivazionali, l’assorbire informazioni e fare
esperienze d’ordine estetico, e perciò anche conoscitivo, diventa una fonte
di piacere.
Per
questo i bambini, soddisfatti nei loro bisogni primari e messi in un contesto
di buone opportunità, apprendono per il puro piacere d’apprendere e
attualizzano quelle potenzialità emotive e operative, che altrimenti
rimarrebbero inutilizzate o, addirittura, inavvertite. Hunt, come gli altri
maestri della psicologia cognitiva, rifiuta il principio, valorizzato forse
anche in modo eccessivo, secondo il quale la carenza dell’affetto materno
nella prima infanzia, ha la dominante responsabilità dell’arresto e
dell’involuzione della personalità infantile.
A
suo giudizio, invece, specie nel primo anno, è la sollecitazione
dell’attività percettiva, esplorativa e operativa, che aiuta o
presiede all’equilibrato sviluppo emotivo e intellettuale del bambino. È
indubbio, per il nostro Autore, che l’intelligenza non è un fatto solo
ereditario, e che, del pari, non è neppure dipendente solo dalla struttura di
questa o quella classe sociale, o da questa o quella cultura e subcultura.
In
questo quadro, è indubbio che anche i bambini, provenienti dalle zone e dai
quartieri più poveri, possono essere riscattati dalla loro situazione di
deprivazione e da tutte quelle situazioni che possono portare
all’insuccesso, al vandalismo e alla violenza senza scopo.
È
un dato di fatto, continua il Nostro, che i bambini, provenienti dalle case
dei genitori delle classi sociali più basse, non sono preparati a profittare
dell’insegnamento nella prima classe elementare o anche nel giardino
d’infanzia; inoltre, a giudizio del Nostro, dall’esperienza acquisita
largamente, fin dalla seconda guerra mondiale, non è più lecito assumere che
la mancanza di preparazione nei bambini è predeterminata dai geni ricevuti
dai loro parenti “of lowerclass status”[12]
D’altra
parte, la scuola regolare può pure cominciare troppo tardi. Per tutte queste
ragioni, conclude Hunt, noi dobbiamo individuare e incoraggiare questi bambini
a superare gli svantaggi, aiutandoli ad arricchirsi di esperienze e conoscenze
durante gli anni prescolastici.
Posto
quanto sopra, è agevole comprendere come J. Mc Hunt abbia fatto ricorso
soprattutto alla prima Montessori: a quella che istituì la prima casa dei
bambini in un quartiere povero di Roma; quello di San Lorenzo, e che riassunse
il meglio della sua scoperta nella prima edizione del “manuale di pedagogia
scientifica”.
È
agevole ora, comprendere come egli abbia sottolineato il significato popolare
e umanizzante, soprattutto di quella prima esperienza educativa. E non è un
caso che egli abbia scritto una splendida introduzione alla riedizione della
prima edizione del Metodo della Pedagogia scientifica, nella sua
traduzione inglese, fatta da Anne E. George, nel 1912.
Ed
è appunto questa vecchia traduzione, della quale egli ha patrocinato la
riedizione in U.S.A. nel 1964, che ha ottenuto, fra l’altro, un notevole
successo editoriale,con cinque edizioni in due anni.
Per
questo, il Nostro ha potuto scrivere che l’illuminato interesse che stabili
la prima casa dei bambini, nei quartieri miseri di Roma, al principio del
novecento, trova ora, una nota consonante nelle attuali condizioni degli
U.S.A. (“Will find a responsive note today”). Perché? Amministratori ed
educatori di oggi egli aggiunge sono messi, fra l’altro di
fronte al vandalismo e alla violenza senza scopo, proveniente da bambini
economicamente e culturalmente deprivati, che rifiutano o che sono rifiutati
dal tradizionale sistema scolastico.
Orbene,
a suo giudizio, una delle cose più importanti che si guadagna, nel
riesaminare l’opera della Montessori, è lo schema di una educazione
prescolastica, che per la sua origine, si adatta molto bene a contribuire alla
soluzione di una delle maggiori sfide educative del nostro tempo.
Qui
il nostro psicologo ha messo tutte le carte in tavola: la riscoperta della
Montessori e, insieme, io sboccio della psicologia dello sviluppo cognitivo
sono avvenuti, in questo secondo dopoguerra, quando gli americani si sono
trovati di fronte ad una duplice competizione: a quella dell’educazione
scientifica, specie nei riguardi della Russia, per non perdere il primato
tecnologico e strategico, e a quella più tipicamente interna, volta a
integrare i gruppi sociali sottosviluppati dei ghetti e dei quartieri poveri,
dai negri ai portoricani; volta, del pari a far fronte all’irruzione
violenta della protesta giovanile.
In
altri termini, con e dalla seconda guerra mondiale gli U.S.A.
hanno avvertito sempre più che la loro scuola unica e democratica,
ottimistica e attivistica, che obbligava a un decennio di studi, dai sei in
genere ai sedici, diciassette, diciotto anni, non riusciva più ad amalgamare,
come aveva fatto per il passato, non tanto la folla degli immigrati, quanto la
folla dei cittadini delle più basse stratificazioni sociali dei ghetti e dei
quartieri poveri. In tal modo, la più avanzata scuola democratica e
progressiva, rivelando di essere invecchiata, rimandava a una soluzione a
monte e cioè poneva il problema della presenza e funzione creativa ed
educativa degli anni dell’infanzia, dalla nascita ai sei anni.
Per
la verità, la Montessori aveva cercato di far capire queste cose agli
americani fra il 1910 e il 1915, quando negli U.S.A. esplose un interesse di
breve durata per la vita e l’organizzazione della Casa dei bambini.
In
questo secondo dopoguerra, invece, specie a cominciare dagli anni cinquanta,
è tutta la più avvertita avanguardia culturale ed educativa degli U.S.A.,
che, attraverso la riscoperta della Montessori e di Piaget, l’opera e la
ricerca dei suoi migliori psicologi dello sviluppo cognitivo, ha posto fra i
suoi compiti, non certo secondari, un altro aspetto della conquista della
luna, e cioè la conquista di un nuovo ambiente e di una nuova valutazione e
sollecitazione delle caratteristiche creative intellettuali dell’infanzia.
A
un primo livello, questa nuova scoperta della luna dell’infanzia riguarda
l’infanzia deprivata percettivamente, linguisticamente, culturalmente,
socialmente.
Ed
ecco, allora, fiorire esperimenti e studi come applicazione dei principi
educativi della Montessori, nella guerra contro la povertà e contro ogni
forma di deprivazione fisica, psicologica, intellettuale e sociale. È
questa una Montessori modernizzata per i ragazzi americani, ma anche
riesaminata nei suoi impegni e approdi più vitali e, cioè, quelli delle
origini, quando la dottoressa italiana fece le sue prime esperienze educative,
con una notevole accensione umanisticopopolare e una aperta ispirazione
umanisticosperimentale.
Gli
studiosi americani che sono ritornati a questa Montessori e i cui studi
sono stati sintetizzati nel volume: “Montesson for the disadvantaged”[13],
hanno fatto, pertanto, opera egregia e hanno, anche per questo, confermato che
l’educatrice italiana, se non è cinquanta anni avanti, non è certamente
cinquanta anni indietro, rispetto al progresso degli studi psicopedagogici e
educativi. Comunque, si diceva, gli Americani hanno riscoperto la Montessori e
Piaget, quando hanno avvertito, attraverso le rivolte dei negri e
l’inquietudine dei giovani sia come fuga dalla società, sia come
lotta contro la società, che i loro ideali educativi democratici e
progressisti e che la loro scuola obbligatoria unica e democratica, si
mostravano del tutto impari ai loro compiti. In questa situazione, hanno nel
contempo scoperto la interazione fra infanzia e società, intelligenza e
esperienza, motivazione sociale e interazione, per cui la scoperta del valore
creativo dell’infanzia, dalla nascita ai sei anni è apparsa loro come
l’altra faccia della luna o come un nuovo continente da investigare e da
mettere a frutto, in tutte le sue inesplorate possibilità. In tal modo, la
rivoluzione educativa, portata dentro ai primi sei anni di vita e intesa a
combattere ogni deprivazione percettiva, intellettuale, linguistica e
culturale, può essere apparsa o può apparire più o meno in buona fede,
anche come un surrogato o una prevenzione alla stessa rivoluzione sociale. A
un secondo livello, comunque, questa rivoluzione educativa investe tutti gli
uomini, in quanto si configura con la possibilità di elevare in modo notevole
il livello della intelligenza di tutti, per cui si apre la prospettiva di
un’umanità che potrà disporre, anche nell’immediato futuro, di più alti
quozienti di intelligenza, in forme del tutto inconsapute per il passato. In
tal modo, la scuola del futuro è in particolare la scuola della prima e della
seconda infanzia, in quanto é soprattutto essa che può favorire un
universale aumento dell’intelligenza.
Ha
scritto Maya Pines: “I giovani Giapponesi della recente generazione sono
cresciuti più alti e robusti dei loro padri, grazie alla loro dieta nei primi
anni di vita. Le future generazioni di Americani potrebbero crescere assai
dotate, con un quoziente di intelligenza di venti o trenta punti in più.
Basterebbe migliorare la dieta intellettuale di quelli che oggi sono
bambini”[14].
J.
Mc V. Hunt ha osservato che, nell’antica Roma, le scuole avevano il compito
di formare l’oratore, perché soprattutto parlando nei foro, il cittadino
poteva conquistare la stima degli altri e imporsi come dirigente. In seguito,
quando si credette che la salvezza individuale dipendeva dalla comprensione
della parola di Dio, le scuole divennero le palestre del libro.
Oggi,
l’uso dei calcolatori elettronici ha aumentato la richiesta di persone che
sappiano risolvere problemi, mediante i sistemi di simboli e cioè per mezzo
di un notevole sviluppo e impegno dell’intelligenza. È, questa, secondo
Hunt, la dominante ragione obbiettiva, accanto a quella sociale anzidetta, che
spingerà la società verso la nuova scuola dell’infanzia.
