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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
- ISSN 1973-252X
Direttore responsabile: Dario Cillo


 

DOCENTI ANZIANI E IMPREPARATI

di Davide Leccese

 

Ci provano gusto – in alto loco – a mobilitare l’attenzione, nei mesi della calura estiva, a scuole chiuse e ad anno scolastico ultimato, per lanciare diagnosi sul precario stato dell’istruzione in Italia; prima appaiono valutazioni sulla preparazione scientifica e linguistica scadenti degli studenti italiani, poi sulla fatiscenza delle strutture (quasi nessuna a norma) e ora, ciliegina sulla torta indegustabile, sull’età mediamente avanzata e sull’impreparazione dei docenti.

Si è aggiunta, infine, la lamentela leghista sull’invasione, non gradita, di docenti meridionali al nord e l’auspicio (mettiamola così) di docenti “territoriali”, organici alla cultura del luogo; paradossale richiesta, quest’ultima, se si legge la storia e il tempo presente, volti alla mondializzazione della cultura.

Banca d’Italia e Ministero della P.I. hanno emesso il verdetto, sbattendo il “mostro” in prima pagina, al seguito, anche, d’indagini su altri aspetti della scuola italiana: troppo vecchi, questi professori, e decisamente di sotto lo standard di qualità, richiesto dai tempi e dallo sviluppo culturale e tecnologico della Nazione e a confronto con il quadro europeo, e non solo.

Non si è fatta attendere la reazione degli interessati, bollati in malo modo da queste sentenze altolocate: i siti scolastici pullulano di proteste, parolacce, commenti ironici. Sono pochi ad avvertire sofferenza, condividendo – almeno in parte – la diagnosi sulla malattia del sistema formativo italiano che,  a verificare le statistiche europee, davvero perde posizioni rispetto anche ai Paesi emergenti e a nazioni, come la Spagna, che fanno passi da gigante sulla strada coraggiosa del cambiamento sociale ed economico. L’Italia, Paese dalle millenarie ricchezze culturali e dalla invidiabile civiltà, sembra un serbatoio non attinto ai fini dell’istruzione dei suoi giovani.

A voler fondere – con atteggiamento bipartisan – le due posizioni, pur non volendo rischiare l’appellativo di “qualunquismo”, qualche interpretazione la possiamo fissare, con la probabilità di generare scontenti e fraintendimenti.

Tutti concordano – chi accetta le critiche e chi le contesta – che la scuola, detta alla paesana, va trattata come dio comanda e non come diavolo vuole. L’Italia sta attraversando un periodo di crisi di autocredibilità e questo clima favorisce gli estremi: lodi e biasimi che si cozzano e fanno la fortuna – vendetta della storia – dei giudizi da mezze tacche che tutto aggiustano fino alla prossima sfuriata di lamentele.

Intanto non è mai onesto fare di tutt’erba un fascio; giovani o vecchi, molti docenti esprimono impegno costante e serietà professionale, documentati da risultati buoni e persino eccellenti nelle carriere degli ex studenti di questa scuola italiana, troppo frettolosamente bollata, per intero, d’inefficienza e d’inefficacia formativa.

Docenti buoni e cattivi, preparati e impreparati, costretti a lavorare in strutture inadeguate ai compiti formativi che si richiedono, chiamati a realizzare una decantata “autonomia”, più predicata che attuata, incapsulata in pastoie burocratiche vecchia maniera, solo verniciate di nuovo perché passate al computer.

Docenti, buoni e cattivi, pagati tutti allo stesso modo, lavativi e stakanovisti tutti in fila – alla fine del mese – a percepire uno stipendio che sale a passi di lumaca e non lascia traccia di benessere neanche a volerla dipingere apposta.

Sul “distinguo” necessario della prestazione professionale dei docenti s’intrecciano colpe antiche e astuzie recenti: pagare tutti, pagare poco, pagare uguale; solo in questo modo la “categoria” non si divide, hanno sostenuto alcuni sindacati, timorosi che s’instaurasse nella scuola una politica aziendalistica che prometteva incrementi, stipendiali o sulla quantità di lavoro o su qualità di prestazione, a loro dire, tutte da accertare in un Paese che non riesce a mettere in quota rigorosi sistemi di valutazione professionale, proprio nel campo dell’istruzione.

