FINE
DELL'ANNO SCOLASTICO: PROMOSSI O BOCCIATI?
di DAVIDE LECCESE
L'anno scolastico
si avvia velocemente alla conclusione; conclusione di fatto
accelerata dalla pessima abitudine di alcuni studenti di non
presentarsi, di fatto, a scuola fino alla data ultima, stabilita
dalle Regioni e fatta propria dalle scuole.
Un anno scolastico
tormentato dalla crisi del sistema formativo che, sia sulle linee
generali che per situazioni specifiche, viene avvertita da tutti,
specie ora che la stampa, con l'accanimento del gusto alla “cattiva
notizia”, mette in risalto fatti e misfatti che si stanno consumando
nelle aule: violenze, aggressioni, filmini hard, volgarità, incendi,
allagamenti; per finire con le morti, sempre più frequenti, per uso
di droghe, leggere o pesanti che siano.
Per fortuna – e
tutti lo sanno – non è questa, o solo questa, la scuola. La scuola è
fatta dalla stragrande maggioranza di protagonisti consapevoli che
sono ben intenzionati a vivere un'esperienza significativa di
rapporto insegnamento-apprendimento e traggono i frutti – per sé e
per la società – da questa esperienza ricca e gratificante.
Ma, al di là del
bene e del male della scuola, tutti – alunni e genitori in primis –
sono in attesa dei risultati: promossi o bocciati da quando si ebbe
l’idea, da alcuni – a posteriori - giudicata “infelice”, di abolire
gli esami di settembre o di riparazione che comunque – a parere dei
pentiti – costituivano una sorta di deterrente al disimpegno e alle
promozioni facili. Si dice, ma potrebbe essere solo una leggenda
metropolitana, che i propugnatori occulti siano stati anche gli
addetti al turismo che vedevano ridotte le possibilità di
villeggiatura per colpa di queste “sospensioni di giudizio”.
Un anno scolastico,
dicevamo, tormentato e il primo tormento – almeno per la scuola
secondaria superiore – è nel tergiversare nell'approvare una Riforma
che la metta al passo con le esigenze dei tempi, con il progresso
della società e che la rimetta in sesto con le “regole” della vita
sociale.
Oggi sembra valere
tutto e il contrario di tutto; per questa ragione i protagonisti
ritengono di essere nel giusto e scaricano sulla “controparte” le
maggiori responsabilità della crisi del sistema scolastico: genitori
contro i figli e, a favore dei figli, contro i docenti; docenti
contro gli alunni e contro i genitori; gli alunni contro tutti:
genitori, docenti e la società; questa società – sostengono i
giovani – che non li capisce, che è arroccata sul “vecchio”, che li
annoia con le sue abitudini sorpassate e i suoi riti antiquati ed
insopportabili (come se quelli di oggi – che piacciono a certi
giovani - possano considerarsi meno “riti”).
In questa maniera
il processo educativo – che è soprattutto un sistema fiduciario tra
partner – non trova il terreno necessario per fortificare gli
effetti della crescita culturale e morale dei giovani, anche perché
si ha l'impressione che gli adulti non abbiano più né la forza né la
credibilità personale per imporre ai giovani i divieti. Oggi
esclamare: “Questo non si fa”, non è consentito. E' diventato arduo
dire ad un giovane:”Questo è vietato”, “Questo devi farlo”.
La stagione dei
diritti è tanto prevalente da soffocare la stagione dei doveri.
Di fronte ad una
vita scolastica che, per il suo carico di responsabilità, richiede
impegno, sacrificio, rinunce, molti giovani vivono in maniera
esasperata, non sono più capaci di dosare le energie, sprecandole in
notti prolungate, in bevute dannose, in fumate incontrollate, in
emozioni violente, in una vita più istintiva che armonicamente
guidata da ragione rigorosa e sentimenti ricchi. E se poi si profila
una sconfitta, anche scolastica, si avverte la minaccia (alcune
volte messa in atto) di gesti estremi, fino al suicidio, caricando
di angoscia o di colpa postuma genitori e docenti.
L'anno scolastico
si chiude e la scuola sancisce, burocraticamente, la fine del
percorso formativo con una sentenza: promossi o bocciati; promossi
con “debito” - per carenze non colmate nelle materie di studio – o
non promossi, per carenze tali che non è possibile assicurare il
passaggio alla classe successiva.
La lettura dei
risultati ha consolidato oramai una diversità di reazioni che, a
seconda delle situazioni, si ripetono in ogni scuola: è difficile
l'accettazione dei verdetti negativi, sia da parte delle famiglie
che da parte degli alunni.