Forse
ciò che dice Hunt è possibile, osserva la Pines, ma non sarà facile.
Limitiamoci agli Stati Uniti: la conquista della nuova luna e cioè la impresa
della nuova educazione dell’infanzia comporterebbe, fra l’altro,
l’aggiornamento delle 120.000 assistenti che già operano negli istituti
prescolastici; comporterebbe la preparazione di un numero di educatori e di
educatrici dell’infanzia sei volte maggiore di quello attualmente
disponibile e almeno l’impegno di 750.000 persone; comporterebbe altre
centinaia di migliaia di maestre dell’infanzia e di aiutomaestre da
collocare presso le famiglie e nelle case dei bambini, da istituire in ogni
quartiere e in ogni villaggio.
Tutto
ciò, a prescindere dalla questione dell’edilizia e delle altre
attrezzature, richiederebbe uno sforzo straordinario di tutta la nazione: cioè
l’esplosione di un’energia talmente incisiva da vincere la opposizione o
l’inerzia del sistema educativo consolidato. D’altra parte, è possibile
ciò, senza un intervento pubblico degli Stati (o della unione degli Stati)?
È possibile che questo intervento educativo sia orientato unicamente a
elevare il quoziente intellettuale di tutti e che non sia deviato dalla
tendenza a indottrinare sul piano dell’inconscio i. bambini, al fine di far
loro accettare una certa integrazione, in una determinata società?
E c’è di peggio: con la nuova prospettiva dell’educazione precoce, sarà
quasi impossibile evitare che molti genitori, preoccupati del successo dei
figli, tendano a tradurre in termini di competizione per la vita, o forse
anche di prestigio sociale, l’educazione della prima infanzia, con
interventi autoritari di nefasta accelerazione.
Di
fronte a questo pericolo possibile o reale, solo o soprattutto la scuola
pubblica dell’infanzia, gestita e diretta dagli enti pubblici, con
personale specializzato, può evitare a giudizio di chi scrive
ogni indebita accelerazione e indicare le migliori soluzioni educative alle
stesse famiglie.
Ciò
comporta, ovviamente un inedito intervento degli enti pubblici nelle questioni
educative della prima infanzia, anche se questi ultimi hanno tutto
l’interesse a riconoscere e a rispettare la sfera delle libertà educative
delle famiglie e delle stesse istituzioni private.
Con
questi limiti, ecco, comunque, la necessità della scuola pubblica della
infanzia e, insieme, dell’anticipo dell’obbligo scolastico a cinque anni,
anche in U.S.A. Senza ciò, a che si riduce la scoperta dell’infanzia?
Correttamente
interpretato, il principio dell’obbligo scolastico a cinque anni comporta
anche in U.S.A. non tanto l’aggiunta di un anno a quelli della scuola
primaria, sebbene la istituzione di un biennio dal quinto al settimo anno,
mediatore fra la scuola elementare e le istituzioni assistenziali e culturali
della prima infanzia. Istituzioni che anche in U.S.A. vanno sotto il nome di
“nursery schools”.
La
“nursery school” può e deve libera e volontaria ed essa può continuare
ad essere organizzata ed animata con una psico-pedagogia infantile di tipo
ludico e affettivistico di ispirazione neo-psicanalitica e pragmatistica come
in gran parte già avviene.
Il
libro di K. H. Read: “The Nursery school - A human relationships
labomtory”[15]
è insieme documento e programma di questa situazione.
È
superfluo sottolineare che questa situazione e direzione accoglie il meglio
delle idee difese da Eda J. Le Shan e dalla corrente che essa rappresenta,
anche se è vero che il problema del leggere a tre anni, ad esempio,
deve essere esaminato, oggi, alla luce delle nuove acquisizioni, non solo con
un atteggiamento di rifiuto. Ciò, invece, che va riorganizzato su di un piano
pubblico obbligatorio è, dunque, il ciclo scolastico dal quinto al
settimo anno, che é a un di presso anche in U.S.A il tempo del Kindergarten.
È, pertanto, soprattutto quest’ultimo che va ripensato e riorganizzato,
in accoglimento non solo delle esperienze e prospettive montessoriane,
ma anche delle acquisizioni sulla psicologia dello sviluppo cognitivo. In tal
modo, la contesa fra affettivisti e cognitivisti può essere placata e messa
con i piedi per terra. Ad ogni modo, se non si impianta un Kindergarten, come
sopra detto, l’attuale scoperta dell’infanzia in U.S.A. rimane condannata
ad una progettazione del tutto astratta. In questo senso, l’opinione
pubblica italiana che ha incominciato a porre il problema dell’obbligo
scolastico a cinque anni e lo studio: Scuola materna e società degli
adulti, che approfondisce il problema del ciclo scolastico obbligatorio
fra il quinto e settimo anno di vita, si trovano ad essere su di una posizione
più avanzata e, a un tempo, più vera di quella ora vigente in U.S.A. I
quali, fra l’altro, devono essere interessati alla cosa, anche se nei
riguardi di una delle loro questioni nazionali più gravi: cioè, quella
dei negri.
È
ovvio che, se gli americani hanno bisogno di trovare una nuova linea di
convivenza fra negri e bianchi, essi non possono che ricorrere a trasferire
questa linea dalla società adulta a quella infantile. Fra gli adulti bianchi
e quelli neri esistono barriere irrazionali e, in concreto, un rifiuto dei
neri da parte della maggior parte dei bianchi, che, difficilmente può essere
dominato dalla società degli adulti. Nella società degli adulti, infatti, le
primitive tendenze irrazionali sono già consolidate, e il gioco è fatto.
Quando
si vede, invece, il problema a livello della società dei bambini il rifiuto dà
luogo all’incontro. Non a caso, la scuola montessoriana in India riuscì e
riesce ad affratellare i bambini contro i divieti e i tabù delle caste.
D’altro canto, una recente esperienza italiana conferma quanto qui si
sostiene. La grande emigrazione interna dalla campagna alla città e specie
dal Sud al Nord, mentre ha dato luogo ad alcune frizioni od opposizioni a
livello degli adulti, a livello della infanzia e della scuola infantile ha
dato luogo invece ad una socializzazione, al di fuori di ogni preclusione
adultistica. Lo scrivente ha potuto verificare quanto sopra, attraverso
un’inchiesta fatta nelle scuole materne, nel comune di Bologna, e ha tutte
le ragioni per credere che la conclusione verificata sia valida anche per
tutte le altre città del nord. Gli U.S.A, dunque, se vogliono trovare una
nuova linea di convivenza tra bianchi e neri devono non solo difendere il
diritto degli studenti negri a frequentare le università dei bianchi, ma
devono soprattutto difendere i diritti dei bambini negri a frequentare le
scuole infantili dei bianchi.
A
questo progetto si può opporre che l’opposizione razziale scatta all’età
dell’adolescenza, e che, perciò, è all’età dell’adolescenza che va
combattuta. Niente di più superficiale!
Le
ostilità o le opposizioni razziali, prima di costituirsi come pregiudizi,
nascono e si strutturano come emozioni. In quanto tali, le emozioni di ostilità
razziale vengono introiettate, soprattutto a livello dell’inconscio
infantile e, anche se alla superficie queste ostilità cominciano ad
estrinsecarsi o ad esplodere dopo il periodo di latenza e all’inizio
dell’adolescenza, ciò avviene perché quelle opposizioni ebbero quella tale
incubazione inconscia, non canalizzata e sublimata in altre forme.
Quando,
invece, questa inconscia assimilazione dei modelli adulti, venga contrastata o
vanificata nella convivenza fra bambini di razze diverse, in istituzioni
pre-scolastiche operose e gioiose, allora si possono smontare i meccanismi e i
dinamismi emotivi che poi portano al pregiudizio razziale adulto. In breve: se
l’opposizione razziale è geneticamente di tipo emotivo, è un non senso
qualificare il razzismo come pregiudizio, e progettare di combatterlo col
ricorso alla ragione logica degli adulti.
A
questo punto, il problema è uno solo: la società degli Stati Uniti ha
notevoli tensioni interne che, fino ai nostri giorni sono state tollerate e
fronteggiate dal sistema: i ghetti dei negri e di altre popolazioni
sottosviluppate; molte e larghe sacche di miseria; la delinquenza minorile e
adulta; la dissidenza della gioventù Beat ed Hippies; la rivolta di notevoli
gruppi giovanili universitari.
Queste
tensioni potrebbero arrivare, in concomitanza con crisi interne ed esterne,
anche ad un limite di rottura dell’equilibrio del sistema e in questa
rottura l’accendifiamma potrebbe essere rappresentato dai negri.
Può
la società U.S.A., pensare di sopravvivere senza dissolvere le principali di
queste tensioni?
È
singolare che anche di fronte a questa sfida alla sopravvivenza, si
riprospetti, con il bisogno della saggezza degli adulti, il bisogno di una
nuova interpretazione dell’infanzia, che ne valorizzi in modi inediti le
energie emotive ed intellettuali.
A
questo punto è da ritenere che con le su accennate, molteplici convergenze e
transazioni, la cospirazione contro l’infanzia, di cui ha ragionato, con
veemente intelligenza Eda J. Le Shan, possa essere messa in crisi già nella
sua stessa origine.
È
ovvio, però, anche che con queste precisazioni, buona parte di ciò che Eda
J. Le Shan ha scritto contro la Montessori perde ogni rilevanza.
Ad
ogni modo, con quanto sopra è emerso, pare che in U.S.A. si tenda a medicare
gli urti fra i gruppi e i ceti della società adulta, con nuovi interventi a
livello delle generazioni giovanili e cioè, in altri termini, a medicare la
dialettica della lotta di classe con una nuova dialettica delle generazioni.
Probabilmente
la nuova impresa americana della scoperta dell’infanzia sarà condotta
avanti con lo stesso entusiasmo e con lo stesso energico proposito, impiegati
nella esplorazione dello spazio. Le ingenuità delle sperimentazioni troppo
macchinose o di certe procedure tecnologiche che minacciano di meccanizzare
l’attività e la libertà dei bambini potrebbero, forse, essere perdute per
via e lasciar spazio, invece, a operazioni più ragionevoli, più rispettose
della naturale festività dell’infanzia.
