UNA SCUOLA PER STAR BENE

di Umberto Tenuta

 

Scrive il Tartarotti che <<Il fenomeno droga assume il significato di espressione meramente sintomatica...di una condizione di disagio e di malessere degli individui (giovani e non) e delle comunità.>>.

Lo stesso autore aggiunge che da qui nasce l'ipotesi, oggi prevalente, che <<per prevenire la tossicomania è necessario prevenire il disagio, ed in particolare agire strategicamente nella prospettiva di produrre condizioni di agio piuttosto che limitarsi a combattere qualcuno tra i sintomi che ne segnalano l'assenza>> (1).

Queste affermazioni del Tartarotti sembrano estremamente significative del ruolo che la scuola è chiamata a svolgere per prevenire, più che combattere, il fenomeno delle tossicomanie, e quindi per educare alla salute.

IL RUOLO DELLA SCUOLA

Al fine di meglio chiarire il significato dell'azione che la scuola può svolgere in ordine alla prevenzione delle tossicomianie, è opportuno riconsiderare innanzitutto il ruolo con il quale l'istituzione scuola è nata.

In merito, è noto che l'uomo non nasce tale, ma realizza la sua umanizzazione mediante l'educazione, da intendere come l'esperienza attraverso la quale egli si appropria della cultura che gli uomini hanno creato, non solo acquisendo conoscenze ed abilità, ma anche e soprattutto sviluppando modi di essere, atteggiamenti, valori. L'uomo è creatore e prodotto della cultura, intesa antropologicamente come complesso di conoscenze, di abilità, di tecniche, di valori, di modi di essere, di atteggiamenti, cioè di tutto ciò che rende l'uomo tale.

Questo processo di inculturazione, e quindi di umanizzazione, si realizzava all'inizio solo attraverso le interazioni sociali.

Quando la cultura si è fatta complessa ed articolata, l'ambiente sociale non risultò più sufficiente e si avvertì l'esigenza di creare un'istituzione apposita che contribuisse alla realizzazione del processo di inculturazione e quindi della formazione dell'uomo.

La scuola è nata così con la finalità di integrare il processo di formazione dell'uomo, la quale, come è ben noto, oltre che nella scuola, continua a realizzarsi, seppure non totalmente, anche nella società tutta, in particolare nella famiglia, almeno nei primi anni di vita.

Tuttavia, nell'età moderna, pervasa dall'ideologia illuministica, il compito della scuola è stato riduttivamente limitato alla sola dimensione intellettuale, del sapere: la scuola viene intesa come istituzione deputata esclusivamente alla trasmissione del sapere, alla formazione cognitiva.

Questo orientamento arriva sino ai nostri giorni, per cui ancora fino a ieri si era largamente convinti che scopo della scuola, a qualsiasi livello, non fosse quello di contribuire alla formazione complessiva della personalità, cioè di educare, ma solo quello di trasmettere il sapere, concependo la cultura in senso riduttivo come puro e semplice insieme di conoscenze, che rigurdano la sola sfera intellettiva della personalità, e non anche quella affettiva, emotiva, morale, sociale, religiosa ecc.

Si pensi come, in tal senso, nella scuola di ogni ordine e grado, le discipline che ancora oggi hanno maggiore considerazione sono quelle cosiddette umanistiche (!), quali l'Italiano, il Latino, la Filosofia, la Matematica ecc., e come invece siano considerate di scarsa importanza l'Educazione motoria, l'Educazione musicale, l'Educazione artistica ecc.

La scuola pone attenzione soprattutt alle conoscenze, alle nozioni, al cogniotivo; anche quando non scade nel nozionismo, essa si prende quasi esclusivamente cura della mente, trascurando le altre dimensioni della personalità, tra cui quella emotivo-affettiva e relazionale: l'alunno sta a scuola solo con una parte di se stesso, quella cognitiva; l'altra, quella legata ai suoi sentimenti, ai suoi bisogni sociali, alla sua corporeità rimane fuori o almeno non viene presa in considerazione.

