CONVEGNO SCUOLA ORGANI COLLEGIALI - 10 MARZO 2004 -
organizzato dalla Provincia di Roma - tavola rotonda
Riprendo il discorso degli organi collegiali, in particolare di
quelli distrettuali, provinciali e Consiglio Nazionale della Pubblica
Istruzione. Non è un caso che, fra tutti i provvedimenti legislativi
adottati nel corso della passata legislatura, quello sugli organi
collegiali non abbia avuto attuazione - pur uscito in Gazzetta Ufficiale
- e non è un caso che ancora oggi la riforma non riesca a partire.
Secondo me anche nella passata legislatura il provvedimento di riforma
degli organi collegiali fu sbagliato come impostazione perché si dettero
per scontate una serie di cose che non lo erano affatto e non si posero
quattro domande fondamentali.
La prima è se servono ancora, nel regime
dell’autonomia, organi collegiali partecipativi intendendo quel tipo di
partecipazione che fu sollecitata dai decreti delegati. Oggi quel tipo
di partecipazione con le percentuali fissate, con il ruolo ingessato
delle compenti all’interno degli organi può avere un significato diverso
da quando gli organi collegiali furono istituiti per la prima volta
proprio per incentivare e sollecitare la partecipazione. Ci sono istanze
nuove nella società, ci sono gruppi di interessi che possono anche
essere temporanei. Ora bisogna vedere in che modo si può pensare a una
partecipazione che non serva soltanto a consolidare certe posizioni di
potere o di controllo territoriale, aventi una relazione meramente
burocratica. Al termine partecipazione si è recentemente affiancato
prepotentemente quello di “integrazione”, per adeguare l’organizzazione
dei mezzi in vista del miglior perseguimento degli scopi prefissi.
La seconda domanda è rivolta all’utilità, nel nuovo
quadro istituzionale più articolato e complesso, di avere organi
sostanzialmente solo consultivi come sono di fatto gli organi collegiali
così come definiti dai decreti delegati. Questo si poteva capire in un
sistema in cui lo Stato centrale, che tutto decideva, concedeva un
potere consultivo alle autonomie, alle scuole, alla società civile su
argomenti sui quali poi era lui il decisore. Ma tutto questo è cambiato:
oggi lo Stato non è decisore unico e non può limitarsi a concedere un
potere consultivo ad enti - dalle scuole, agli enti locali, alle regioni
- che hanno ora una loro autonomia e sono titolari di autonomi poteri.
Allora bisogna vedere in che modo la configurazione di nuovi organi
collegiali può risentire del nuovo assetto delle competenze, laddove
ormai Stato, regioni e autonomia locale si collocano dal lato di coloro
che possono assumere la decisione finale e tutti gli altri - società
civile, mondo del lavoro, imprese, genitori, insegnanti - sono
protagonisti del sistema ma subiscono in qualche misura le decisioni
assunte dagli altri enti. Con i vecchi consigli provinciali e
distrettuali, si avrebbe la partecipazione impropria ad un organo
consultivo di organismi - come il Comune - che invece hanno ormai poteri
decisori in materia di scuola.
La terza domanda è rivolta alla definizione di chi
spetta oggi il potere di assumere decisioni in materia di istruzione e
formazione. Gli organi collegiali all’origine furono istituiti solo ed
esclusivamente per la funzione dell’istruzione, ma si fa avanti
prepotentemente un'altra idea, cioè che fino all’età di 18 anni possa
esserci un mix tra istruzione e formazione. Quindi se gli organi
collegiali forniscono un supporto alle decisioni di organizzazione del
sistema, non possono ignorare che oggi c’è anche la formazione. Questo
complica le cose perché le decisioni generali e gli indirizzi in materia
di istruzione spettano ancora allo Stato, ma in materia di formazione lo
Stato al massimo può attingere ai livelli essenziali delle prestazioni,
dato che tutti i poteri sono nella legislazione regionale. Ma hanno più
senso organi collegiali solo ed esclusivamente della scuola, che cioè
non tengano conto del generale problema istruzione e formazione? Con
tutte le interrelazioni che ci sono fra il sistema di istruzione e i
sistemi formativi, questa via sembra veramente non percorribile.
La quarta domanda appare nell’eventualità che con
l’attuazione all’autonomia didattica e organizzativa, l’esigenza di
alcune componenti - come le famiglie e gli studenti e i docenti -
potrebbe considerarsi soddisfatta con la partecipazione agli organi
collegiali delle istituzioni scolastiche e delle reti di scuole. Qui il
problema non è quello di pensare a una estromissione delle famiglie
dagli organi più alti come il Consiglio Nazionale della Pubblica
Istruzione, ma è quello di vedere se appare veramente l’autonomia
didattica e organizzativa: per esempio, le scuole ricevono ancora fondi
finalizzati che non possono usare liberamente per i loro scopi.