Da
un’angolazione marxistica, si può osservare che le classi dirigenti in
U.S.A. cercano di risolvere con la Montessori ciò che rifiutano di risolvere
con Marx. Ma non è improbabile che l’osservazione possa essere rovesciata
in questo senso: nessuna operazione di socializzazione dei mezzi di
produzione, a livello della società adulta, può garantire una realizzazione
di una omogeneità di ambienti percettivi, linguistici e culturali tali da
provocare una omogeneità di punti di partenza e di sviluppo fra i bambini
delle città e quelli delle campagne, fra i bambini delle famiglie dei gruppi
dirigenti e burocratici, e tutti gli altri bambini.
In
questo modo, anche nei paesi ispirati da Marx e successori, il problema della
scoperta dell’infanzia si ripresenta, come si ripresenta anche il rapporto
fra dialettica della società adulta e dialettica della società infantile e
giovanile. In questa direzione, l’indagine da me condotta nei miei studi:
“Scuola materna e società degli adulti”[16]
e: “Esami e contestazione studentesca”[17]
potrebbe offrire qualche ulteriore motivo di riflessione.
È
qui da proporre, infine, un’altra considerazione.
La
virata americana per la scoperta dell’infanzia, con tutto ciò che essa
comporta sul piano sociale ed educativo, fa pendere l’ago del1a bilancia nei
rapporti fra infanzia e società degli adulti, dalla prima parte. Il che
comporta pure un crescente trasferimento di decisioni e di potere della società
degli adulti e quella dei fanciulli e dei giovani.
A
questo si oppone, però, tutta la stessa tradizione della scuola unica,
obbligatoria, dai sei ai sedici anni e oltre, nella quale psicologi e
pedagogisti americani, con Dewey in testa, non hanno fatto che indicare la
chiave di volta per la formazione democratica della società e della gioventù
americana.
Si
oppone anche gran parte della società degli adulti, persuasi che il fulcro
della società U.S.A., é solo nell’attività economica, tecnica,
scientifica e politica degli adulti.
Nei
riguardi di tutte queste linee di forza, il prospettare un’inversione di
tendenza, a favore del mondo infantile, può apparire come l’insorgere
ingenuo e torbido di un nuovo culto per l’infanzia e la maternità:
l’insorgere, forse, di una tendenza degenerativa. In verità, ove la
creatività dell’infanzia venisse assolutizzata e isolata dal contesto della
società degli adulti, è difficile non prevedere un nuovo culto del
bambinismo e del maternismo o una corsa pazza all’accelerazione dei processi
e ritmi dello sviluppo infantile.
La
stessa accelerazione dell’attività intellettuale dei bambini, nei primi
anni di vita, ove non venisse promossa con molta finezza e misura, potrebbe,
però scatenare una reazione a catena di atteggiamenti di iniziativa e di
autonomia, che per la loro estrema precocità, potrebbero portare a una loro
assolutizzazione, e alla istituzione di un nuovo culto della gioventù, quale
motrice della storia. E, con ciò, al rifiuto radicale della società degli
adulti: alla condanna a morte del padre.
In
America, lo studioso che meglio ha approfondito questo problema, pur
nell’ambito di un’ispirazione psico-analitica, è stato E. Erikson, il
quale, pur sostenendo con Freud la teoria del fanciullo come padre
dell’uomo, non ha valorizzato soltanto il senso d’iniziativa e
di autonomia dell’infanzia e il suo bisogno di fiducia, di industriosità e
competenza, ma ha anche indicato nell’adolescenza un punto nodale
nella formazione della personalità adulta.
Per
Erikson, senza un fermo senso d’identità. realizzato durante
l’adolescenza, senza poter rispondere alla domanda: “Chi sono?” non si
può raggiungere una efficiente e matura età adulta.
A
suo giudizio, come si è detto, l’età in cui si pone il problema dell’identità
in modo particolarmente acuto, è quello dell’adolescenza.
Questa,
pertanto, ristruttura l’età dell’infanzia, e prepara e prefigura,
attraverso la conquista dell’identità personale, la giovinezza come intimità,
l’età adulta come generatività e l’età matura come integrità
e accettazione.
In
tal modo, Erikson mette in luce la dialettica-psicologica fra le ragioni del
gioco e le ragioni della ragione, fra l’autonomia del gioco infantile e la
generatività, integrità e accettazione dell’età adulta e dell’età
matura: in breve, fra il gioco del bambino e la ragione del vecchio.
Ma
la corrente psicologica che, in nord America, più e meglio ha difeso le
ragioni dell’uomo adulto e della società degli adulti, è quella che fa
capo ai nomi G.V. Allport, G. Maslow, H.A. Murray.
Per
essi, i motivi e le linee di attività della persona adulta sono
essenzialmente diversi dai bisogni o impulsi infantili.
Per
essi l’umanità degli adulti non è una passiva iterazione né una
ripetizione in altra chiave della personalità fondata nell’infanzia, ma ha
una sua prospettiva e una sua autonomia funzionale nei motivi, nella condotta,
come nei ruoli e nella loro esecuzione. Se l’uomo adulto, o meglio, se
l’umanità adulta non ha una sua peculiare struttura e funzione, essa
sarebbe una appendice inutile da tagliare: come vorrebbe certa schizofrenia
giovanile contestataria.
L’autonomia
funzionale dei motivi significa che un’attività, ch’era dapprima al
servizio di un certo bisogno, può diventare, con l’esercizio, funzionalmente
autonoma, e costituirsi, perfino, come lo scopo della vita.
Per
comprendere la positività della personalità e società adulta, bisogna,
secondo Allport, non perdere di vista la prospettività e la intenzionalità
che inerisce a ogni motivo e tendenza umana[18].
Allport
e gli altri psicologi della sua tendenza privilegiano la personalità adulta,
fino al punto di considerare la maturità, non alla stregua dei vari e
successivi livelli di vita, ma solo alla stregua della persona adulta, per cui
personalità adulta significa anche maturità, normalità, salute, onde si ha
l’infanzia e la gioventù come immaturità.
Nuova,
evidente assolutizzazione dell’età adulta, che fa il paio con quella sopra
citata dell’infanzia. È agevole, pertanto, osservare che questi sbandamenti
verso i poli opposti della dialettica delle generazioni, evidenziano il
pericolo o di un paninfantilismo e pangiovanilismo o, per l’opposto, di un
panadultismo. E, cioè, una terribile dissociazione fra le prime ragioni del
gioco e le ultime ragioni della tradizione della saggezza.
Dagli
studi condotti nel presente quaderno, risulta, forse, sufficientemente
giustificato come, nella società e nella cultura degli U.S.A. si stia
operando una conversione “a monte”, in ordine allo sviluppo dell’uomo e
della società.
Questa
conversione “a monte” è la scoperta dell’infanzia.
Ma
sarebbe un’ingenuità imperdonabile ritenere che quella società e cultura
si sia posta a bandire una specie di nuova crociata dell’infanzia o per
l’infanzia.
È
anche troppo ovvio che fra l’infanzia e l’età adulta intercorrono ritmi
spazio-temporali, fasi o livelli di sviluppo, che sarebbe follia ignorare.
D’altro
canto, l’attenzione ai problemi di vita dell’adolescenza costituisce un
vecchio impegno della cultura americana.
Come
è noto, dopo la Guerra Civile, ebbe inizio in U.S.A., un vero e proprio
movimento culturale per lo studio dell’infanzia e dell’adolescenza.
È
pure largamente noto che, pionière di questo movimento, fu lo psicologo
Granville Stanley Hall.
Nel
1883, appunto, egli iniziò la sua ricerca sullo sviluppo infantile e
giovanile, con un’inchiesta nella scuola di Boston, che aveva per oggetto
d’indagine il contenuto della mente del fanciullo al suo primo ingresso
nella scuola.
Con
una lunga serie di ricerche, estese a tutto l’arco della adolescenza e con
l’aiuto di un buon numero di discepoli, lo Hall raccolse una documentazione
di prima mano sui problemi di vita dell’infanzia e della giovinezza, che gli
permise di scrivere il primo studio, divenuto, poi, classico, sulle questioni
in esame, veracemente intitolato: L’adolescenza.
Questo
gran libro si presentò, prima in America e poi in tutto il mondo, come
l’insegna più illuminante del movimento per lo studio della vita
infantile e giovanile.
La
novità di Stanley Hall consisteva nell’applicare la concezione
evoluzionistica allo studio biologico e psicologico dei fanciulli e degli
adolescenti, mentre la sua idea dominante era quella, secondo la quale, la
vita evolutiva del fanciullo e dell’adolescente ricapitola l’evoluzione
della specie.
La
conclusione psicopedagogica, che egli traeva da ciò, è che la essenza
dell’anima è nel suo divenire, per cui essa non è cosa fissa e
immutabile, ma cresce sui suoi stati antecedenti e differisce dalle sue forme
attuali, come il protoplasma differisce dal corpo completamente formato.
L’anima
è, pertanto un prodotto, più che una produzione, della eredità biologica e
sociale.
Ma,
in quanto tale, essa è ancora confusa e piena di contraddizioni, per cui
mentre “appare esteriormente educata e raffinata, scriveva testualmente
Hall, conserva ancora nelle sue pieghe, profondi impulsi animaleschi e
barbarici”.
Su
questa linea, l’infanzia e la pre-adolescenza si rivelano a lui come un
ricorrente, salutare ritorno dell’età primitiva e selvaggia della specie,
per cui si imponeva, a suo giudizio, non solo di accogliere, ma di rafforzare,
il principio espresso dal Rousseau di lasciare allo sviluppo naturale gli anni
della pre-adolescenza, fino al dodicesimo, limitandosi a preparare soltanto un
ambiente idoneo ai bisogno di vita primitiva e selvaggia dei fanciulli.