Ciò che importa è il complesso delle conoscenze che egli acquisisce; nelle migliori situazioni si dà importanza anche alle sue capacità intellettive; ma il resto è secondario, se non insignificante.

La scuola istruisce, quando istruisce, e forma le capacità mentali, quando le forma; ma essa non educa.

Si dice anzi che essa non deve educare, perché si ritiene che il compito di educare spetti alla famiglia, ad altre istituzioni, ma non alla scuola.

Questo discorso è stato enfatizzato negli ultimi decenni, anche in buona fede, con tutte le migliori intenzioni, soprattutto al fine di evitare ogni indebito indottrinamento morale, sociale, religioso, politico ecc.

Non possiamo in questa sede affrontare tale problematica. Ci basti averla solo evidenziata.

Però, dobbiamo prendere atto di una situazione di fatto, e cioè che, mentre si afferma che la scuola non deve educare, poi, da tutte le parti, alla scuola oggi si chiede di curare l'educazione stradale, l'educazione ecologica, l'educazione alla pace, l'educazione alla salute, l'educazione alla legalità ecc. ecc.

Esiste una emergenza educativa!

La famiglia non svolge più --o non è più nella condizione di svolgere-- quel ruolo educativo che la caratterizzava nel passato.

La società si è fatta complessa, articolata, anche confusa, se vogliamo.

Nella società post-industriale, post-moderna, prevale il pensiero debole.

Sono venute meno molte certezze, in ogni campo; c'è una situazione di disorientamento.

Gli effetti di tale situazione stanno sotto i nostri occhi: gli incidenti mortali sulle strade; il degrado dell'ambiente; la devianza minorile, la droga...!

Per uscire da questo stato di cose, tutti sono d'accordo: non si può non fare appello alla scuola!

Ma quale ruolo la scuola può svolgere?

La tentazione è quella dell'intervento specifico: la scuola continua a svolgere i suoi compiti tradizionali di trasmissione del sapere e, in più, in aggiunta, come sovrappiù, per venire incontro alle emergenze, cura l'educazione stradale, l'educazione ecologica, l'educazione europea, l'educazione alla pace, l'educazione alla salute, l'educazione alla legalità...

Muovendosi in tale prospettiva, c'è innanzitutto il rischio che la scuola si sovraccarichi di tali e tante educazioni che le impediscano poi di svolgere quello che viene ritenuto, a torto o a ragione, il suo compito essenziale: ne consegue che molto spesso tali compiti vengono di fatto scarsamente presi in considerazione, malgrado tutti i gruppi di studio ed i "referenti" previsti dalle circolari ministeriali.

Tuttavia, oggi, dinanzi all'emergenza droga, tutti avvertono che la scuola non può non assumersi le sue responsabilità: la droga mina alle basi la personalità dell'allievo, distruggendolo anche sul piano cognitivo.

Che fare, dunque?

La prima lezione che viene dalle esperienze più o meno recenti maturate in materia è che gli interventi della scuola in tali campi, con particolare riferimento all'educazione alla salute, non possano essere integrativi ed eccezionali.

L'educazione alla salute, nell'ambito della quale possono essere fatte rientrare la prevenzione, non solo delle tossicomanie ma anche della devianza, della dispersione ecc., non può costituire un insegnamento aggiuntivo, da affidare magari ad un insegnante specializzato.

Se dinanzi a tali problemi si riconosce l'esigenza che essi vadano prevenuti più che combattuti, allora essi vanno affrontati in quanto manifestazioni del disagio che sta alla loro base: non si tratta di curare i sintomi ma le cause del malessere che affligge la società e soprattutto i giovani, e che molto spesso porta a tali forme di comportamento.

In tale prospettiva, occorre prendere consapevolezza che droga, devianza ecc. sono modalità distorte attraverso le quali gli individui cercano la loro autorealizzazione.