E' diventato
normale lamentarsi per le “ingiustizie”, ricorrere alle proteste,
alle minacce, ai tribunali. Raramente ci si trova di fronte a chi,
invece di scaricare tutte le colpe sulla scuola (anche se colpe
potrebbe averne), individua nelle responsabilità dei figli,
assenteisti, poco studiosi, refrattari ad ogni sollecitazione, la
responsabilità maggiore dell’esito negativo.
Resta anche
mortificante per la scuola la situazione – oramai da anni accertata
– dei promossi con “debito”. La gran parte degli studenti con
“debito” ritornerà sui banchi di scuola, a settembre, senza aver mai
aperto un libro durante tutto il periodo delle vacanze. Così
all'ignoranza di prima si sommerà la dimenticanza di poi e il debito
– per usare una terminologia di altro settore – andrà “in protesto”
e sovente diventerà carenza consolidata fino al termine degli studi.
Con buona pace della formazione delle future generazioni che, a
distanza di anni, anche da professionisti, potranno affermare che,
ad esempio, la matematica non l'hanno mai capita e mai studiata!
I debiti – stante
l’attuale normativa – dovrebbero essere recuperati con un
intensificarsi dello studio personale e, nelle scuole che abbiano la
disponibilità dei docenti a farli, con i “corsi di recupero”. La
legge attuale non obbliga i docenti a dichiararsi disponibili per
attività aggiuntive (e i corsi di recupero lo sono), così come
nessuno è in grado di quantificare il “sommerso” delle lezioni
private, a cui tante famiglie ricorrono, illudendosi che queste
servano a garantire un recupero delle lacune che alla fine solo la
scuola istituzionale potrà sancire come “superate”. E anche l’ultima
soluzione ministeriale, che ridisegna la norma sui “debiti
formativi” genera tante perplessità, soprattutto per quanto riguarda
la possibilità di coinvolgere “docenti esterni”; docenti che, senza
vivere dal di dentro le dinamiche della scuola, dovrebbero fungere
da “curatori” di malanni diagnosticati da altri docenti! La
soluzione dovrebbe essere il cambiamento di metodo: “personalizzare”
la relazione apprenditiva, compiere azioni mirate di recupero. Ma
l’organizzazione reale dell’orario di lezione in classe, con numeri
spesso elevati di presenze, consente davvero questa metodologia? E’
l’eterna lotta tra programma e programmazione, tra obiettivi
formativi e contenuti, tra qualità e quantità, tra quanto l’alunno
deve sapere e come e perché deve imparare; lotta affrontata dagli
inizi di ogni tentativo di Riforma ma mai giunta a conclusione,
anche perché il problema scivola sul dilemma che s’interfaccia:
quanto il docente deve insegnare e come e perché deve insegnarlo.
Ha del “pilatesco”
– ed è stato immediatamente sottolineato da alcuni attenti docenti –
il principio delle nuove disposizioni secondo cui, se il debito non
verrà saldato entro il 15 marzo dell’anno successivo si consolida.
Con quale esito o scappatoia, per l’ultimo anno? L’alunno si ritira
dalla frequenza e si presenterà da privatista. Se non verrà ammesso
dalla porta, entrerà dalla finestra.
Resta, in ogni
caso, il problema del “sapere”. Sono anni che nella scuola – sotto
l'ombrello sbrindellato di tutti i tentativi di Riforma – si discute
del “sapere scolastico”. Conoscenze, competenze, abilità, criticità,
sistematicità, metodicità, discernimento dei percorsi per soluzioni
problematiche: sono tutte espressioni che – messe nel paniere dei
cosiddetti “esperti” - non sono filtrate nella didattica reale e
quotidiana di molti docenti che, purtroppo, continuano un
cerimoniale didattico antico quanto il mondo e deludente,
soprattutto oggi, ai fini dei risultati. Il docente sale in
cattedra, spiega la lezione; l'alunno dovrebbe seguire la
spiegazione, prendere appunti, porre domande sui dubbi, confrontare
quel che dice il docente con quel che è riportato sul testo della
materia, tornare, infine, a casa e “studiare”. Quando è previsto
l'incontro successivo con lo stesso docente ed è programmata
l'interrogazione (perché le interrogazioni sono programmate!),
l'alunno espone quel che ha appreso, viene valutato, e – finalmente
– impacchetta il tutto nel “già fatto” del programma.
Sono questi
l'insegnamento e l'apprendimento nella società della comunicazione,
delle tecnologie raffinate, di Internet, della trasmissione delle
notizie a velocità del presente dovunque nel globo?