Infatti,
a suo giudizio, solo questa vita libera e selvaggia a immediato contatto con
la natura, può offrire ai fanciulli e ai pre-adolescenti le necessarie
sollecitazioni allo sviluppo, nelle quali rivivano gli echi della più libera
e più ricca vita del remoto passato della specie; echi e sollecitazioni che,
soli, possono salvare la fanciullezza dagli incombenti pericoli della precocità
e dalle accelerazioni fittizie e ovattate della vita urbana e della famiglia
civile.
Questa
visione della adolescenza era, ovviamente, corrispettiva all’età che faceva
seguito, in U.S.A., alla guerra civile, ancora improntata dallo spirito della
frontiera, ma già alle prese con l’intensificato urbanesimo e l’impetuosa
prima corsa verso l’industrializzazione.
Il
movimento per la scoperta dell’infanzia, emerso dalla società e dalla
cultura degli U.S.A. in questo secondo dopoguerra, sposta radicalmente, come
abbiamo visto, l’attenzione dominante dall’età della pubertà e della
adolescenza, agli anni della prima e della seconda infanzia.
Ma
non è a credere che l’adolescenza non costituisca più un problema, né per
la gioventù, né per la società degli adulti in U.S.A.
Se
questo, per assurdo, accadesse, basterebbe, a richiamare alla realtà,
l’emergenza imponente e paurosa, nell’attuale società urbanizzata e
superindustrializzata degli U.S.A., della cosiddetta delinquenza minorile, alla
quale recentemente, si è aggiunta la dissidenza o la disaffiliazione della
cosiddetta Beat Generation, e, da ultimo, quella degli Hippies, per
non dire, poi, della rivolta di molti nuclei studenteschi universitari,
serpeggiante nelle più fervide università della Repubblica stellata.
Sarebbe,
qui, fuori luogo richiamare e individuare la ricerca psicologica e
sociologica, dedicata in quel paese sia alla cosiddetta delinquenza minorile, sia
al rifiuto dell’organizzazione sociale ed economica, sia al rifiuto del
cosiddetto sistema, da parte dei Beatnik e degli Hippies, sia alla rivolta
contro il sistema da parte di minoranze di gioventù studentesca.
Basti
a questo proposito un accenno allo studio di Paul Goodman: Growing up
Absurd. Problems of Youth in the Organized System, tradotto anche in
italiano, col titolo: La gioventù assurda[19].
A
giudizio dell’autore, la gioventù americana del nostro tempo cresce
nell’assurdo e attraverso l’assurdo, in quanto l’organizzato sistema
della società civile, economica e sociale, (avendo lasciato in sospeso e a
metà le rivoluzioni di democrazia e di libertà attraverso cui quella società
si è costituita), si è impregnata di irrazionalità, violenza,
insignificanza e assurdità, al punto da costituire un rapporto di
disaffiliazione o di rivolta nei giovani, rapporto da cui trae vita, sia
quella porzione della gioventù che vien definita troppo sbrigativamente
delinquenziale, sia la fuga dalla società da parte della gioventù Beat.
In
questo quadro, a giudizio dell’autore, rivoluzioni incompiute, come
la riforma, la scienza moderna, l’illuminismo e la cultura popolare, sono
andate di pari passo con riforme incompiute per l’infanzia e la
gioventù, come: l’abolizione del lavoro infantile, l’istruzione
obbligatoria, la rivoluzione sessuale e l’educazione progressiva.
Nei
rapidi mutamenti che si sono verificati, sottolinea l’autore, gli adulti non
hanno tenuto abbastanza presente che esistono anche i giovani e che il mondo
deve adattarsi alle loro necessità.
“Abbiamo,
invece, il fenomeno attuale di una eccessiva cura per i bambini in sé, nella
psicologia e nei suburbi; e la ‘delinquenza giovanile’ considerata come
un’entità a sé stante”[20].
Si
impone, invece, col dominante impegno di realizzare, a livello della società
adulta, le rivoluzioni incompiute, l’impegno altrettanto vitale di liberare,
in particolar modo l’adolescenza, dai condizionamenti negativi, precipitati
su di essa dal cumulo delle rivoluzioni mancate o compromesse dei tempi
moderni, con le ambiguità e gli squilibri sociali conseguenti”[21]
Per
Goodman, come, in parte, anche per Erikson, è l’adolescenza l’età
cruciale della formazione umana ed è, pertanto, su di essa che va indirizzata
la somma delle preoccupazioni degli adulti e del loro impegno conoscitivo e
pratico.
L’angolazione
e le procedure con le quali Goodman esamina, con partecipazione, la gioventù
che cresce nell’assurdo, sono evidentemente assai lontane dall’angolazione
del Parsons, mentre si muovono, piuttosto, fra l’ispirazione sociologica di
Wright Mills e quella psicologica, a ispirazione freudiana. In breve: “Per
avere dei cittadini egli scrive, bisogna prima esser sicuri di aver prodotto
degli uomini. Una grande parte della ricchezza pubblica, deve
quindi essere destinata, precisamente a coltivare “libertà e civiltà”,
e, più particolarmente all’educazione degli adolescenti”[22].
Con
questa determinazione, Goodman trascura, evidentemente, tutto ciò che sta a
monte dell’adolescenza e, con ciò, rivela quella stessa cecità per
l’infanzia, dimostrata anche in Italia da Don Milani e dai suoi scolari di
Barbiana nella: Lettera ad una professoressa.
L’accenno
qui formulato alle questioni degli adolescenti e dei giovani, nella società
contemporanea, vuol essere solo un’indicazione provvisoria, che potrà
essere, forse, ripresa e approfondita in un quaderno successivo, a cura del
nostro Istituto di Pedagogia di Salerno.
Ma
con quale ragionevolezza ci si può avvicinare alle ire e alle violenze, alle
intimità e al bisogno degli altri e a quella riscoperta di sé che é insieme
scoperta della società degli adulti, cioè a quel dramma che si avvera con
crisi di sangue, di affetti e pensieri. a livello dell’adolescenza?
Ma
torniamo ai centri nodali della testimonianza e del documentato discorso di
Goodman.
Da
una parte, c’è l’infamia del sistema organizzato che comprende il mondo
degli affari e della politica, semimonopoli, governo, pubblicità industriale,
ecc. e, dall’altra, c’è il distacco delle generazioni che si sta
formando.
Il
sistema organizzato è un effettivo labirinto nel quale si rincorrono, senza
tempo, come topi per vie sempre eguali, individui e gruppi equilibrati e
integrati, attraverso una coesione imposta dall’alto, dove la corsa agli
affari, ai profitti, ai ruoli del potere, determina un progressivo
abbassamento delle qualità umane, uno spreco dell’uomo.
Restano
fuori da questo labirinto i giovani cosiddetti disadattati e, cioè quei
fatalisti precoci che credono di trovare il loro sviluppo migliore dando vita
a bande delinquenziali, oppure quei rinunciatari precoci che si oppongono al
non senso del sistema organizzato, scegliendo la via di una povertà
volontaria e un modo di trascendere l’io e la società, attraverso la libertà
delle esperienze affettive fra i sessi e delle attività espressive. Ma tutto
ciò, è evidente, che rientra nell’ambito della permissività del sistema.
Questi
due modi di risposta alla società degli adulti e alla integrazione totale
denunziano, non solo una generica insoddisfazione per la società, ma
soprattutto il fatto che essa vive, sia mediocrizzando e mortificando “i
topi che corrono nel labirinto”, cioè i giovani e gli adulti in essa
integrati, sia non riuscendo a offrire lavori e impegni degni dell’uomo,
sicurezza e mete vitali ai giovani più inquieti e più ribelli. In tal modo,
il mondo del potere e degli affari organizzato, non solo è andato più avanti
dello sviluppo dell’uomo, non solo vive su un alto quoziente di spreco di
cose, ma si istituisce e prospera su uno spreco di qualità umane che, è poi,
soprattutto, incapacità o sordità di capire e aiutare le qualità creative
dell’adolescenza.
Gli
adulti, presi nella “corsa dei topi”, sono talmente dominati dalla loro
corsa al lavoro, al danaro e al prestigio, che, quando sono padri, di diritto,
sono impediti ad esserlo di fatto.
Perché
un padre possa essere di guida al bambino che cresce, deve avere una sua
comunità, ed essere più uomo. Nella situazione attuale questo è
difficile”[23]
Oggi
si avverte, in America, da parte di molti genitori, la tendenza a cercare
seriamente “di dedicarsi ai piccoli come ad una attività secondaria sì, ma
vera. È quella che si chiama nuova paternità”[24]
Ma
che significa questa nuova paternità? Non denunzia, forse, essa
l’eclisse della vecchia paternità?
D’altro
canto, una nuova paternità, ispirata ai principi dell’igiene mentale e
della psicologia dell’infanzia, è tale da garantire una nuova figura di
paternità, che non sia solo una resa degli adulti ai fanciulli ?
E
per quanto attiene ai gruppi giovanili che si attestano al di fuori del
labirinto, è sufficiente una psicoterapia di gruppo, per realizzare un
traguardo nuovo di consenso e dissenso fra la società degli adulti e le nuove
generazioni; fra il sistema e l’antisistema?
A
complicare la questione esaminata dal Goodman, che scrisse il libro in esame
verso il l960, si è poi aggiunta. negli anni seguenti, prima in U.S.A. e poi
in Europa, la rivolta di notevoli gruppi studenteschi universitari.
Si
Sono evidenziati, in tal modo, sia pure ancora oscuramente, le condizioni di
possibilità per cui i gruppi studenteschi universitari, da classe anagrafica
di età, si vengono trasformando, nel bisogno embrionale di strutturarsi come
una vera e propria, paradossale, instabile classe sociale di passaggio, avente
nella scuola superiore e nell’università la suA obiettiva e costante
qualificazione di status e di ruolo e la sua strumentazione di lavoro.
In
tal modo, si evidenzia la novità sociologica intrinseca alla espansione della
scolarizzazione crescente, dei gruppi giovanili di progettarsi come classe
dirigente in assoluto o in contestazione con gli altri gruppi dirigenti della
società adulta.