Ogni essere vivente aspira ad autorealizzarsi: è questa la forza più potente che governa la vita, a livello vegetale, animale ed umano, dal filo d'erba che tenta di liberarsi dalla compressione del masso, cercandosi una via di uscita per raggiungere la luce, all'animale malato che va alla ricerca dell'erba medicamentosa, all'individuo umano che cerca la sua realizzazione nel mondo illusorio della droga o in quello del crimine.

Il rimedio sembra a portata di mano: se ogni individuo aspira prepotentemente alla sua autorealizzazione, occorre fare in modo che questa si attui secondo quelle che vengono ritenute le più consone alla natura dell'uomo!

Ed allora non c'è istituzione più idonea al conseguimento di tale finalità che la scuola, la quale nasce, come abbiamo accennato, con il compito specifico di contribuire alla formazione dell'uomo.

La scuola deve recuperare quella che era la sua fondamentale finalità formativa. Non può limitarsi ad essere dispensatrice di sapere ¾ compito peraltro che oggi viene svolto, forse con risultati più soddisfacenti, dai mass-media¾ , ma deve riappropriarsi soprattutto della sua finalità educativa.

La scuola deve educare!

E' questo un suo compito istituzionale, ma è questo anche la condizione della sua sopravvivenza.

In merito, è opportuno precisare subito il significato dell'"educare". Dicendo che la scuola deve educare, non si vuol certamente dire che la scuola deve indottrinare i giovani, condizionandone le scelte morali, politiche, ideologiche, religiose ecc., come pure si potrebbe pensare.

Se la scuola, in determinate epoche storiche ed in determinate situazioni politiche, ha operato così, ciò non significa che questo sia l'unico modo di svolgere il suo compito educativo.

A questo livello non sarebbe legittimo parlare di educazione dell'uomo.

L'educazione è, come affermava il Dottrens, processo di liberazione, processo attraverso il quale il figlio dell'uomo esce dal regno dell'istinto ed entra nel mondo della ragione, conquistando la libertà.

Se l'educazione non consiste nel condizionare i modi di essere e di comportarsi degli allievi, ma è processo di liberazione, è aiuto alla conquista personale della propria originale espressione umana, di cui nessuno può essere deprivato, allora non solo non si deve temere che la scuola educhi, ma si deve riconoscere che questo è il suo fine essenziale e che solo educando la scuola giustifica la sua presenza, soprattutto nel mondo d'oggi.

In tale prospettiva, l'urgenza del problema salute, droga, devianza ecc. deve indurre gli operatori scolastici, più che a mettere in atto programmi di interventi specifici, soprattutto a riconsiderare i compiti istituzionali della scuola, volti alla formazione dell'uomo e del cittadino, e solo in quanto tali, volti alla formazione professionale.

Dire che la scuola deve contribuire alla formazione dell'uomo, del cittadino e del lavoratore significa affermare che la scuola deve aiutare i giovani nel loro personale impegno di autorealizzazione umana.

Ogni giovane è un candidato alla condizione umana: a farsi uomo.

E' questo un suo diritto, universalmente riconosciuto, nelle Carte internazionali dei diritti dell'uomo e del fanciullo, oltre che nella Carta costituzionale italiana.

La società, la famiglia, la scuola hanno la responsabilità di aiutare ad attuare questa autorealizzazione umana.

La scuola deve contribuire a questa impresa personale, propria di ogni soggetto, considerato nella sua irripetibilità, in collaborazione con la famiglia e con la società tutta, ma assumendosi la propria, irrinunciabile, doverosa, istituzionale, responsabilità.

In tal senso, va riconsiderato il quadro complessivo dei compiti educativi e culturali della scuola, nell'ambito di una programmazione educativa e didattica complessiva, non parziale e settorializzata, mirante alla formazione integrale della personalità, considerata nella molteplicità dei suoi aspetti costitutivi.

