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Si cambia, così almeno ha comunicato il Ministero, dopo aver accantonato riforme e ipotesi di trasformazione decise dal precedente governo. Va in deposito – in attesa di dismissione – sia il portfolio sia il docente tutor della scuola elementare, solo per citare alcune delle svolte del nuovo corso. Ma il Ministro Fioroni ha anticipato una revisione generale dell’Esame di Stato, con un anno – questo – di stasi/consultazione diffusa, anche sull’onda delle quasi universali critiche e proteste del mondo della scuola per un sistema “istituzionale” di chiusura del percorso formativo dei giovani italiani, prima di accedere al mondo del lavoro (?) o all’università. L’Esame di Stato ha raggiunto livelli talmente bassi di credibilità che rischia davvero di far perdere alla scuola italiana quel residuo spessore – nel confronto con gli altri sistemi europei – che ci viene da un’antica e solida tradizione di cultura e di civiltà. Tra tutte le anticipazioni di una ipotizzata riforma ci soffermiamo, per il momento, sul sistema dei crediti e dei debiti; sistema che, in maniera palese o sotterranea, ha generato nelle scuole italiane un tale guazzabuglio di comportamenti applicativi che nulla hanno a che fare con il saggio principio dell’Autonomia scolastica, dal momento che le specificità o le “originalità” sono sempre da considerare adattamenti migliorativi o curvature di percorsi didattico-istituzionali e non travisamenti territoriali, dovuti all’incerta interpretazione della norma o alla scarsa conoscenza dei limiti delle opzioni o addirittura alla faciloneria partigiana di alcuni consigli di classe. Debiti e crediti che attraversano, non marginalmente, uno dei terreni più minati del sistema scolastico – la valutazione – su cui stabiliremo, più avanti, alcune riflessioni che, siamo sicuri – dato il clima – genereranno più conflitti che intese. Non vogliamo qui affrontare la spinosa questione delle carenze formative, denunciate dalle università a fronte delle richieste competenze di base, formalizzate dalle stesse sedi accademiche, e verificate come non possedute dalle stesse, a cominciare dal conoscere la lingua italiana e dal saper scrivere correttamente! Va innanzitutto fatta la premessa che una non improvvisata corrente di pensiero continua a sostenere che, prima di riformare l’Esame di Stato, si debba metter mano ad un vero – sempre tardivo – progetto di Riforma della scuola secondaria superiore, in nome del principio che, se un corridore è chiamato a tagliare il traguardo, deve sapere quali siano il percorso, le regole del tragitto e solo dopo – parte integrante delle due condizioni precedenti – dove sia l’arrivo e come sarà valutata la sua corsa. Aggiungiamo che, prima di mettere su strada una competizione qualsiasi, occorre preparare gli allenatori degli atleti (i docenti, nel nostro caso), dotandoli di quelle progressive competenze e abilità professionali, non valide una volta per tutte e mai più verificate sul campo; tanto per esser chiari, stiamo proponendo la formazione continua del personale della scuola e, perché no, la valutazione periodica della professionalità in situazione. Della vera Riforma del sistema scolastico, neanche l’ombra se non si fa riferimento ad alcuni coraggiosi e mortificati tentativi, tra gli anni Settanta e Ottanta, tra cui citiamo il Gruppo di Frascati e l’esperimento dei “Programmi Brocca” che pure non pretendeva, quest’ultimo, di essere “La Riforma” ma prepararla con rigore di metodi e di contenuti e imponeva una revisione critica e costruttiva del rapporto con gli obiettivi della formazione. L’accusa, rivolta ai “Programmi Brocca”, di fare riferimento a programmi ponderosi, veniva da chi non era sceso al cuore dell’ipotesi: spostare l’attenzione dalle “cose” alle persone della scuola, dai programmi alla programmazione, dai contenuti agli obiettivi di apprendimento, dall’efficienza (istituzionale) della didattica all’efficacia (sostanziale) della formazione della persona. Facendo, però, di necessità, virtù – come suol dirsi – trattare la questione dei crediti e dei debiti, nel modo in cui si annuncia da parte del Ministero (può darsi che siano filtrate notizie incomplete o imprecise), non ci sembra una soluzione encomiabile e proveremo a dimostrare la nostra tesi.