D’altronde il conclamato controllo di qualità, l’urgente ripensamento del sistema scuola-organizzazione, nonostante gli avvertimenti preoccupati di serie scuole di pensiero – Romei, Gozzer, Frabboni, Corradini, Vertecchi, Guasti, Maragliano, Avallone, solo per citarne alcuni, tanto diversi tra loro eppur così spinti sulla competente e accorata volontà di cambiamento - non sortiscono se non l’effetto di chiamare a turno gli esperti, ascoltarli e mettere in cantiere idee da non concretizzare in scelte politiche.

Si trattava di far uscire la scuola dall’idea di “mansionario”, vittima della frammentazione dei gesti e delle competenze, fino al punto di smarrire il riferimento costante allo scopo fondamentale e ineludibile, attraverso l’istruzione, della formazione e educazione per le nuove generazioni.

Ci fu un’estate felice al Ministero, grazie all’intelligente coraggio di Giuseppe Cosentino, che chiamò alcuni docenti e presidi, sotto la guida di Luigi Catalano e Antonio Portolano, a discutere e a proporre soluzioni partendo dalla scuola reale. Periodo felice, in coincidenza anche della strutturazione dei “Programmi Brocca”; fase velocemente accantonata da una miope o astuta decisione politica di cambiare perché nulla muti. Docenti e presidi, quelli del “gruppo”, che si autodefinivano uomini di trincea e non di tenda, abituati a lavorare rimanendo in prima linea e non mirando a privilegi di scrivania, di altisonanti caparre di ruolo.

Cambiamento: si è mai chiesto il Governo quale sia lo standard di “aggiornamento” dei docenti della sua scuola; quell’aggiornamento dovuto ma non obbligatorio; quell’aggiornamento – se scelto dal docente fuori del contesto istituzionale - ovviamente a proprie spese? Quale vantaggio di profilo è riconosciuto a chi si aggiorna rispetto a chi, dalla laurea in poi, non ha mai avuto controlli di qualità e di competenza professionale e continua a ripetere stancamente quelle quattro nozioni che costituiscono il bagaglio noioso e improduttivo di certe materie scolastiche che si sono velocemente sbiadite dal punto di vista sia scientifico sia culturale? Sbiadite a tal punto che la dimenticanza produce brutti scherzi e fa sì che tanti giovani scandalizzino per l’ignoranza storica, geografica, linguistico-lessicale, anche a distanza di pochi anni da quando hanno abbandonato i libri di scuola per quelli universitari o per le verifiche concorsuali.

Sulla “questione docente” cadono i governi; chi ha tentato di mettere in chiaro che la carriera scolastica (quale? Un docente nasce docente e muore docente) deve essere certificata da prove rigorose, selezioni professionali e non dall’inveterato sistema italiano dell’ope legis; chi ha tentato la spallata è stato mandato a casa in malo modo, grazie alla piazza mobilitata anche da alcuni Sindacati. D’altronde, onestà vuole che si dica, che alcune richieste di sanatorie sono state prodotte proprio dal costume governativo di mantenere in stand bye tanti docenti, quasi precari a vita, “promossi al ruolo”  e omaggiati della certezza del posto col contagocce e con il tira e molla dei governi che si sono, nel frattempo succeduti: promesse d’immissione in ruolo in massa e dichiarazioni di rientro nei ranghi della spesa pubblica ad opera delle esigenti leggi della finanza che continuamente chiede una drastica riduzione delle cattedre e, quindi, dei posti di lavoro. Così, chi ha beneficiato delle ventennali sanatorie, è parcheggiato in un precariato umiliante che incattivisce il docente e lo spinge a diffidare di ogni promessa e di ogni (raramente mantenuta) soluzione definitiva.

Sulla mancanza di rispetto dei “precari” è fresca notizia la protesta contro l’umiliante sistema delle convocazioni annuali, fatte in gola all’inizio del nuovo anno scolastico, in una confusione totale delle precedenze e delle graduatorie, con un continuo appello a ricorsi e, quindi, a ulteriori riconvocazioni.

La neo-ministro Gelmini ha ufficializzato (tra le tante dichiarazioni) di voler porre fine, a medio termine, al precariato; siamo propensi a temere che si cambierà il titolo: da precari a stagionali!