Pertanto,
una nuova forza sociale si aggiunge a quella dei rinunciatari precoci e dei
fatalisti precoci, nella denunzia dello spreco dell’uomo, imputabile al
sistema del labirinto. Però come spiegare questa nuova configurazione sociale
dei gruppi universitari studenteschi, se non come un punto di arrivo, non solo
prodotto dall’esterno del sistema, ma anche, quale rivolta contro il padre
resa possibile dalla intensificata e accelerata autonomizzazione dei fanciulli
e degli adolescenti, prodotta dalla scuola?
Goodman,
sottoponendo a un esame impietoso, ma non esagitato, l’organizzazione civile
ed economica del suo paese, che si conclude, in parte con il rifiuto, fa una
dominante eccezione, relativamente all’impegno umano dei suoi concittadini,
per quanto attiene alla cura e all’educazione dei bambini dalla nascita ai
sei anni ed elogia, in particolar modo, le scuole materne del suo paese.
Se
ne deve concludere che il mostro della organizzazione, che degrada le qualità
umane di coloro che ne prendono parte e che, a una porzione notevole degli
adolescenti non sa offrire altre scelte attraenti, che non siano le vie della
delinquenza precoce o della disaffiliazione o della fuga dei Beatniks, tutto
disumanizza, tranne quell’area privilegiata dei bambini, dalla nascita ai
sei anni e il nodo delle attenzioni degli adulti verso questo piccolo
orizzonte della vita, rimasto intatto da ogni contaminazione.
Per
la verità, questo riconoscimento per l’impegno pratico e culturale della
società degli U.S.A. per la prima infanzia, è condiviso universalmente, non
solo dagli americani, ma anche da tutti gli stranieri, esperti nella
questione.
Il
problema, allora, è questo: come mai all’età della pre-adolescenza e della
adolescenza, scattano i meccanismi che portano alla delinquenza precoce o alla
fuga precoce da quella realtà ?
Fra
gli anni della scuola materna e quelli della scuola media inferiore, corre
l’età che gli psicanalisti definiscono come età della latenza libidica
e che è anche l’età della scuola primaria.
Se
i comportamenti devianti si evidenziano e si definiscono nell’età della
pre-adolescenza o della adolescenza, bisogna dedurre che essi hanno avuta la
loro incubazione prima, e che gli sforzi combinati delle famiglie e delle
scuole primarie, in molti casi, abbiano avuto un effetto negativo.
È
vero che dopo i sei anni i ragazzi cominciano già ad essere aggrediti dal
mercato di particolari oggetti di consumo, dai fumetti, dal cinematografo e
così via; è vero che, specie con l’ingresso nella scuola elementare, i
ragazzi diventano più esposti alle sollecitazioni, positive o negative,
dell’ambiente sociale. Ma tutto ciò non serve minimamente a spiegare come
al di là dell’età della latenza, molti, ma non tutti i ragazzi si diano a
comportamenti devianti, sulla linea della delinquenza, o sulla linea di una
pacifica rivolta alla società della produzione di massa o del benessere.
La
scuola americana, specie attraverso la sollecitazione dei suoi pedagogisti,
psicologi e sociologi più rappresentativi, ubbidisce alla preoccupazione
dominante di educare i ragazzi alla socialità, sia pure attraverso la
via della individualizzazione.
Il
grande spettro, per genitori e maestri, è quello della a-socialità o della
anti-socialità.
Ma
questa società e questa socialità, che sta in cima ai loro pensieri,
sostengono Goodman e altri critici della società americana, sono esse che
vanno messe prima di tutto in discussione, proprio perché in esse sta la
causa di ogni comportamento deviante
In
altri termini, la socialità richiesta e posta come compito comprimario
dell’educazione, è generatrice di un mondo sociale assurdo, che non offre
altre scelte che quelle che portano al giovane delinquente o al giovane
Beatnik.
Ma,
allora, per quale ragione non tutti i giovani si danno alla delinquenza o al
rifiuto reale e simbolico di quella società?
Assumere
che quella società non offre altre scelte di opposizione che quelle che
portano alla delinquenza precoce o al rifiuto totale della società è,
pertanto, solo una tesi polemica.
D’altro
canto, assumere che il rimedio educativo va impostato al livello
dell’adolescenza, sia pure in un contesto di misure liberatrici e
umanizzatrici della società organizzata, equivale, ancora una volta, a dare
come non esistente l’incubazione al comportamento deviante, che ha le sue
vie segrete nell’età della latenza e della scuola elementare.
Goodman
sottolinea il valore e la funzione del movimento della educazione
progressiva, quale proposta radicale, mirante a risolvere i dilemmi della
educazione, nel nostro mondo industrializzato e democratico.
Essa
riuscì, a suo giudizio, a distruggere il formalismo scolastico e la
psicologia accademica, a beneficio dell’educazione della persona intera, del
conoscere attraverso il fare, e della diretta esperienza dei singoli,
attraverso l’esperienza di gruppo.
L’educazione
progressiva ebbe i suoi nemici dichiarati, da parte di tutti coloro che
l’accusavano di farsi beffe della tradizione giudaico-cristiana, anzi
occidentale, di minare il rispetto per l’autorità, la decenza morale e il
patriottismo, e di non saper provvedere neppure ai tradizionali compiti
dell’insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto.
Ma
i colpi più nocivi e veramente fatali, precisa il Goodman, l’educazione
progressiva li ricevette all’interno dello stesso movimento, che degenerò
nella pratica di insegnare, soprattutto, ad imparare ad andar d’accordo con
gli altri, a socializzare, e a mirare ai problemi reali della vita, come
guidare l’automobile, o frequentare sale da ballo.
“Nulla
di strano, dichiara Goodman, che l’educazione progressiva non sia riuscita
ad imporsi . . . La classe dominante nella società, fa in modo di avere
l’educazione progressiva che le fa comodo”[25].
Ebbene,
con un’educazione elementare di questo tipo, come si può pretendere di
avere un popolo di fanciulli che riesca a trovare entusiasmanti scopi di vita
e belle strade d’azione, che meritino di essere affrontati da tutti, anche
dai ragazzi familiarmente e intellettualmente più indifesi, come da quelli più
ribelli?
Il
Goodman sostiene che l’educazione progressiva non riuscì ad introdurre il
metodo di apprendere, affrontando direttamente i problemi reali e che “il
risultato effettivo di questi progressi è stato d’indebolire i programmi
universitari e di favorire l’adattamento nella società qual è”[26].
Il
nostro Autore dichiara non pertinenti le accuse degli avversari
dell’educazione progressiva, ma anch’egli, che pure ne approva e ne esalta
l’ispirazione e il programma, deve concludere che essa si è esaurita, per
ragioni estrinseche ed intrinseche, con un parziale fallimento.
Ma
ritenere che essa è caduta in quanto “non riuscì ad introdurre il
metodo di apprendere, affrontando direttamente i problemi reali”[27]
è veramente troppo poco.
Basta,
forse un’armatura spirituale di questo genere, per i fanciulli dai 6 agli lì
anni, a prepararli ad affrontare la crisi e i rischi dell’adolescenza, con
le sue proprie urgenze sessuali, affettive, e di scelta od accettazione di un
compito di lavoro pratico o di studio?
La
vecchia Montessori, ad esempio, non ebbe bisogno di molto tempo per capire e
denunziare che quella cosiddetta educazione attiva e progressiva, non
riuscendo ad impegnare spiritualmente i ragazzi e ad aiutarli ad ordinarsi
interiormente, li abbandonava ad una attività disordinata e alla dispersione
delle loro energie spirituali.
Vero
è che Goodman accusa il sistema organizzato che manovra e dispotizza la
società americana, di avere laicizzato e banalizzato la fede d’ispirazione
cristiana e riformata e di avere svuotato ogni patriottismo, che pure,
a suo giudizio, costituisce un clima spirituale indispensabile a riempire la
vita dei ragazzi, specie quando essi abbandonano l’autorità dei loro
genitori e si incontrano e si scontrano con quella dei loro insegnanti e con
gli aspetti reali della loro società locale.
Orbene,
non fu responsabile anche l’educazione progressiva di aver pure essa
svuotato fede e patriottismo e, con ciò, di aver lasciato i giovani
spiritualmente indifesi e impreparati ai rischi e ai meccanismi, spesso
infernali, della società organizzata degli adulti?
Goodman
stesso riconosce che la proposta e il programma della educazione progressiva mancava
di grandiosità e di gaiezza esplosiva, mancava di calma religiosa ed era
debole riguarda alle discipline classiche.
Ma
egli giustifica questa carenza dichiarando che nessun sistema educativo è
perfetto, in quanto ogni sistema deve adeguarsi ai bisogni della sua
situazione sociale.
Ebbene,
se quel programma, pur essendo un ottimo indirizzo minimo, veramente capace
di conservare le risorse umane, aveva quelle mancanze originarie, sopra
dette, e se i suoi risultati sono stati in parte negativi, come non dover
concludere ad esempio che quando verso il 1915 la cultura americana rifiutò
la proposta educativa montessoriana fece quel rifiuto “perché era più
indietro” e non “perché era più avanti”?
Il
movimento dell’educazione progressiva, dichiara Goodman, “oggi è
moribondo, ma non può venire risuscitato. La sua storia, in questo secolo è,
in ogni modo, altamente istruttiva”[28].
È
sufficiente, però, l’istruzione che ne ricava Goodman?
Trovandosi
in un tempo che è quello dell’agonia dell’educazione progressiva e della
ricerca di nuove prospettive educative, il Nostro ha voluto offrire il suo
contributo e, proprio a questo fine, ha scritto il libro in esame, che è, a
suo modo, un libro elogiativo e, insieme, contestativo, della stessa
educazione progressiva, pur con il grande rispetto che egli ha, ad esempio,
per Dewey.
Il
suo è, pertanto, uno studio sociologico e, ad un tempo, psico-pedagogico e può
essere avvicinato a un libro uscito dalla crisi scolastica e pedagogica
prodotta in U.S.A. dagli sputnik russi, e, cioè a quello di Jerome
Bruner, scritto, anch’esso, negli anni ‘60: The Process of Education.