La scuola deve aiutare l'allievo a realizzarsi come persona intera, non dimidiata, deprivata di alcune delle sue dimensioni costitutive, siano esse quelle intellettive o quelle affettive, corporee, sociali ecc.

L'uomo è una realtà complessa, articolata, comprensiva di aspetti diversi ma interconnessi, interagenti, che gli consentono di operare come una realtà unitaria, come un tutto. Quando questa unità non viene garantita, la personalità risulta squilibrata, dissociata, incapace di esprimersi nella sua costituzionale natura umana.

In tal senso, gli psicologi parlano di concezione olistica della personalità.

Questa considerazione vale su due piani, peraltro interconnessi: l'uno riguarda l'impossibilità che le diverse funzioni della personalità operino separatamente; l'altro, la necessità che la formazione dell'uomo sia completa, e non limitata solo ad alcuni suoi aspetti.

Non è possibile l'attività intellettiva senza quella affettiva e sociale.

Il Montuschi utilizza la significativa espressione di intelligenza affettiva.

L'attività cognitiva non può non essere motivata, ha bisogno di trovare nell'affettività la sua energia, la sua forza motivazionale.

Ormai tutti sono d'accordo che l'attività di apprendimento degli alunni, anche sul piano meramente cognitivo, si collega strettamente alla dimensione socio-emotiva ed affettiva della personalità e che i disturbi in tali campi compromettono o impediscono il conseguimento della conoscenza. L'alunno che presenta disturbi sul piano della sua affettività ed emotivatà o sul piano relazionale incontra difficoltà nell'attività di apprendimento, la quale pertanto non può essere rapportata semplicisticamente alle dotazioni intellettive, concludendo che l'alunno che non apprende è tout court poco dotato intellettivamente.

D'altra parte, però, occorre considerare che, se l'educazione deve assicurare l'autorealizzazione dell'individuo, questo non può non realizzarsi in tutte le sue dimensioni costitutive, da quella intellettiva a quella morale, sociale, affettiva, religiosa, corporea ecc., le quali pertanto assumono pari importanza sul piano dell'impegno educativo e culturale della scuola.

In tale prospettiva, l'alunno che frequenta la scuola va considerato nella sua interezza, nella molteplicità delle sue esigenze, dei suoi bisogni, delle sue dotazioni, delle sue possibilità formative, ed aiutato a realizzarsi nella sua integralità personale.

Solo questa completa affermazione, esplicazione, affermazione, realizzazione assicura all'individuo una condizione di benessere: il disagio nasce dalle difficoltà che si incontrano nella propria autoaffermazione personale. Il disadattato è colui che in una determinata situazione, quale può essere quella scolastica, avverte di non potersi esprimere, di non potersi manifestare, affermare, realizzare, in quanto il suo bisogno di autorealizzazione incontra delle difficoltà, più o meno consistenti.

Pertanto, la scuola assicura il benessere dell'alunno quando crea le condizioni perché egli si senta a suo agio avvertendo la possibilità di esprimersi, di affermarsi, di autorealizzarsi.

COMPITI DELL'INSEGNANTE REFERENTE

In tale prospettiva, i compiti dell'insegnante referente, non sono quelli di promuovere lo svolgimento di attività che vadano ad aggiungersi a quelle programmatiche, quale che ne sia la natura. Non si tratta di programmare nuovi contenuti o di promuovere nuovi impegni degli alunni, in aggiunta a quelli ritenuti istituzionali, quanto di riconsiderare l'azione che la scuola è chiamata a svolgere anche nella sua valenza educativa, oltre che culturale, in quanto finalizzata alla formazione integrale dell'allievo e quindi alla sua autorealizzazione personale.

Occorre riconsiderare la valenza formativa ed educativa delle singole discipline di studio, le quali non possono continuare ad essere concepite solo come repertorio di nozioni, più o meno importanti, di cui arricchire la mente, ma soprattutto come strumenti di formazione della personalità, come mezzi attraverso i quali l'allievo sviluppa, non solo la sua intelligenza, ma anche i suoi sentimenti, la sua vita affettiva ed affettiva, raggiungendo un sano equilibrio socio-emotivo, che si configura come una situazione di benessere personale e sociale.