L’ultima, esplosiva comunicazione, che sarebbe affidato ai Dirigenti il compito di “scegliersi” i Docenti – abolendo le graduatorie – scatenerà sicuramente la guerra con i Sindacati che vedono, in questa ipotesi, l’esplodere di un clientelismo scolastico contro i diritti accertati di titoli comprovati e non riconosciuti da scelte incontrollate di certi “capi”; capi che non sanno più come barcamenarsi tra le puntigliose richieste del sistema amministrativo-organizzativo della scuola e come conservare a denti stretti il profilo di coordinatori della didattica e del sistema formativo.

Controlli di qualità: provate ad avviare le procedure ispettive sulle paventate incompetenze didattico-professionali di qualche docente o sul sospetto di assenteismo astuto; se riuscite a venirne a capo, siete da inserire nell’albo d’oro dei fortunati e dei coraggiosi, se non proprio dei temerari. Provate a ribadire che il sistema delle “lezioni private” è coltivato nel malvezzo didattico di alcuni docenti, complici le famiglie, che tentano o fanno finta di sanare “a domicilio”, esentasse, quanto in classe non si riesce a guarire. Né crediamo che il Ministro Brunetta, con le sue recenti decisioni contro i “fannulloni”, riuscirà a mettere il freno a un diffuso malcostume – a danno sia dello Stato sia degli onesti lavoratori – di chi finge mal di testa e la gira dall’altra parte quando lo si richiama alla deontologia professionale dell’educatore.

Le visite fiscali: in molte parti, pur richieste,  non vengono effettuate “per motivi organizzativi”.

Eppure tante volte è stato ripetuto che un impiegato, assente, lascia carte sulla scrivania; un docente, assente, lascia alunni in classe. Le buone leggi – tra queste la famosa Legge 104 – diventano, a volte, cunicoli di furbizia, ammantati di percorsi altruistici e ricchi di socialità. La tutela della maternità sembra abbia sortito lo strano effetto di prendere atto che le donne del pubblico impiego, a stare alle statistiche, sono quasi tutte in “complicanze di gestazione”; torneranno al posto di lavoro dio solo sa. Né si può dar torto a una neo-mamma che, stante il traballante sistema sociale di tutela della maternità, la mette in gravi difficoltà di conciliazione tra impegni di lavoro e doveri di assistenza.

E’ anche vero che fare il docente oggi non significa più, come un tempo, essere garantiti da una considerazione sociale di prestigio, grazie anche alla diffusa idea – sotterranea – che basta conseguire un titolo, non di puntare alla formazione. Su questa condizione carsica della scuola rischia di franare il futuro della Nazione.

Ma quel che fa da sfondo – nefasto – a questo “degrado” è la mancanza di una Riforma competente, coraggiosa, puntuale, persino apportatrice di sacrifici. La presa di coscienza che la transizione perenne, camuffata da attenzione alla complessità e imposta da chi non vuole assumere decisioni, non fa emergere la necessità di una Riforma che non può essere programmata a tempi biblici perché il turn over generazionale e i mutamenti rapidi della società esigono basi stabili e sovrastrutture dinamiche e flessibili, non la mania incosciente di buttare via, ogni volta, il bambino e l’acqua sporca.

Occorre, tra l’altro, un sistema formativo che la smetta – in caso di carenze accertate e consolidate – di retrodatare sempre le colpe di tali deficit: l’università scaglia accuse verso la scuola secondaria superiore, questa contro la scuola media, la scuola media sulle elementari; di questo passo, arretrando arretrando, troveremo l’inghippo nella condizione cromosomica dei soggetti che, nati male, non riescono a comprendere, per difetto genetico, la perifrastica passiva in latino o il genitivo sassone in inglese!

Volare più alto, tenendo però lo sguardo fisso sulla realtà; puntare su basi forti e stabili sui valori: alla scuola dei Diritti sacrosanti deve far seguito la scuola dei Doveri altrettanto sacrosanti: alunni, docenti, non docenti, genitori e dirigenti si dovranno mettere in fila per un “contratto” leale e non fittizio stabilendo un patto di reciproco controllo, appunto, dei doveri e dei diritti, ogni componente nel rispetto dei ruoli e degli ambiti della con-parte. Ciò significa comprendere che una scuola vera non può prescindere dal sacrificio, dal buttarsi per intero nel doveroso ruolo che ci compete, sapendo fare rinunce di piacere per spendersi in “fatica” di studio. Uno studio – lo diciamo ai docenti – non misurato sul metro asettico delle conoscenze fisse ma sulle competenze critiche, metodologiche e sistematiche; sugli apprendimenti flessibili e aperti alle curiosità e al confronto per sbocchi progressivi verso ulteriori problemi da affrontare e da risolvere.