L’autonomia didattica permette la possibilità di organizzare un 15% di
orario libero. La gestione attuale del problema del personale delle
scuole contrasta con i principi dell’autonomia: si pensava a un organico
funzionale che avrebbe consentito di assolvere a tutte le funzioni,
comprese quelle di rete. Le ultime Finanziarie sono intervenute a
ragione perché ci sono degli sprechi nel sistema, ma in modo talmente
penalizzante che ha creato una situazione di blocco operativo.
Se effettivamente si realizzasse l’autonomia didattica e organizzativa
all’interno degli organi collegiali della scuola, le famiglie potrebbero
intervenire efficacemente per realizzare un progetto educativo che
soddisfi le loro esigenze. Gli studenti e i docenti potrebbero
partecipare all’elaborazione del POF. Con le reti di scuola, si potrebbe
creare canali di comunicazione condivisa dal territorio alle direzioni
regionali della scuola e agli enti locali. Probabilmente gran parte dei
problemi a livello di organi collegiali locali potrebbe essere risolta
all’interno del sistema autonomia. Barbieri ha fatto prima un esempio di
possibili conferenze locali. A me piace più l’idea delle reti in quanto
sono già normate all’interno del regolamento dell’autonomia, ma nulla
vieta che gli enti locali utilizzino l’ultimo articolo del Decreto
Legislativo n. 112 per istituire organi collegiali propri all’interno
dei quali chiamare a lavorare le scuole del territorio.
Il discorso degli organi collegiali non può dimenticare un’esigenza
derivante dall’eventuale attuazione della decisione della Corte
Costituzionale n. 13 del 2004. A questo punto non si tratta più della
questione dell’organo collegiale inteso come organo consultivo, ma di un
collegamento reale ed effettivo con le esigenze del territorio che può
avvenire attraverso un organo collegiale, ma anche attraverso rapporti
istituzionali della regione con le reti di scuola, che potrebbero
recuperare un momento di incontro tra mondo produttivo, mondo del
lavoro, scuola, enti locali e regione.
Rappresento il punto di vista dei docenti in un momento in cui
l’operazione complessiva è quella di espropriare la scuola della
titolarità sulle cose che fa non tanto sul suo territorio - perché
rispetto all’autonomia gli spazi, almeno teoricamente, non sono messi in
discussione - quanto dal punto di vista culturale e politico. La
preoccupazione è veramente grande perché i docenti si sentono messi
fortemente sotto accusa, sia per la mancanza di considerazione
complessiva che questo Governo dimostra di avere nei loro confronti, sia
per il rapporto famiglie/docenti. La scuola viene considerata un
supermercato di offerte formative alle famiglie.
Il problema è di chi è la scuola, a chi spetta fare delle scelte e
decidere l’impostazione di una scuola. Già nella definizione “organi
collegiali” la parola collegiali significa l’impostazione del lavoro di
una scuola che riguarda una comunità. Nel momento in cui si ribaltano le
proporzioni, tutto viene messo in discussione, anche la libertà di
insegnamento che noi sentiamo fortemente in pericolo.
Bisogna ragionare su due livelli, uno scolastico e uno territoriale.
A livello di scuola abbiamo due funzioni: una funzione
di indirizzo e una funzione progettuale; la prima espressa dal consiglio
di istituto, la seconda espressa dal collegio dei docenti. In entrambi
la proposta del Governo pone fortemente in discussione l’organizzazione
del lavoro scolastico.
A livello territoriale il pericolo è quello del tipo di
rappresentanza e del tipo di carattere consultivo degli organismi. Il
modo di elezione e nomina di questi organismi ci mette fortemente in
preoccupazione perché, man mano che si sale nell’organismo, l’elezione è
sempre più indiretta, cioè si passa dagli organismi che prevedono
un’elezione diretta da parte delle componenti agli organismi
distrettuali, provinciali, regionali e CNP che vedono forme elettive
sempre più indirette e nomine sempre più frequenti, per cui la
rappresentatività degli organismi stessi è fortemente condizionata.
Questo meccanismo diventa ancora più pesante con riferimento al
Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Si ha dunque
l’impressione che il CNP - che a noi sta molto a cuore proprio perché è
l’organismo nazionale che comunque, nel bene e nel male, è la voce del
mondo della scuola rispetto a tutti gli adempimenti e le attività -
verrebbe ad essere un organismo prevalentemente nominato e che quindi si
teme possa essere il punto di riferimento dell’attività del Ministero
piuttosto che esprimere il punto di vista della scuola.