A tal fine, vanno innanzitutto valorizzate tutte le discipline, anche e soprattutto quelle che la concezione intellettualistica dell'apprendimento porta non di rado a trascurare, come l'educazione motoria, l'educazione musicale, l'educazione artistica o le attività espressive in genere. Si pensi all'importanza che discipline, come l'educazione fisica e l'educazione musicale, avevano nel mondo greco-romano, quando ancora si aveva una visione integrale dell'uomo, non deprivato della sua dimensione corporea. Occorre prendere atto che l'uomo agisce, pensa, sente sempre nella sua interezza, per cui l'allievo sta nella scuola anche con il suo corpo, che si esprime con il movimento, con il gesto, con la voce, con il canto, con la musica, con le immagini ecc.

In tale prospettiva vanno viste anche le altre discipline, considerandole nella loro dimensione culturale e formativa e collegandole alla vita presente del giovane.

Ma ciò non basta, se non si opera anche un rinnovamento dell'organizzazione e dell'impostazione didattica della scuola.

Se la scuola ha come suo compito, non solo quello di istruire, ma anche quello di formare e di educare, non può configurarsi come luogo di insegnamento, che vede protagonisti i soli insegnanti, ma come ambiente educativo e di apprendimento, come ambiente di vita, del quale sono protagonisti allievi ed insegnanti assieme.

La normativa delegata del 1974 ha delineato un modello di scuola come comunità scolastica, che si realizza attraverso la partecipazione della comunità sociale e civica, ma anche attraverso la partecipazione dei giovani, non solo alla gestione della scuola, ma anche alla <<elaborazione>> della cultura ed alla <<formazione umana e critica della loro personalità>>.

Non si tratta di inventarsi nuove attività, di escogitare iniziative ed imprese le più diverse, quanto di dare piena attuazione a quelli che sono i compiti istituzionali della scuola, rendendo gli allievi coprotagonisti, assieme ai docenti, di quell'impresa --di cui non esiste una più importante--, che è la formazione della loro personalità, la loro umanizzazione, la loro autorealizzazione.

L'alunno non può essere il soggetto passivo della propria formazione umana, che non si realizza come un'opera di modellamento esteriore, ma come un processo di crescita che trova nel soggetto stesso il suo protagonista: non si può imprimere il sapere nella mente degli allievi, né si possono formare le sue capacità; l'azione didattica e educativa può solo stimolare la interiore attività del soggetto che riscopre il sapere ed interagisce con quanti gli stanno attorno, stabilendo relazioni affettive e sociali.

In tal senso, i giovani debbono diventare protagonisti dell'insegnamento/apprendimento e della propria formazione, partecipando attivamente alla progettazione, alla attuazione ed alla valutazione delle stesse: la scuola non può essere vissuta come qualcosa di estraneo, come un'imposizione, come una costrizione, ma come una esperienza di autorealizzazione.

In tale prospettiva, occorre far leva sul loro bisogno di crescita, di autorealizzazione, di autoaffermazione, stimolando la loro iniziativa, la loro partecipazione diretta, la loro progettazione, la loro responsabilità personale.

La scuola deve fare in modo che gli allievi si mettano a capo innanzitutto dell'impresa della loro formazione, muovendo dai loro bisogni, dalle loro esigenze, dai loro interessi, svolgendo una funzione di stimolo, di orientamento, di aiuto, di guida, senza mai sostituirsi a loro.

Gli insegnanti non possono presumere di insegnare, senza preoccuparsi che gli allievi desiderino apprendere: come scrive il Laeng, l'insegnamento deve configurarsi sempre come una risposta ad una domanda. Non c'è insegnamento dove non ci sono domande. Più che trasmettitore di sapere --ammesso che il sapere possa essere trasmesso!--, l'insegnante deve porsi come suscitatore, come scopritore di domande negli allievi.