La necessità improcrastinabile di formare nuove generazioni, in una società multietnica, in contesti socio-economici mondiali, in culture che s’incontrano e soprattutto si scontrano, dovrebbe far riflettere i governi, la scuola e le famiglie: ogni comoda o frettolosa soluzione significa soltanto incattivire il clima della relazione adulto-adolescente e affidare al futuro la soluzione sempre più ardua del problema.

Ecco perché diciamo ai giovani che non è possibile più sopportare il pressappochismo e l’arroganza di chi non vuole studiare e vuole voti alti, di chi viene a scuola come se fosse un hotel dall’ingresso e dall’uscita continua, di chi – con la complicità di alcuni genitori – soffre di vacanzite acuta. Non deve essere più consentito a certi docenti di fare del voto un privilegio unilateralmente gestito, voluttuariamente assegnato; non domandarsi se sia possibile insegnare senza una competenza, almeno di base, nelle tecniche della comunicazione, nella psicologia dell’età evolutiva, nelle nuove didattiche e soprattutto secondo prospettive di orientamento, sia di studio che professionale.

Nella scuola italiana è dura a morire la favola che comincia sempre con “Ai miei tempi….”, come se in passato non si registrassero, mutatis mutandis, gli stessi comportamenti didattici e relazionali di oggi: docenti preparati e docenti alla men peggio; alunni studiosi e somari in servizio permanente effettivo; aule fatiscenti e strumentazioni didattiche inesistenti o arretrate.

Le famiglie: Non è possibile che alcune famiglie scarichino sulla scuola, sovente, le loro crisi d’identità e di ruolo; che si preoccupino più del voto che della formazione dei figli; che giustifichino sempre i figli in nome di un sentimento “affettuoso” di stile compromissorio; che lamentino ingiustizie sentendo solo la campana suonata dai figli e minaccino continuamente la scuola di voler far ricorso al tribunale!

Sigmund Freud, che la sapeva lunga sulla psiche umana, diceva che nella educazione dei figli il nostro scopo principale è quello di essere lasciati in pace e di non dover combattere con difficoltà. In poche parole, vogliamo tirar su un bambino modello e ci curiamo ben poco di vedere se questo genere di sviluppo sia anche giovevole al fanciullo. Dire di no, avere il coraggio di negare quando è doveroso non di concedere sempre, preferibilmente cose in sostituzione di relazione umana; scappatoia che sembra diventata una condotta diffusa dei nuovi genitori, tutti presi dal desiderio di continuare a farsi una vita, a non invecchiare, a non perdere la scommessa con una propria, ancora privata, felicità.

Questo costume della “delega”, d’altronde, sembra sia diventato anche il manifesto difensivo anche della scuola ministeriale: delegare all’insegnamento, in pacchetti progressivi, gli aspetti deficitari di una società che non riesce a controllare, nel suo insieme, le patologie comportamentali di certi giovani. Allora si ricorre alle varie “educazioni”, scolasticamente richieste: educazione alla salute, stradale, sessuale; ritorno dell’Educazione civica, ecc. Tali “educazioni” diventano subito materia d’insegnamento e, come tali, vengono istintivamente rifiutate dai giovani, costretti a studiare teoricamente  quanto sentono, invece, di voler comprendere nel terreno del vissuto.

Eppure l’esperienza di chi vive nella scuola può certificare che affianco al lassismo resiste il senso di responsabilità e l’investimento coraggioso nello studio, fatti di sacrificio, di dedizione, di serietà magnifica in tante famiglie e in tanti giovani. Per ottenere questi risultati vale per i genitori, come per i docenti, il non essere predicatori di regole ma testimoni di comportamenti positivi, far comprendere che è meglio appartenere alla gente per bene e meno alla “gente bene”.

E’ deleterio, infine, che certi dirigenti abbiano presto dimenticato che è richiesta più autorevolezza che autorità nell’esercizio delicato e complesso di chi guida la scuola.

Ogni descrizione delle negatività della scuola attuale punta, a voler essere desiderosi del bene della scuola e della società e non solo denigratori, alla costituzione di una comunità “ospitale”, con spiccata attenzione alla persona; l’ospitalità della scuola mira, in sintesi, a far emergere i tanti atteggiamenti positivi e ricchi di valore che nella scuola ci sono ma che sono sommersi da una valanga di luoghi comuni – prevalentemente negativi – e di dicerie, comode a chi ha il prurito del tutto da rifare.

