Il bambino risolve i problemi
Intervista a
Michael Resnick
(Da Computer valley, supplemento del quotidiano La Repubblica, 11 dicembre 1997)

Michael Resnick, quarant'anni, una laurea in fisica, un dottorato in informatica e un passato di giornalista scientifico, oggi è professore al prestigioso Media Lab del MIT dove dirige un composito gruppo di psicologi, di pedagogisti, di informatici e di studiosi di divulgazione scientifica. Le sue ricerche sono generosamente finanziate dalla Lego, la casa di giochi danese universalmente nota per i suoi mattoncini. Resnick è infatti internazionalmente conosciuto per i suoi progetti di giochi intelligenti. Abbiamo incontrato Resnick a Milano in occasione di una esposizione presso il Museo della scienza e della Tecnica di alcuni suoi prototipi.

Quale è l'idea alla base delle sue proposte di "giocattoli per pensare"?

Negli Stati Uniti si dice che se una persona ha un martello, tutto il mondo gli sembra un chiodo. Io credo che questo modo di dire contenga una verità: gli strumenti a nostra disposizione condizionano il modo in vediamo il mondo e soprattutto il modo in cui riusciamo a organizzare le nostre esperienze, a dare un senso al mondo intorno a noi. Al Media Lab stiamo cercando di sviluppare una nuova generazione di giochi didattici e vogliamo capire come fornire ai bambini di cinque anni degli strumenti che aiutino non solo a poter fare più cose, ma soprattutto a comprendere meglio il mondo.
In generale io sono convinto che le migliori condizioni per l'apprendimento si hanno quando il bambino è aiutato a formulare dei problemi, a individuare una strategia per risolverti, a creare degli strumenti per affrontare una situazione problematica.
Al Media Lab siamo concentrati nel progettare strumenti che permettono a un bambino di inventare cose, di pensare in modi nuovi, di progettare i propri strumenti.

Quali sono le difficoltà principali che dovete superare?

Ovviamente vi sono difficoltà tecniche. L’hardware, i microchip in vendita non sono progettati per gli usi che ci interessano.
La difficoltà principale, però, non è nella realizzazione tecnologica, ma nel coinvolgere il mondo degli educatori - insegnanti, genitori - a pensare all'educazione in modi nuovi.
L’opinione corrente sembra essere che l'educare sia soprattutto un trasmettere delle informazioni.
Qualcuno o qualcosa fornisce delle informazioni al bambino ed è cosi che il bambino impara.
Io credo però che il trasmettere informazioni, anche quando queste sono importanti e ben organizzate, sia solo un aspetto dell'educare, e non il principale.
Il nucleo importante deve essere nell'aiutare il bambino a scoprire, esplorare, inventare, progettare, porre problemi e pensare a come trovare delle risposte.

E il computer ha la capacità di aiutare in tutto questo?

Sì, ma dipende da come è usato.
Quando pensiamo di portare i computer nella vita di un bambino, se il modello rimane quello della trasmissione di informazioni, allora non avremo grandi cambiamenti.
Chi crede che abbiamo bisogno di significative innovazioni nelle nostre scuole e nell'educazione dei nostri bambini, non deve pensare che di per sé i computer o le reti siano la soluzione.
Ad una conferenza a cui ho partecipato uno degli oratori, molto eccitato per Internet, ha sostenuto che oggi potremmo selezionare i migliori insegnanti del paese e grazie alla rete permettere a migliaia di studenti di seguire le loro ottime lezioni. Un'idea particolarmente stupida: come potrebbe uno studente alzare la mano e chiedere un chiarimento?
Educare non è solo fornire la migliori informazioni, ma interagire con lo studente.
Eppure molti si entusiasmano perché ogni studente potrà trovare ogni informazione che vuole in un qualche sito, magari dall'altra parte del mondo.
L’idea che imparare è trovare l'informazione giusta è sbagliata. Significa persistere nella concezione dell’educazione come trasmissione di informazione, allora la connessione non vale la spesa.
I computer però possono aver un ruolo importante, anche decisivo, per realizzare una scuola dove si impara esplorando, inventando, progettando.
Io sono convinto che con le nuove capacità computazionali possiamo ampliare notevolmente l'ambito dei concetti che un bambino può comprendere grazie ad un processo di scoperta diretta.
Per esempio, gli usuali mattoncini Lego sono utili per aiutare a riflettere su come, per esempio, una casa composta di muri, un tetto, delle porte; ovvero a far riflettere sulla struttura degli oggetti. Con i nostri giocattoli cerchiamo di creare strumenti che aiutino a capire come gli oggetti interagiscono con l'ambiente, come si reagisce a un input. La nostra speranza è creare strumenti che inducano un bambino a riflettere su concetti come quelli di movimento, comportamento, azione, concetti non facili.

Negli Stati Uniti sembra essere comune l’opinione che i problemi dell’umanità saranno risolti dallo sviluppo tecnologico. È una falsa impressione?

È un’impressione giustificata perché è di fatto un atteggiamento diffuso. Ci sono diversi modi di usare la tecnologia, con differenti risultati. Noi tutti abbiamo bisogno di modi più articolati, più ricchi di pensare a come usare la tecnologia. Nella scuola questo è particolarmente vero.

Qual è quindi la sua immagine della scuola del futuro?

La domanda giusta è qual è la nostra immagine dei bambini del futuro. Negli Usa si parla molto di "life long learning", di educazione permanente. Io vorrei parlare di "day long learning", di come l’educazione di un bambino non può essere limitata al tempo della scuola.
Il bambino impara in ogni momento, e dobbiamo creare un ambiente che impegni a sperimentare, esplorare, inventare, e così a imparare.
Sappiamo che un bimbo impara toccando, mettendo in bocca, esplorando.
Ma improvvisamente quando un bambino va scuola, l'imparare diventa uno stare seduti ad ascoltare.



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