Il debito Per comune interpretazione il “debito” è formalizzato dal Consiglio di classe, su proposta del docente della materia d’insegnamento, a fronte di accertate carenze di contenuto, di metodo di studio, d’impegno, di partecipazione al dialogo educativo e, quindi, di risultati nella materia d’insegnamento rispetto al programma che si sta sviluppando. Prevalenti, in questo quadro didattico, risultano per lo più le carenze di contenuto, ulteriormente specificabili in lacune ed errori – più o meno gravi – rispetto alle conoscenze, alle competenze e/o alle abilità accertate nelle prove scritte, pratiche o nelle interrogazioni. Tali prove – se sono limitate alla verifica “intra moenia”, come avviene nella maggioranza dei casi nelle scuole italiane (e non si tiene conto anche degli “esercizi a casa”), si quantificano sì e no in tre interrogazioni e in tre compiti in classe. Nelle classi numerose o per quei docenti con limitato numero di ore d’insegnamento settimanale, il numero scende vistosamente. Se poi aggiungiamo che la scuola italiana, in genere, vive di sclerosi di tipologie di verifiche (interrogazione formale, compito scritto tradizionale), la concreta possibilità di accertare, nella vera sostanza, dove si vadano a collocare le cosiddette carenze è definizione davvero difficile e, in alcuni casi, soltanto “burocratica”. La conferma della limitata abitudine all’uso di forme alternative per l’accertamento delle conoscenze e delle competenze ci viene dal sostanziale fallimento della cosiddetta “Terza prova” dell’Esame di Stato; fallimento di cui pochi parlano e che sembra essere ancora riproposta. Se volessimo mimare il tragitto tra l’insegnamento e l’apprendimento di alcuni (molti?) docenti dovremmo così parcellizzarlo: Io spiego – tu segui – io commento – tu, se vuoi e sei capace, intervieni – tu studi a casa, facendo riferimento a quanto io ho spiegato in classe e a quanto trovi, sull’argomento, nel libro di testo; io interrogo e tu ripeti quello che io ho spiegato e hai appreso dal libro. Io ti valuto e metto un voto; decreto, sul panorama delle prove, se hai un deficit di apprendimento, cioè se solidifichi un debito. Una sorta di “catena di montaggio”! L’altro virus che attacca il sistema didattico italiano – nella scuola reale – è la cosiddetta “interrogazione programmata”: il docente soggiace, in questi casi, al ricatto dell’accordo-contrattazione (più o meno imperioso) secondo cui non può interrogare se non con preavviso e qualche volta persino concordando chi decida di sottoporsi a verifica. Non è raro il caso in cui, acquisito un voto positivo, l’alunno sfugge a successiva verifica, per “non rovinarsi la media”, con la tecnica delle assenze strategiche. Ultima, ma non più debole considerazione: sovente scatta nel docente una sorta di definizione di principio di qualità dell’alunno che, per il modo complessivo del suo porsi relazionale didattico, viene etichettato come “positivo”, “mediocre”, eccetera. La didattica, in merito, ha scritto fiumi di parole attorno all’effetto Alone e all’effetto Pigmalione. Come si esca da questo ginepraio è arduo enunciarlo; certo non incrementando i crediti e tanto meno elencando minuziosamente e capziosamente le tipologie di debiti. I docenti più avveduti – e ce ne sono tantissimi, nonostante le dicerie pessimistiche sulla scuola italiana – ritornano a riflettere soprattutto sulla relazione formativa alunno-docente, sul progetto di vita dei giovani, sulle prospettive d’impiego futuro non solo professionale delle conoscenze e delle competenze, ma soprattutto “esistenziale”. Il famoso “a che mi serve?”, pronunciato dai ragazzi a corollario del rifiuto a studiare certe materie e determinati argomenti, va sconfitto con un invito alla valutazione del sapere non tanto come utilitaristico impiego quanto come deontologico cammino non verso la facilità ma verso la felicità, cioè la realizzazione del proprio sé, come persona inserita nel proprio tempo e nello spazio del mondo, per la concreta possibilità d’inserimento professionale in un futuro non troppo lontano.
Le carenze e la relazione formativa Ci si consenta un salto argomentativo all’indietro: ma davvero crediamo che tutte le carenze degli alunni siano addebitabili al loro disimpegno e non anche a carenze di metodo didattico, di limiti espositivi, di routinaria abitudine alla spiegazione del docente? Se non vogliamo colpevolizzare d’ufficio il docente, perché colpevolizzare d’ufficio l’alunno? Si esce dalla condanna preconcetta, dell’una e dell’altra parte, solo sottolineando, con forte convinzione pedagogico-didattica, la relazione formativa: il docente ha il dovere di mettere in gioco tutta la sua professionalità, applicandola con flessibile saggezza a tutti gli alunni (uno diverso dall’altro) e, quindi, ha il diritto di verificare e ricevere il riscontro dell’apprendimento, convinto che gli alunni non imparano una volta per tutte e per sempre ma continuano ad apprendere per prova ed errore, con fasi di stabilizzazione delle conoscenze e delle competenze e fasi di problematizzazione delle stesse acquisizioni, anche sulla corsia tortuosa e sofferta della loro crescita umana, intellettuale-emotiva-fisiologica, concepita come un continuo rimettersi in discussione, con il fare della curiosità la strategia di un passo certo per il successivo, tutto da scoprire. Significativa, a tal proposito, la dichiarazione di Heidegger: “La grandezza dell'uomo si misura in base a quel che cerca e all'insistenza con cui egli resta alla ricerca”.