Proprio perché esistono le condizioni per un recupero, è diventato anche urgente, improcrastinabile, che la scuola si svecchi; non tanto di persone quanto di metodi e mezzi e torni, nello stesso tempo, al mai estinto principio pedagogico che l’alunno impara dal docente ad apprendere e il docente impara dall’apprendimento ad insegnare. Invece, al confronto con le astuzie comunicative, ad esempio, dei mass media, la scuola continua – nella generalità dei casi – a usare sistemi narrativi unilaterali: io spiego, io interrogo, io metto il voto; tu impari, tu ripeti la lezione e…di nuovo con questo circuito chiuso della noiosa, antiquata lezione. Il “nazionalismo” delle materie – ognuna chiusa in se stessa - fa sì che ai giovani sia fornita una cultura frammentata, fatta di segmenti scollati, invece che una conoscenza flessibile della realtà, sempre più complessa, sempre più esigente sul piano dell’integrazione dei saperi.

A questo proposito è lecito domandarsi dove sia finita la dichiarata apertura alle tecniche laboratoriali, ai sistemi dell’e-learning, della “didattica breve”, della scuola progettuale.  Gli studenti lasciano i libri di testo e approdano agli i-pod, ai congegni ad alta tecnologia informatica, a meccanismi di cui sono capaci di individuare le strutture più recondite mentre a scuola  perdono la bussola di fronte alla regola (astratta) più elementare di lingua o di calcolo.

La scuola italiana, tra l’altro, non ha mai messo a punto un sistema di valorizzazione delle “eccellenze”, misurandole più nel contenitore quantitativo che nella prospettiva coraggiosa e “rischiosa” di quelle menti che – fuori della quadratura asettica delle conoscenze statiche, libresche - “inventano” e “scoprono” mondi di pensiero, di gesti, di emozioni che sono proprio ai bordi del codificato scolastico istituzionale. La figuraccia è tutta italiana dello scarso peso assegnato alla ricerca e ai ricercatori, quelli sì mal pagati, dimenticati, chiamati all’amor patrio solo quando fuggono all’estero dove astutamente qualcuno spreme le intelligenze e ne ricava ricchezza di nuove conoscenze, fruttuose scoperte, necessari progressi scientifici.

Un saggio uomo di scuola ripeteva che le conoscenze scolastiche non sono mai state “la casa” della cultura; tutt’al più riescono a essere “la chiave della porta d’ingresso”.

Ma per scoprire le dinamiche mentali e affettive dei giovani d’oggi – nel bene e nel male di tanti episodi accertati – non basta più la filigrana abituale del “ruolo”; occorre la “passione”, l’ansia di decifrare messaggi appena accennati che i giovani lanciano agli educatori.

Invece la scuola italiana, duole dirlo, rischia di essere ingolfata nelle retoriche dichiarazioni di cambiamento, con modifiche cartaceo-normative, senza radicale ri-professionalizzazione dei docenti che, non perdendo di vista l’antico, avvertano l’urgenza del nuovo, sappiano coniugare, nel presente, passato e futuro, sappiano fare, della relazione formativa, l’asse portante di un rapporto costruito sulla pari dignità dei partner, nella distinzione dei ruoli.

Una riflessione a parte, sia pur solo accennata, merita il riferimento alla comunità cittadina, nel senso esteso del termine. Da sempre si sostiene che la Città è scuola, il Territorio è Libro, il vissuto costituisce l’amalgama necessario agli apprendimenti delle future generazioni. E’ vero che oggi si apprende dal mondo – molto più di ieri – ma le finestre della mente incrociano una quotidianità di situazioni, di luoghi, di relazioni che, se non informate alla consensualità con i processi formativi della scuola, scivolano o nell’anti-scuola o nel trovarsi in un luogo senza viverlo, estranei, i giovani, all’indispensabile radicamento di cultura e di civiltà.

Forse è anche questa la causa che genera una scuola italiana senza la coscienza che il futuro sta risucchiando un impalpabile presente sulla scorta di uno sconosciuto o misconosciuto passato.

 

Post scriptum: L’estensore dell’articolo ha incontrato, in questi giorni, un ex alunno della sua scuola e si è sentito chiedere:”Signor Preside, che farà adesso che va in pensione?”. Paradossale e commovente: un giovane s’interroga sul futuro di chi è tentato di dare la priorità al suo passato.


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