In numerosi convegni sulla scuola la discussione viene accentrata sul
nuovo Titolo V della Costituzione dimenticando però che esiste l’art. 33
della stessa Costituzione che dà una funzione sociale istituzionale
all’istruzione come uno degli elementi che creano le condizioni di
effettiva uguaglianza per consentire un’effettiva partecipazione alla
vita democratica e quindi che dà il senso politico e sociale della
funzione istituzionale della scuola.
Io mi sforzo sempre di sottolineare che non è solo un servizio,
ma è soprattutto una funzione fondamentale dello Stato.
Diceva Calamandrei in un intervento a un’assemblea degli studenti: “La
scuola è un organo costituzionale perché forma il cittadino di domani, è
la precondizione dell’esercizio della democrazia”, quindi è strettamente
connessa allo Stato. Non può esistere uno stato democratico se non c’è
una scuola diffusa, una scuola che sia garanzia di libertà.
E l’art. 33 Cost. sancisce proprio questa funzione dell’istruzione
scolastica e afferma alcuni principi fondamentali che dobbiamo tener
fermi anche nell’interpretazione del nuovo Titolo V, in primo luogo la
libertà di insegnamento: l’istruzione è garanzia di libertà e di
crescita di libertà e quindi deve formarsi in modo libero. Di qui la
funzione fondamentale della scuola statale che deve garantire non la
scuola della maggioranza pro tempore in carica, ma la scuola della
repubblica, la scuola di tutti e che quindi deve garantire il pluralismo
culturale.
Non ci può essere la scuola di una maggioranza che si fa i suoi
contenuti culturali e poi, quando cambia la maggioranza, si fa un’altra
scuola con altri contenuti culturali.
L’art. 33 Cost. dice che la repubblica istituisce scuole statali, non
governative, scuole statali in cui tutti ci possiamo riconoscere.
Il secondo principio fondamentale riguarda la distinzione netta tra la
funzione istituzionale della scuola - che è una funzione di formare
anche al lavoro ma soprattutto il cittadino - e la formazione
professionale della quale non a caso la Costituzione all’art. 3 non ne
parla perché è di competenza esclusiva regionale.
Sono due funzioni diverse che non possono integrarsi o sostituirsi l’una
all’altra come si fa nella riforma Moratti, dove addirittura si crea un
secondo canale di istruzione che è la formazione professionale con una
finalità tutta opposta a quella sancita dalla Costituzione, creando una
disuguaglianza dei cittadini; al contrario, la scuola deve tendere a
creare uguaglianza tra i cittadini.
Se sono questi i punti fondamentali del nostro assetto costituzionale
entro il quale si colloca il Titolo V, l’autonomia scolastica acquista
maggiore importanza proprio alla luce del Titolo V. Quando ho letto il
ricorso costituzionale intentato dalla Regione Emilia Romagna mi sono
preoccupato fortemente perché nel ricorso c’è la tendenza a una
concezione localistica che io definisco “parabossiana”, cioè di essere
tutrice anche dell’autonomia scolastica. Allora la mia preoccupazione è
che, in un quadro normativo ancora in fieri, ci sia una corsa
all’accaparramento di funzioni. E l’anello debole di tutto ciò è
l’autonomia scolastica che rischia di essere invasa da più parti.
Sono d’accordo che l’autonomia scolastica rende flessibile un sistema
scolastico con una sua articolazione che permetta l’interazione con il
territorio a tutti i livelli, ma non è soltanto questa la sua funzione.
A mio parere l’autonomia scolastica deve innanzi tutto garantire
l’autonomia della scuola, cioè deve preservare il pluralismo scolastico
da possibili interferenze del potere politico ed economico.
Pertanto oggi più che mai c’è bisogno degli organi collegiali, ma vanno
ripensati: c’è l’esigenza di dare piena attuazione al 1 comma dell’art.
21 della legge n. 59:
“L’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi si
inserisce nel processo di realizzazione dell’autonomia e della
riorganizzazione dell’intero sistema formativo”.
Noi finora abbiamo attuato soltanto un pezzo di tale articolo con il
rischio che l’autonomia delle istituzioni scolastiche diventi la
peggiore delle autonomie, ossia l’autonomia competitiva, l’autonomia di
una scuola che fa la guerra a un’altra scuola.
Dobbiamo invece recuperare l’autonomia come momento di
partecipazione del sistema scolastico nel suo complesso all’interno di
un sistema che deve essere del tutto autonomo dal potere esecutivo.
Dobbiamo valorizzare l’autonomia delle istituzioni scolastiche, e per
garantire l’istituzione scolastica pluralistica dobbiamo rimettere mano
al rapporto tra dirigente scolastico e organi collegiali ripristinando
la loro funzione di coordinamento. Dobbiamo altresì valorizzare il
sistema di rete per creare il potere della scuola perché la scuola possa
effettivamente interagire e non essere subalterna agli altri poteri.