Come
si presentavano a Goodman le scuole elementari v del suo paese, verso il 1960?
“Nelle
scuole elementari i bambini sono sottoposti a domande a cui si deve rispondere
con un sì o con un no e ad altre la cui risposta va scelta tra
quelle proposte”.
Ciò
perché è più facile calcolare e catalogare i risultati; e poi ci si lamenta
che essi non sanno esprimere i loro pensieri.
Ed
ecco che ora il dottor Skinner di Harvard, ci ha inventato una macchina che
abolisce la relazione creativa dell’allievo con l’insegnante e con le
materie di studio.
Essa
ammannisce al bambino domande “alla sua portata”, per insegnargli a
leggere, scrivere e a far di conto, e “altri dati oggettivi”, in modo che
il maestro possa dedicarsi al “perfezionamento” dell’educazione,
illustrando la “cultura nei suoi aspetti sociali e filosofici” . . .
Il
dottor Skinner propone di organizzare le raccolte di “dati reali” in
lezioni che trattino di “grandi temi” come quelle della “News School for
Social Research”[29].
Con
quanto sopra, Goodman ha intuito che il suo paese stava dando vita a quello
che passa per il movimento della educazione programmata e a una nuova
introduzione nella scuola di quelle tecniche e di quei congegni che,
nella grande fabbrica industriale americana, hanno avuto quel successo che
tutti sanno.
Gli
americani, per quasi universale consenso, si sono dimostrati bravissimi,
soprattutto, nella loro organizzazione industriale.
L’introduzione
sempre più massiccia, pertanto, nella scuola, di congegni meccanici per
comunicare, di macchine per insegnare e di piani programmati per
l’istruzione, è, pertanto, in parte una necessità e, in parte, una
possibilità, per gli americani, molto suggestiva.
Per
le vecchie tradizioni educative umanistiche, incentrate nel culto dei libri e
nel privilegio della parola e dell’uso dei simboli, questa irruzione
tecnologica nella scuola, è come un colpo nell’occhio.
Eppure,
anche nella scuola, ci sono parecchie attività ripetitive o di altro genere,
specie di tipo operativo-visivo, che possono benissimo essere affidate alle
macchine.
Da
qui, tutto sommato, la ragionevolezza anche del dottor Skinner, cosi poco
simpatico a Goodman.
Il
quale, davanti alla macchina per insegnare, inventata da Skinner e a tutte le
altre macchine dello stesso genere, chiede: “ma chi, allora, studierà la
perplessità sul viso del bambino e indovinerà di colpo che cosa è che
effettivamente non capisce, e che può anche, in apparenza, non avere nulla a
che fare col problema in questione e, magari con la materia d’insegnamento?
E
chi si accorgerà che gli brillano gli occhi, e coglierà l’occasione per
diffondergli una splendida luce su tutta la sfera dello scibile: per esempio,
sulla natura della successione e delle serie, sulla vera natura della
grammatica: quei momenti di penetrazione che valgono anni d’insegnamento
normale? Non so proprio come la macchina del dottor Skinner potrebbe
paragonarsi per efficacia al metodo socratico del Menone”[30]
In
breve, è evidente che per il Nostro la macchina per insegnare che “abolisce
la relazione creativa dell’allievo con l’insegnante e con le materie di
studio” è quanto di più balordo si possa immaginare per l’educazione.
Ma
chi ha stabilito che ogni macchina per insegnare debba necessariamente portare
a quella abolizione?
E,
allora, nella misura che la detta macchina possa dilatare la
relazione creativa dell’allievo con l’insegnante e con le materie di
studio, perché non potrebbe essere anch’essa benvenuta? Vero è che,
entrata in crisi mortale l’educazione progressiva, nel nuovo attuale
contesto, interno ed esterno della società degli U.S.A., pare che
s’imponga, non solo una rivoluzione riguardo ai metodi dell’educazione,
come sta accadendo con alacrità, ma una vera e propria ristrutturazione
generale dell‘educazione di base.
L’educazione
progressiva, di fatto, non riuscì a legare la scuola materna e la scuola
elementare, anche perché non comprese adeguatamente il valore e la funzione
della prima e della seconda infanzia, mentre a livello della scuola
elementare, non riuscì a proporre un’animazione spirituale tale, da
riuscire ad aiutare i ragazzi meno privilegiati, come non riuscì a far
scaricare e sublimare la latente aggressività, che è poi sempre
auto-distruttiva ed eterodistruttiva, dei ragazzi fra i sei e gli undici anni.
Con
quanto sopra, sia la psicologia del comportamento, che la pedagogia del
comportamento, col proprio naturalismo e col relativo laicismo negativo, sono
oggi di fronte a gravi responsabilità e non a caso, nella crisi del
comportamentismo, ha avuto buon gioco l’espansione della psicoanalisi, come
lo sviluppo della psicologia cognitiva.
Ma
ben più importante di questa crisi è, come si è visto, lo scatenarsi nella
società degli U.S.A., sia della delinquenza precoce, che della generazione beat
e, infine, l’avvento delle rivolte studentesche, con le loro connessioni
interne ed internazionali.
Se
il nuovo mito della cultura americana della “educational revolution”,
si limita alla sola scoperta dell’infanzia o a una riforma in senso
strutturalistico dei programmi d’insegnamento, (Bruner) è da prevedere
che l’educazione in questo paese rimarrà ancora inadeguata alle sfide del
nostro tempo.
Che
sono sfide interne ed esterne alla società americana e forse a quella
dell’occidente.
Non
a caso Goodman, ad esempio, ha richiamato l’attenzione sulla situazione assurda
in cui cresce la fanciullezza in U.S.A. ed ha sottolineato che i fenomeni
della delinquenza precoce e della generazione beat si presentano
all’insegna della progressione aritmetica, per cui, non controoperando, dove
oggi i giovani delinquenti o i giovani Beat, sono cento, domani potranno
essere mille.
Davanti
a questa prospettiva, allora, non vuol essere oltraggioso per un non
americano, porre questa domanda: è proprio decisa, la società e la cultura
degli U.S.A., che è un evento storico fra i più alti della civiltà
occidentale, a sopravvivere?
Concludiamo,
cercando di attenuare il tono apparentemente apocalittico della domanda ora
formulata, per fare osservazioni più immediate e contingenti.
Nel
decennio che va fra il 1947 e il 1957, in U.S.A. tecnici e
professionisti aumentarono il 61% gli impiegati il 23%, mentre gli operai
industriali crebbero solo del 4,5% e i manovali del 4%.
Nonostante
questo aumento enorme dei professionisti e tecnici, quando nel 1957 i primi
sputnik russi cominciarono a volare nel cielo, gli americani negli U.S.A.,
pare che abbiano cominciato ad avere una ragguardevole paura dei russi.
Per
quale diavoleria, questi recenti commilitoni degli americani che da questi
ultimi, durante la guerra erano stati aiutati in modo determinante, con armi,
munizioni ed altro, erano giunti a tanto da far traboccare la bilancia della
scienza e della tecnica, dalla loro parte?
Il
dottor Edward Teller dell’università di Berkeley in un saggio largamente
reclamizzato, dal titolo: Sei tagliato per fare lo scienziato?, ammoniva:
“se i russi continueranno a superarci, arriveranno per primi sulla luna,
avranno il controllo del clima, perfezioneranno armi da cui non ci si potrà
difendere, saranno all’avanguardia in ogni campo, e allora la libertà sarà
perduta (lui e dovunque”[31].
Si
cominciò, intanto, a studiare con ansia la struttura della scuola russa e fu
subito messo in risalto che l’U.R.S.S. laureava una percentuale di
ingegneri, di matematici, di esperti in scienze positive, di gran lunga
superiore a quello degli U.S.A.
Si
riprese in esame anche la scuola americana e si constatò, fra l’altro, che
molti studenti della scuola media inferiore non sapevano neppure leggere e
scrivere decentemente, mentre molti corsi matematici e scientifici delle
scuole secondarie e universitarie erano di basso livello.
Ma
trovò anche che assai più della metà degli studenti abbandonava gli studi
secondari.
Servendosi
di varie ricerche, il Conant precisò pure che, nell’ambito delle scuole
secondarie, solo il 15% degli studenti si presentava costituito da
giovani “dotati”, mentre una notevole percentuale, anche dei ragazzi più
intelligenti scansava i corsi difficili o abbandonava la scuola.
Perché
mai così scarsa motivazione allo studio? L’America, per far fronte alla
sfida dell’U.R.S.S., - dichiarava Conant - ha bisogno di riformare la sua
scuola e di persuadersi che, negli antichi programmi scolastici miranti a
concentrare l’attenzione sulla individualità dei singoli fanciulli,
bisognava inserire, quanto meno, nell’interesse della difesa della nazione,
un impegno di grande rilievo per gli studi scientifici.
Egli
propone, pertanto, che il 15% dei giovani “dotati” sia incoraggiato in
ogni modo a concludere gli studi secondari e a proseguirli a livello
universitario.
Con
queste misure, obietta Goodman, “le scuole pubbliche dovrebbero fungere da
campi di addestramento per i monopoli e per le forze armate” e la nuova
motivazione agli studi dovrebbe essere costituita dall’incentivo a
combattere una guerra atomica o una guerra fredda. Bella motivazione allo
studio!
Questo,
comunque, può, forse, controbilanciare l’apatia sociale ed il cinismo di
molti studenti?
Con
queste prospettive, continua Goodman, in realtà non si fa nessuno sforzo per
sollecitare la motivazione allo studio nei giovani e per accrescere il
patrimonio delle capacità umane.
Anche
C. J. K. Galbraith, nel suo libro: The Affiuent Society, ove mostra i
cinque modi per accrescere la produzione:
1)
sforzarsi di aumentare la disponibilità di mano d’opera;
2)
sforzarsi d’incoraggiare nuove imprese;
3)
cercare di realizzare innovazioni tecniche;
4)
tendere alla piena occupazione;
5)
mirare all’uso fruttuoso del capitale esistente; dimentica, osserva
Goodman, di accennare a un fattore essenziale per la stessa produttività, che
consiste, appunto, nello sviluppare in ogni ragazzo attitudini e capacità.