Non è, forse
l'insegnamento, l'eterno incontrarsi delle generazioni, grazie alla
sapienza, alla saggezza, al patrimonio del vissuto – soprattutto di
civiltà e di cultura – degli adulti e grazie alla voglia di vivere,
di rinnovare, di costruire il futuro, di essere protagonisti dei
giovani?
Basta davvero,
oggi, quantificare con un voto quel che l'alunno dimostra di sapere,
in un compito o in una interrogazione, puntando abitualmente,
secondo un sistema deleterio della valutazione, più a sottolineare
quel che non sa e meno quel che sa, per quanto poco sia? Quanti
“errori” sono molto più produttivi di tante “certezze”, imparate a
memoria e prive di quel sano dubbio che ha generato, nel corso dei
secoli, le magnifiche scoperte che abbiamo!
Confrontati con i
valori sostanziali dell'auspicato confronto generazionale, nella
distinzione dei ruoli, dei diritti e dei doveri, cambiano del tutto
le strategie del “fare comune scuola”:
Il docente ha il
diritto di insegnare ma ha anche il dovere di farlo non pretendendo
che a “cambiare” (progredendo nel ruolo) sia solo l'alunno:
aggiornamento, acquisizione di nuove e più articolate conoscenze,
preparazione psicologica e comunicativa, addestramento a nuove
tecnologie disciplinari, apertura a conoscenze disciplinari
correlate; abitudine a lavorare in team, a confrontarsi sui metodi,
sui risultati e sulle alternative alle strategie improduttive.
Ma i docenti non si
discutono. Immessi “in ruolo”, chi si è mai preoccupato di vagliarne
progressivamente la conformità umana, psicologica, professionale
alla delicata funzione dell’educatore? Se l’aggiornamento è un
diritto – ma non è un obbligo – rimane almeno un dovere? Se chi
esercita professioni delicate, per l’incolumità dei “clienti”, viene
sottoposto a periodiche verifiche della persistenza delle condizioni
minime di esercizio della professionalità, perché chi guida la
crescita intellettiva e morale dei giovani è esentato da questi
controlli?
L'alunno ha il
diritto ad apprendere ma anche il dovere di studiare, di trattare
con cura i ritmi della sua crescita bio-psichica; ha il diritto al
rispetto delle sue idee, per quanto imprecise possano essere, ma
anche il dovere di lasciarsi guidare nella formazione della
criticità. L'alunno ha l'obbligo di “rendere” non solo per sé ma
anche per chi (genitori e docenti) spendono la loro vita per il suo
presente e il suo futuro. L'alunno, infine, ha il diritto di
chiedere ma anche il dovere di dare. L'alunno ha il diritto alla
fiducia ma anche il dovere di fidarsi. L'alunno può anche sbagliare
ma deve pur accettare il rimprovero e, se necessaria, la punizione.
Le colpe degli adulti non possono essere un alibi per continuare a
sbagliare, anche se gli adulti, per avere l'autorevolezza della
correzione, non devono necessariamente essere perfetti ma neanche
più colpevoli dei giovani che correggono.
Docenti e genitori
dovrebbero smetterla di rubarsi reciprocamente il “mestiere”: alcuni
genitori – fidandosi solo delle dichiarazioni dei figli – aprono
continui processi sulle colpe dei docenti; alcuni docenti, a loro
volta, aprono processi sui genitori, sulla loro incapacità di
gestire i propri figli a casa. Insomma, con la logica delle torte in
faccia, tra adulti, i primi a scansarsi – astutamente – sono proprio
i figli-alunni che si godono la scena!
La scuola, a
proposito del ruolo dei genitori, avverte – a volte con vera
angoscia – di non avere la sponda giusta per il suo progetto
educativo. Troppi genitori oggi sono più preoccupati di fornire ai
figli “cose” e non relazione umana; alcuni sono di fatto assenti
nella vita ordinaria dei giovani, tutti protesi a spendere il loro
tempo nella professione o nel lavoro per garantire uno status
sociale da cui derivano quelle “cose” che si forniscono ai figli
come sostituto della relazione famigliare. Troppi genitori sentono
la sconfitta scolastica più come una “perdita di onore sociale” che
come un’occasione per ripensare e provvedere alla condizione
tormentata di un figlio in sviluppo. Scuola e famiglia hanno un
pezzo della fotografia dei giovani e, invece di comporre le parti,
pretendono di avere gli strumenti per immaginare il tutto.
Insomma, al termine
di un anno scolastico, se ci confrontassimo con questi “parametri di
giudizio”, probabilmente cambierebbe l'ottica delle promozioni e
delle non promozioni: non solo degli alunni ma anche dei docenti e
dei genitori.