Il problema degli interessi, delle motivazioni, è il problema fondamentale dell'insegnare: compito dell'insegnante non è tanto di insegnare quanto di suscitare negli allievi, in tutti gli allievi, motivazioni, interessi, desiderio di imparare.

Significativamente don Milani diceva: <<agli svogliati date uno scopo!>>.

Questa non è un'impresa impossibile, solo che la si voglia affrontare, e non si ritenga invece che le motivazioni allo studio costituiscano un affare privato dell'alunno, che riguarda semmai la famiglia, ma non la scuola, alla quale l'alunno deve arrivare già con il desiderio di imparare, sottoponendosi disciplinatamente allo sforzo che essa richiede.

Se questo atteggiamento viene superato e gli insegnanti avvertono che, in una prospettiva socratica dell'insegnamento, loro compito è quello di stimolare l'attività di riscoperta del sapere da parte degli allievi, allora essi non possono non muovere dalla conoscenza degli alunni, dei loro problemi, delle loro esigenze, dei loro bisogni, ponendosi in un atteggiamento di ascolto, di accettazione, di dialogo.

Senza retorica, possiamo dire che gli insegnanti debbono scendere dalla cattedra, per andare incontro ai giovani, ai loro problemi, ai loro bisogni: per conoscerli, per comprenderli, per aiutarli nel loro processo di crescita, di maturazione, di formazione, di autorealizzazione. Ogni giovane esprime una tensione alla vita, è una domanda di vita, alla quale l'insegnante non è chiamato a dare ma ad aiutare a cercare la risposta.

Questo il primo compito degli insegnanti: conoscere e comprendere gli allievi.

Ma non basta.

E' necessario conoscere gli allievi, tutti gli allievi, uno per uno, perché ciascuno di essi è una persona, un valore, un'irripetile ricchezza del mondo. Nessuno può essere trascurato, messo da parte, dimenticato, respinto.

Tuttavia, non è sufficiente conoscere gli allievi. Occorre aiutarli nel loro incoercibile bisogno di crescita, di umanizzazione, di autoaffermazione, di autorealizzazione: aiutarli e guidarli ad orientarsi, a mettersi a capo della costruzione e della realizzazione del proprio progetto di vita.

A tal fine, la scuola mette a disposizione, non solo gli strumenti culturali, ma anche le relazioni umane.

Primo, anche se forse non in ordine di importanza, il sapere: questo non ha importanza di per se stesso, ma soprattutto in quanto mezzo di formazione di capacità, di poteri mentali, di atteggiamenti, di sentimenti, di abilità. Ad esempio, lo studio di una poesia non ha come finalità l'ornamento della mente, ma la maturazione della sensibilità poetica. E così lo studio della Caduta dell'Impero romano non ha come finalità l'arricchimento (?) nozionistico della mente, ma la riscoperta delle origini storiche della propria cultura e quindi anche della propria personalità.

I giovani lamentano, molto spesso a ragione, l'astrattezza del sapere scolastico, la sua lontananza dai loro problemi, dai loro interessi.

Non hanno tutti i torti. La cultura è tale solo quando si collega alla vita, quando la storia del passato serve a comprendere la realtà del presente, quando la poesia del Leopardi si collega ai sentimenti che si vivono oggi...

Occorre che la cultura che la scuola trasmette sia meno astratta e più vicina alla vita di oggi.

Tuttavia, la scuola non può limitarsi a prendere in considerazione solo il sapere, ma deve porre attenzione anche alle altre dimensioni dell'esperienza umana, in particolare alle relazioni sociali.

La scuola non può non essere anche ambiente di vita: la scuola non può essere concepita come un mondo separato dalla vita, come la negazione della vita, quasi che, entrando in essa, i giovani possano dimenticare tutta la loro realtà esistenziale e lasciare spazio solo alla loro attività mentale. Il corpo, i sentimenti, i bisogni di affetto, di relazioni sociali ecc. non possono essere lasciati fuori della porta della scuola.