Il programma Vittime, nella distinzione dei ruoli, sia i docenti che gli alunni, continuano ad essere incatenati alla definizione quantitativa delle “cose” da imparare, codificate dal “programma da svolgere”. Si permane nella predica che la quantità è succedanea alla qualità; eppure si prende atto che oramai – con il potenziale di accesso alle notizie della enciclopedia internetiana – la scuola deve sempre più indirizzarsi verso l’insegnare ad imparare piuttosto che insegnare cose da imparare, facendo – di queste ultime – però – il basamento imprescindibile della curiosità di sapere e dell’abilità di cercare. Nella dialettica evidente delle due situazioni, ci si arrovella su quali siano i contenuti essenziali e le conoscenze e competenze di base da cui non si possa prescindere. Ma queste, prima di essere questioni per chi deve apprendere, sono questioni urgenti, pressanti e delicate per chi deve insegnare. E se non si scioglieranno con urgenza questi nodi, i debiti saranno sempre tanto numerosi, tanto non assolvibili e altrettanto non credibili. L’idea sclerotizzata delle conoscenze genera sovente, nei giovani, stasi mentale, diffidenza, apatia. La percorrenza del farsi delle conoscenze mette in moto curiosità, voglia di capire e di partecipare. Parafrasando una dichiarazione di Georges Canguilhem, riservata alla Filosofia, possiamo davvero affermare, per convincerci ad essere “flessibili” nell’insegnamento, che la conoscenza non è un tempio, ma un cantiere.
La comunicazione didattica Riproporremo, a questo punto, l’attenzione sulle tecniche di comunicazione didattica, già trattata in altri articoli sull’argomento. La scuola italiana soffre di forti carenze professionali sulla comunicazione didattica dei docenti. Il vecchio motto latino, “Rem tene, verba sequentur” (Catone il Censore), male applicato, ha generato tanti guasti producendo il convincimento deleterio che bastasse conoscere la materia per saperla esporre. Così, mentre la società mass-mediale, il mondo globalizzato dei sistemi di comunicazione hanno compiuto passi lunghissimi ed irreversibili, rispetto al ritardo cosmico della scuola, in classe si continua a “recitare la lezione”, persino a simulare – nei laboratori – con una staticità che fa apparire i docenti come marziani persino al più sprovveduto dei giovani di oggi che vivono a tale velocità di schemi rappresentativi ed iconici da mettere costantemente in forse la comprensione reciproca adulto-studente. Ma da dove nasce questo “artificio” del debito? Dall’abolizione degli Esami di riparazione, voluta dalla Legge 352/95: Niente più Esami a settembre, che prevedevano un verdetto sospeso di promozione ed obbligo di verifica delle insufficienze registrate a giugno, con prove suppletive dopo le vacanze estive per quegli alunni che, alla luce degli elementi di giudizio dell’anno scolastico, avevano fatto registrare lacune sia nelle conoscenze che nelle competenze. L’intenzione del Legislatore non era quella di eliminare la sofferenza delle prove d’esame quanto quella - sicuramente benemerita – di spostare l’attenzione dall’esame alla correzione del deficit, dal processo per colpa alla prevenzione. Chi volle questa abolizione? Un po’ tutti, persino le categorie interessate al turismo di massa che speravano in un prolungamento delle vacanze delle famiglie italiane, non più costrette ad un rientro accelerato per assicurare un minimo di studio ai figli “rimandati a settembre”. Forse non la gradirono gli addetti alle “lezioni private” che individuarono, nella sortita ministeriale, un colpo al reddito aggiuntivo nascosto e spesso cospicuo. Che poi a settembre ci fosse una “resa dei conti” non è vero: i dubbi di giugno si trasferivano a ridosso del nuovo anno scolastico e sovente si faceva slittare al dopo, all’anno successivo, la sentenza; tant’è che una delle espressioni più diffuse, nei giudizi intermedi sull’andamento didattico di alcuni alunni, era: “Manca di basi”; carenza che era stata registrata l’anno precedente e che sanciva una cronicizzazione del deficit scolastico. Bastò poco, infatti, per convincersi che i “debiti”, come triste eredità di insufficienza, traslata da un docente all’altro o lasciata allo stesso docente nell’anno successivo, finiva per consolidarsi come pesante carenza, tanto da diventare – in molti casi – dato stabile, fino al termine degli studi, con l’etichetta di “debito non assolto”. E’ vero che la norma stabiliva rigore per l’eventuale decisione di promozione, nell’anno successivo, se il debito non era colmato, ma quale Consiglio di classe ha voluto rischiare – a fronte del continuo ricorso alla Magistratura amministrativa o addirittura civile e penale – per promozioni non riconosciute a fronte di una sola, grave carenza, anche se in una materia “di profilo” (pensiamo, ad esempio, al Greco al Liceo Classico)? Un docente, con spirito di autoironia, ha fatto riferimento alle condizioni dell’infanzia di un tempo, sottoposta ad una specie di “selezione della specie”, con una forte mortalità infantile, rispetto alla gioventù odierna, che sopravvive, nonostante la debolezza costituzionale. Ma il prezzo si pagherà dopo, quando lacune consolidate peseranno nelle scelte universitarie future o in carenze definitive sul quadro culturale della persona.