Anche
Conant e Galbraith hanno, pertanto, un’idea superficiale dello spreco
compiuto, nella società americana, delle risorse umane. Perchè?
Basta
riflettere al confronto e al distacco che esiste fra la scarsa resa umana
delle persone di tipo medio, cioè l’indolenza abituale della gente e la ben
più alta resa, realizzata dagli uomini in casi di emergenza, o quando sono
mossi dall’entusiasmo, o quando sono profondamente concentrati nel
loro lavoro.
Gran
parte della stupidità non è che noia cronica, frutto di inibizione e di
circostanze negative, anche perché non si può imparare e crescere nella
intelligenza, quando i nostri pensieri repressi sfuggono al lavoro che ci è
imposto, e cioè quando si ha a che fare con cose che non ci interessano.
In
tal modo, gli uomini operano con una frazione ridottissima delle proprie
capacità, e cioè al di sotto dei loro mezzi.
Ma
non c’è forse un’età nella quale, in qualsiasi società, gli uomini
vivono costituzionalmente al di sopra dei loro mezzi, come ha
sottolineato Merleau Ponty? E, cioè, l’infanzia?
Goodman,
che pure muove la sua opera contro lo spreco delle risorse umane, non ha per
nulla presente quest’ultima prospettiva.
“Il
nostro sistema scolastico è, nell’insieme, cattivo, ma gli asili infantili
sono di prim’ordine, impiantati secondo criteri progressivi, con giovani
insegnanti intelligenti e impegnati.
Si
dice che i bambini dispongono di giocattoli e giochi ottimi, perché semplici,
e capaci di stimolarne la fantasia, fino alla età di sei anni, quando i
criteri commerciali del mercato degli undici miliardi” (del mercato delle
cose offerte ai e comprate dai fanciulli e dagli adolescenti)
“cominciano ad operare”.
Qual
è, dunque, la posizione dei bambini nella società industriale degli U.S.A.?
Qual è il loro rapporto con la segregazione ed il pregiudizio razziale?
“Segregazione
e pregiudizio razziale sono distruttori della comunità per definizione, e non
è il caso di discuterli qui.
Anche
qui la rivoluzione iniziata ai tempi di Jefferson e ripresa dagli
abolizionisti, é rimasta incompiuta: e noi ne abbiamo ereditate le
conseguenze . . . Quando esistono pregiudizi, anche la comunità della classe
dominante si disgrega”[32].
Nonostante
i suoi frequenti riferimenti a Freud e taluni riferimenti anche a Marx,
Goodman, come la maggior parte degli scienziati sociali del suo paese,
continua a ripetere il tema del pregiudizio razziale e della segregazione, in
termini intellettualistici e si fissa nell’invocazione della “tolleranza
di razza, di classe e di cultura”.
La
segregazione e il pregiudizio razziale, considerati come fatti teoretici, o
fatti d’intelligenza distorta, diventano semplicemente una questione di
raddrizzamento dell’intelligenza e di chiarificazione mentale
Ciò
che è alla base di essi: inconscia paura di contaminazione sessuale, il fondo
di aggressività che si sente oscuramente minacciato, l’angoscia di essere
vulnerati e annullati da qualcosa che è altro da sé e contro di
sé, non sono neppure percepiti come esistenti.
La
battaglia della Klein, per rendere obbligatoria l’analisi psichica dei
bambini, non viene neppure presa in considerazione.
Si
vuoi forse proporre qui la teoria dell’infanzia come negazione della
segrega?ione e del pregiudizio razziale?
Goodman
trova paradossale che, verso gli anni ‘60, soprattutto i giovani americani,
sia bianchi che neri degli Stati del sud rivelino segni di rifiuto del
razzismo. Di più: “anche nelle grandi e piccole città del nord, i bambini
vengono a trovarsi al centro della crisi comunitaria di esclusione e di
pregiudizio, ma qualche volta come paceri. Eccone un esempio significativo. Si
e presa l’abitudine di usare le nuove scuole centralizzate come edifici
comunitari di riunione e di divertimento.
Ciò,
in parte, per motivi di economia. Ma si adduce anche un altro motivo, e cioè
che la scuola è la sola attività comunitaria che riunisce elementi
altrimenti discordi del rione; onde si spera che gli adulti possano trovare
nella scuola una via d’intesa.
È
una situazione curiosa che gli adulti debbano fare affidamento sui bambini,
perché abbiano senno per loro, e quando l’edificio scolastico è il
principale edificio della comunità.
Ma
è sempre meglio che nulla”[33]
In
tal modo, che i bambini possano esser paceri e i disgregatori della
segregazione e del pregiudizio razziale è, per Goodman, “una situazione
curiosa” che, comunque, “è sempre meglio che nulla”.
Qui
il sociologo e lo psicopedagogisra della gioventù assurda, ha mostrato,
ancora una volta, la chiusa parzialità del suo orizzonte umano.
Si
spiega, pertanto, come egli non avverta neppure, minimamente, l’unità del
problema della scuola materna e quello della scuola primaria e della scuola
media inferiore e, insieme, come non riesca a individuare il carattere di
classe e solo parzialmente socializzante e liberatore della tanto vantata
scuola unica del suo paese.
In
altri termini, Goodman accusa l’organizzazione politica ed economica del suo
paese, di “sprecare l’uomo”, ma non si accorge che, anche la scuola di
base, che egli difende, spreca l’intelligenza e le qualità emotive e morali
di buona parte dei fanciulli dei ceti e delle aree sottosviluppate del suo
paese.
Una
prospettiva, anche solo di studio, come quella utilizzata da Don Milani e dai
suoi scolari di Barbiana, non gli passa neppure per l’anticamera del
cervello. E, pertanto, è anche lontano dal sospettare che si possa
tecnicamente congegnare un diverso sistema di scuola unica, teso a combattere
i dislivelli di sviluppo intellettuale e morale, linguistici e culturali,
dipendenti da cause sociali, e, con ciò, realizzare una comunità
infantile e adolescenziale di base, oltre la quale possano differenziarsi
e selezionarsi i giovani e gli adulti. Senza quella effettiva comunità
di base, a che si riduce l’uguaglianza delle opportunità?
Anche
i pionieri dell’apprendimento precoce, pur partendo da una altra base, si
muovono nella linea sopra criticata.
I
pionieri dell’apprendimento precoce, scrive Maya Pines, vogliono offrire ad
ogni bambino, la possibilità di sviluppare al massimo le sue capacità. Le
loro tecniche non creeranno l’uniformità, ma la massima varietà fra gli
uomini.
Se
esse avranno successo, i bambini appartenenti alle classi sociali privilegiate
andranno ben oltre la media di preparazione da essi raggiunta, mentre i
bambini delle classi più povere, non saranno più soffocati, prima di
riuscire ad imparare qualcosa[34].
L’opposto
di ciò che si doveva dimostrare!
La
Pines è una militante del movimento per la scoperta dell’infanzia ed ha
affiancato l’opera della pioniera della riscoperta della Montessori, in
U.S.A., la Rambusch, con un libro: Revolution in Learning - Rivoluzione
nell’apprendimento; Dalla nascita ai sei anni, che può ben prendere
posto accanto al libro della stessa Rambusch: “Learning How to Learn” -
An American Approach to Montessori.
Anche
per la Pines e per la Rambusch la ricerca scientifica, che presidia il
molteplice impegno per il rrimissimo apprendimento dei bambini, mentre, sul
piano pratico, parte dalla Montessori, rinnovandola in nuove direzioni, sul
piano teoretico si richiama a Piaget a Vygotsky e agli psicologi J. Bruner,
Benjamin Boom e soprattutto a J. Mc V. Hunt. Comunque, il movimento per la
scoperta dell’infanzia non fa che radicalizzare l’attenzione di assistenza
e di studio data egregiamente da molto tempo dagli americani all’infanzia ed
è coevo con una nuova albeggiante configurazione di una nuova paternità e,
cioè, della figura del padre che non dimentica più i suoi bambini per il
lavoro e gli affari ma che trova anche il tempo e la gioia di vivere accanto
ai suoi figli, perfino o Soprattutto dalla nascita ai sei anni.
Probabilmente,
l’attuale movimento per la scoperta dell’infanzia in U.S.A. é uno dei più
alti segni di civiltà offerto nei nostri tempi. Con tutto ciò, è indubbio
che il movimento anzidetto per quel tanto che mette capo alle conclusioni
sopra citate della Pines, lungo il suo cammino e alla sua conclusione, ha
perduto o sta per perdere buona parte della sua carica rinnovatrice.
In
certo modo, rovesciando i termini, é lo stesso giudizio che si può formulare
per la ricerca sulla gioventù assurda di Paul Goodman: discreta a
livello dell’adolescenza, del tutto vuota a livello dell’infanzia.
In
questo secondo dopo guerra, la società e la cultura negli U.S.A. non hanno
solo avvertito l’estinguersi del movimento della educazione progressiva, ma,
nel contesto di nuovi problemi e impegni interni ed internazionali. sono state
sollecitate a riesaminare il loro sistema educativo e le connesse dottrine
scientifiche e filosofiche.
Eminenti
scienziati e i migliori centri universitari si sono posti a riesaminare le
metodologie degli insegnamenti scientifici anche di più alto grado, per
ridurli a versioni psicopedagogiche, idonee perfino alla assimilazione dei
fanciulli dai cinque ai dieci anni e oltre.
Libri
di testo e quaderni di apprendimento e di insegnamento, formulati dalla
collaborazione di matematici, fisici, biologi, psicologi, pedagogisti e
insegnanti e, quindi, provati e verificati nelle scuole rappresentano un punto
avanzato, oggi, della psicopedagogia americana. E così pure lo stesso impegno
di introdurre, nelle scuole stesse, macchine per insegnare e per visualizzare
e procedure tecnologiche per agevolare e universalizzare l’apprendimento,
sia tecnico-scientifico che letterario è un altro punto all’attivo, se si
limita a non strafare.