Se questo si chiede, la scuola risulta astratta, lontana dalla vita, e come tale spesso non accettata completamente o addirittura rifiutata, come testimonia l'assenza di interesse, la demotivazione, la scarsa applicazione allo studio, che spesso poi si traducono in scarso profitto, in insuccesso scolastico, in abbandono della scuola.

La scuola deve costituire anche un'esperienza di vita: essa occupa una gran parte del tempo dei giovani, durante il quale essi non possono rinunciare a vivere. In effetti, anche quando la scuola se lo è proposto, la scuola non è mai riuscita in questa impresa, perchà la vita, negata ufficialmente, è sempre entrata, di contrabbando, più o meno all'insaputa degli insegnanti, nella realtà della scuola, anche se, di necessità, in forme distorte o tali ritenute.

Si tratta di prendere atto di tale insopprimibile esigenza.

Gli alunni stanno a scuola con il proprio corpo, che ha le sue insopprimibili esigenze; stanno a scuola con i loro ineliminabili bisogni di comunicare; stanno a scuola con i loro vitali bisogni affettivi e sociali.

Occorre prendere atto di ciò e consentire che la scuola sia anche ambiente di vita:

· in cui i giovani comunichino, non solo con gli insegnanti, ma anche tra di loro, durante il lavoro scolastico, che non necessariamente e sempre deve essere lavoro solitario, individuale, ma può essere, è opportuno che sia, anche lavoro di gruppo;

· in cui i giovani stabiliscano relazioni affettive e sociali: la scuola è stata definita un vivaio di relazioni umane. Non si possono ignorare le dinamiche affettive e sociali della classe, dinamiche che coinvolgono gli alunni e gli insegnanti insieme.

In un tale contesto di vita, culturale e educativo insieme, i giovani debbono avere la possibilità di esprimersi, di formarsi, di realizzarsi.

Gli insegnanti debbono favorire questo processo.

In tale prospettiva, l'ambiente educativo e di apprendimento in cui la scuola si esprime deve risultare adeguato alle esigenze dei singoli allievi, in modo che ciascuno di essi si ritrovi a suo agio, in quanto incontra delle persone --compagni ed insegnanti-- che, non solo lo ascoltano e lo comprendono nelle sue esigenze, ma lo aiutano anche a trovare le risposte più adeguate alle stesse.

Come tale, l'ambiente di vita della scuola deve risultare innanzitutto gratificante: lo sforzo di quanti in esso operano non deve essere rivolto ad altri scopi, se non a quello di soddisfare le esigenze dei giovani. Solo così la scuola può essere vissuta come una esperienza non frustrante e come tale da evitare, anche attraverso la ricerca di altre esperienze ¾ quali che esse siano¾ ritenute più soddisfacenti.

Se il giovane sta bene in famiglia o a scuola, non va certamente alla ricerca di altre esperienze, come la droga, la strada, il crimine.

Se queste sono le esigenze, in tale prospettiva debbono muoversi tutti gli insegnanti della scuola e, in particolare, l'insegnante "referente", la cui attività, quindi, si rapporta strettamente a quella del Preside della scuola, al quale deve offrire la sua collaborazione, nell'impegno comune di realizzare una scuola che assicuri a tutti gli alunni quelle condizioni di benessere che rappresentano le migliore prevenzione dei fenomeni delle tossicomanie e della devianza giovanile.

La scuola può combattere i fenomeni che inducono i giovani alla ricerca di una vita falsa o illusoria solo se coltiva in essi la gioia del vivere, che si esprime anche nello studio, inteso in senso classico, non come costrizione, ma come amore del sapere e della vita: come cultura di vita.

 

1 TARTAROTTI L., Clima educativo e prevenzione primaria, in: SCUOLA VIVA, SEI, TORINO, n.VI-VII, maggio 1989, p. 27.