Il Recupero. Significa, in buona sintesi, che il limite, la carenza, l’incertezza sono diventati coscienza critica della condizione dell’alunno che quindi decide di mettersi di buzzo buono per capire dove stia l’inghippo del suo incerto apprendere. Le strategie di recupero appartengono alla comunità scolastica secondo gradi di intervento, programmati con rigorosa cadenza di ruoli: Collegio dei Docenti, Consiglio di Istituto, Dipartimenti disciplinari, Consiglio di classe, Docenti delle singole materie d’insegnamento e, quindi, la classe e il singolo alunno. Il Collegio dei Docenti, facendo tesoro dell’esperienza dei Consiglio di classe, dove ogni docente espone aspetti positivi e situazioni negative nello svolgimento del programma della sua materia, e con l’aiuto dei Dipartimenti disciplinari, definisce un quadro normato per la valutazione didattica delle carenze (debito) e propone ai Consigli di classe strategie (tempi e modi) per il recupero. Il Consiglio d’Istituto formalizza il tutto in atto deliberativo, secondo i suoi compiti di massimo governo della programmazione della comunità scolastica. Sennonché tutte le buone o le ufficiali dichiarazioni d’intenti si scontrano con l’accordo sindacale che stabilisce sì il dovere della scuola di provvedere al recupero delle carenze degli alunni, ma non obbliga i docenti a svolgere “corsi di recupero” extra-orario delle lezioni, trattandosi di attività aggiuntive e, quindi, volontarie. Insomma la scuola ha il dovere di mettere in atto ogni possibile intervento di recupero, anche aggiuntivo, ma non i docenti! Si pensò, a questo punto, anche alla possibilità di nominare supplenti ad hoc; ipotesi poi scartata. D’altronde, era immaginabile che alunni, dichiarati “malati” da un docente, potessero essere portati alla guarigione da altri, sia pur docenti, ma addetti ad una sorta di “Pronto Soccorso scolastico”? Nelle scuole, ridottesi le reali possibilità di attivare i corsi di recupero (sulla cui validità didattica discuteremo successivamente), non resta che l’attenzione individualizzata, nel corso dell’attività didattica ordinaria, agli alunni con deficit; attenzione cui i docenti non potranno sottrarsi ma che resta incerta operazione scolastica, definita ardua proprio dai docenti che in classe devono fare i conti con lo svolgimento del programma e con il numero degli alunni. Le famiglie, a questo punto, ricorrono alle “lezioni private”; siamo ad una sorta di cane che si morde la coda.
I Corsi di recupero Ipotizziamo, invece, che una scuola organizzi i Corsi di recupero. Le tipologie d’intervento, nel corso di questi anni, si sono differenziate a tal punto che sarebbe davvero interessante fare una sorta di catalogo a disposizione proprio di quelle scuole che, nonostante le buone intenzioni di proseguire nell’esperimento, sono costrette alla delusione dei risultati. Sicuramente deludenti risultano gli esiti dei Corsi di recupero tradizionali, dove il docente scimmiotta la lezione del mattino, ripetendo gli argomenti delle lezioni e illudendosi che “repetita juvant” Qualche risultato lo hanno invece assicurato i cosiddetti “sportelli disciplinari”, variamente applicati; ma anche in questi casi molti docenti hanno lamentato che se gli alunni sono stati impegnati in attività di recupero pomeridiano a scuola, sono stati sottratti all’attività di studio a casa. Al riguardo è bene sottolineare – qualora ce ne fosse ancora bisogno – che l’alunno ha bisogno, oltre che della comunitaria fase di studio, in classe, del “solitario” macerare gli argomenti scolastici, di quel mettersi solo con la propria mente, la propria identità totale per una personalissima riflessione di quanto ha sentito in classe. Insomma, per dirla con un vecchio docente (di altri tempi), passare dalla predica alla meditazione. |
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