Gran
parte di questo orientamento, che punta verso una rivoluzione nello
insegnamento e nell’apprendimento, avviene, per lo più, all’insegna di
uno strutturalismo funzionalistico psico-pedagogico, che investe
tutte le discipline dalla matematica alla linguistica, dalle scienze fisiche e
biologiche agli studi letterari. Ma, con quanto sopra, si opera solo un
rinnovamento metodologico che lascia impregiudicato il rapporto fra
scuola e società, società fanciulla e società adulta, mentre non riesce a
trovare neppure, ad esempio, formule nuove per i rapporti tra scuola materna e
scuola primaria e in particolare per la scuola di base unica, che è poi la
base, già selezionatrice e di classe e di razze diverse, di tutta
l’ulteri6re scuola e società degli adulti.
D’altro
canto, a che giova anche un tentato rinnovamento dell’università o della
scuola media superiore, ove si prescinda dalla scuola di base?
Con
quale coerenza, allora, impostare la lotta, contro lo spreco delle qualità
umane? Paul Goodman, nel suo libro sopra esaminato, delinea il seguente
cammino della società e cultura in U.S.A., a partire dai primi anni del
secolo ventesimo: James col pragmatismo, Dewey con lo strumentalismo, Veblen
con il tecnologismo miravano ad abbattere gli abusi e i miti della classe
dominante: baroni ladri, la cupidigia predatoria, la cultura, la morale, la
religione formale e di casta; miravano a colpire i valori della cultura
classica della Grecia, fondata sulla schiavitù, anche in quanto simbolo della
cultura della classe oziosa; in contrapposto a ciò, valorizzavano il gruppo
nascente dei tecnici, degli amministratori scientifico-sociali e della
manodopera organizzata, in vista di una produzione abbondante, nel clima di
una recuperata armonia sociale, ispirata a effettive virtù pratiche e a una
vita più onesta, nel quadro di una cultura popolare unica e di una
scuola di base, del pari, unica.
Che
cosa è stato realizzato? Qual’è stato il punto di arrivo del pragmatismo
di James, dello strumentalismo di Dewey e del tecnologismo di Veblen?
Si
è realizzato, risponde Goodman, “proprio ciò che essi non volevano: un
mondo astratto e disumano, un’economia inutile, un sistema di caste, un
pericoloso conformismo, passatempi banali e basati sulle mere sensazioni”[35](
Questa
amara, quasi cinica valutazione non può essere condivisa, da chi esamini con
più distacco anche la contemporanea società e cultura negli U.S.A. I quali
costituiscono, tuttora, uno degli eventi storico-politici più significativi
di tutto l’Occidente.
Il
pessimismo di Goodman, come di tanti altri studiosi sociali americani e
stranieri, può servire solo a temperare le opposte assolutizzazioni della
civiltà americana. In questo quadro, si comprende come gli U.S.A., pur
essendo saliti alla con direzione del mondo, abbiano ancora bisogno di dare
e di ricevere, specie in ordine alle visioni del mondo e alla
cultura, come, del pari, hanno bisogno di dare e di ricevere gli altri
paesi, che vivono nella loro orbita o in un orbita ad essi avversa.
In
particolare, per quanto riguarda l’Italia, gli U.S.A. hanno avuto ed hanno
1a capacità di insegnare talune cose specie sul piano della produttività e
tecnologia, con i computer all’avanguardia; hanno assolto anche il compito
di offrire talune sollecitazioni vive e rinnovatrici in ordine alle scienze
dell’uomo. Ma in questo insieme, essi pure hanno avuto ed hanno seri motivi
e ragioni di riscoprire, ad esempio con Pareto, anche Giambattista Vico come
la stessa Montessori, come tanti altri grandi spiriti e eventi dell’Europa.
Ed è, comunque, proprio per l’insegnamento più profondo della Montessori
che si può formulare, oggi, in Italia, fra l’altro, una risposta
integrativa alla stessa psicopedagogia americana.
Concludiamo,
finalmente, con un richiamo rapido a più urgenti e più immediate situazioni
problematiche della Repubblica Stellata.
In
U.S.A., le rivolte dei negri e dei gruppi più diseredati, il disagio dei più
poveri e dei prossimi condannati alla disoccupazione tecnologica, la fuga
dalla società e dalla realtà di larghe schiere di giovani e la rivolta di
notevoli gruppi studenteschi propongono, dunque, una nuova organizzazione
educativa per l’infanzia e per l’adolescenza, e, al polo opposto, (con una
nuova organizzazione culturale per la società degli adulti, specie messi a
riposo in numero crescente dall’automazione tecnologica) una umanizzazione
della intera società degli adulti. Ma, con quanto sopra, richiedono, anche,
una nuova dialettica fra società dei fanciulli e dei giovani e società degli
adulti; fra il concetto della storia come lotta di classi, gruppi e
tradizioni, e il concetto del la storia come conflitto e consensi di
generazioni, rapporto fra coetanei e contemporanei.
Una
mancata equilibrazione di queste forze antinomiche potrebbe essere esiziale
per gli uomini del nostro tempo. Il che, se è vero, vale per gli Stati Uniti
d’America, come per gli altri paesi del mondo.
Riprendiamo
i concetti, dianzi essenzializzati e cerchiamo di esplicitarli.
Trasferito
sul piano della ricerca scientifica, quanto sopra giustifica la necessità di
oltrepassare le sociologie e le psicopedagogie centrate soltanto sulla società
degli adulti oppure soltanto sulla umanità dei fanciulli e dei giovani, per
dar vita e vigore ad una sociologia e pslcopedagogia di campo, strutturato
nella dialettica esistenziale bipolare di “consenso” e “dissenso”,
“tradizione” e “innovazione”, “costanza della ragione come storia”
e “avvento della fantasia” come continuo appello al “possibile” e
all’“invenzione”. Campo, in breve, esistenziale e storico, come
convergenza di sistema e antisistema, dialettica antinomica di coetanei e di
contemporanei. in breve, come dialettica antinomica di positiva umanità e
società infantile e giovanile di positiva umanità e società degli
adulti.
In
sintesi: se l’infanzia e la gioventù hanno ragione di salire in primo piano
come soggetto creativo di valori finiti e come oggetto di offerta da parte
degli adulti, e se ciò comporta la morte del padre autoritario, ciò, per
contro, non autorizza affatto l’uccisione di ogni altra figura del padre.
Questo, infatti, significherebbe l’elisione della società adulta e, cioè,
l’annullamento di quel collettivo cumulativo di esperienze vitali e
culturali, senza cui l’infanzia sarebbe perenne barbarie; significherebbe la
perdita di quella segreta offerta dei padri verso i figli che. per quanto
drammatica e contraddetta. è pur sempre alimento vitale ed essenziale per la
vita e la crescita dei figli.
Significherebbe,
in sostanza. l’atrofia o la scomparsa più che assurda di un polo essenziale
nella dialettica delle generazioni e delle società e, pertanto, la stasi e
infine la morte della stessa civiltà.
La
morte del padre appare, pertanto. come uno dei rischi più gravi che incomba
sulla civiltà occidentale.
Altrove,
la negata autonomia dell’infanzia o della gioventù e l’aspirazione alla
morte del figlio. in quanto contestatore, potrebbe portare, insieme alla stasi
autocratica della società dei padri, a un diverso ma non meno grave
congelamento della stessa civiltà.
(Da Mazzetti R. (a cura di) , Scoperta dell’infanzia e nuove prospettive dello sviluppo dell’uomo, Edizioni Beta, Salerno, 1970).
Si
ringrazia Antonio Martino per la versione digitale del testo.
[1]
Etudes de pshysiologie comparé, Paris 1958-’59.
[2]
Presses universitaries de France Paris, 1967.
[3] A. Armando, Roma, 1969.
[4] H. Pieron, L’avventura umana, A. Armando, 1969, pag. 159.
[5]
Op. cit. pag. 159.
[6]
R. Buckminster Fuller “Prologue” al libro: The Casé for Early
Reading, di Georg L. Stevens e R. C. Orem; Warren H. Green, Inc; St.
Luis, Missouri, U.S.A., pag. VII.
[7]
Curata da Joe L. Frost, per la Holt, Rinehard and Winston Inc. New York,
1968.
[8]
New York, Vintage, 1960.
[9]
New York, Ronald, 1961.
[10]
New York, Wiley, 1964.
[11]
Schcken Books, New York, I ed. 1964, pagg. XI-XXXV.
[12]
Introduction by J. Mc V.
Hunt, a “The Montessori Method” Schocks, New York, I ed. 1964.
[13]
A cura di R. C. Orem, Capricorn Books, New York, 1968.
[14]
Maya Pines, op. cit., pag. 267.
[15]
W. B.Saunders Company, Philadelphia and London, 1961.
[16] A. Armando, Roma, 1969.
[17] Edizione Beta, Salerno, 1969.
[18] V. A. Ronco, “Personalità e educazione secondo G. W. Allport” in “Orientamenti Pedagogici”, n 4, 1969, pagg. 784 – 785 e più specificatamente: G. W. Allport, “Psicologia della personalità”, traduzione italiana Pas-Verlag, Zürich, 1969, pagg. 235-262.
[19] Einaudi Editore, 1964.
[20] P. Goodman, La gioventù assurda, traduzione italiana, Einaudi, Torino, 1964, pag. 225.
[21] Ivi, pag. 212.
[22] Ivi, pag. 230.
[23] Ivi, pag. 123.
[24] Ivi, pag. 122.
[25] Ivi, pag. 95.
[26] Ivi, pag. 220.
[27] Ivi, pag. 220.
[28] Ivi, pag. 89.
[29] Ivi, pag. 151.
[30] Ivi, pag. 151.
[31] Da P. Goodman, op. cit., pag. 94.
[32] Ivi, pag. 120.
[33]
Ivi, pag. 121.
[34]
Maya Pines, op. cit., pag. 280.
[35]
P. Goodman, op. cit., pag 89.