Ma dobbiamo anche completare il sistema nazionale di autonomia, il che
significa che il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione non può
essere un organo tecnico di un Ministro che dà gli indirizzi culturali.
Occorre pensare a un governo dell’autonomia, a un sistema scolastico che
si autogoverna apertamente con le componenti della società e della
cultura. Dobbiamo ripensare a un sistema di organi collegiali che, ad
ogni livello, sia il momento del governo dell’autonomia e della garanzia
effettiva della libertà di insegnamento. La politica scolastica la fa il
Parlamento, ma gli indirizzi culturali, i curricoli, gli standard di
valutazione, tutto quello che è la didattica a livello nazionale devono
essere attribuiti al mondo della scuola che deve garantire non solo il
pluralismo, ma anche l’autonomia dal potere esecutivo. In questo modo si
evita che ad ogni nuovo Governo, cambino le indicazioni del ministro di
turno in carica.
In questo quadro, organi collegiali non corporativi devono avere un
potere decisionale nelle materie che attengono alla didattica.
Se si rafforza il sistema di autonomia della scuola nel suo complesso,
la competenza tra le regioni o lo Stato assume la veste di un problema
di supporto al sistema scolastico. Mi preoccupa invece il dibattito che
ruota intorno alla sentenza della Corte Costituzionale n. 13: avere una
scuola toscana, una emiliana e una veneta sarebbe la fine del nostro
sistema formativo, la fine della cultura.
Sono uno dei pochi Direttori generali regionali che ha fatto anche il
Provveditore per tanti anni, quindi ho vissuto tutte le esperienze degli
organi collegiali a livello territoriale. Attualmente viviamo una
sovrapposizione tra la vecchia e la nuova normativa nel senso che tutti
affermano l’estrema importanza degli organi collegiali, ma bisogna
chiarire questa mappa dei poteri e delle competenze nella scuola. Un
organo rappresentativo è indispensabile per coerenza con il sistema
costituzionale che dà grande rilievo all’autonomia delle scuole. Ma il
tema è: sono ancora importanti gli organi collegiali? A livello di
scuola sicuramente, ma io mi pongo un problema: se il sistema fosse così
inadeguato, l’avremmo già cambiato in quanto il Parlamento esercita il
proprio ruolo sotto la spinta di interessi della collettività. Ma se
questo sistema si è stabilizzato, tentare a tutti i costi di modificarlo
potrebbe avere effetti indesiderati. Non sono mai stato un conservatore,
tuttavia questa è una delle poche volte in cui comincio a parlare in
termini di conservazione.
Si dice di dare maggiore peso ai genitori. Nessuno mette in dubbio
l’importanza della rappresentanza dei genitori ma riscontro che, bene o
male, questa sinergia c’è. Introdurre altri meccanismi? Ce ne sono già
tanti. Alcuni sono stati inseriti per contratto - ci sono le RSU, altri
per le nuove esigenze di autonomia - il collegio dei revisori - e credo
che a questo punto il dirigente scolastico ne abbia a sufficienza.
Modificare la composizione del consiglio di istituto per introdurre
altre rappresentanze sindacali non so se sia giusto: potrebbe rischiare
di moltiplicare la possibilità che le istanze politiche e sindacali poi
di fatto si riversino nella scuola.
La mia proposta è pertanto di tenerci gli organi collegiali così come
sono, altrimenti modificarli potrebbe essere molto problematico:
scatenerebbe situazioni che difficilmente potremmo considerare.
Peraltro, nella mia vita di direttore regionale, ex provveditore, mi
confronto con i dirigenti scolastici, ma soprattutto con una realtà che
oggi forse è veramente l’organo di governo del sistema: le reti delle
scuole. Pertanto iniziamo a ragionare in termini di momenti di
rappresentanza delle istituzioni scolastiche associate tra loro.
A livello territoriale, sicuramente il livello nazionale è
importantissimo, il livello regionale è altresì fondamentale. Oltretutto
qualche esponente di spicco della regione mi ha detto: “Ma perché dovrei
nominare rappresentanti in un organo rappresentativo che poi di fatto
regola materie che sono mie?” E non ha tutti i torti.
La sentenza della Corte Costituzionale - che io non vedo con la
preoccupazione di molti colleghi ma come un normale processo di
attribuzioni di competenze previste sia dal Titolo V della Costituzione
sia dalla realtà - afferma una logica che dovrebbe essere coerente con
l’attribuire l’indirizzo a qualcuno, il controllo a qualcuno e l’azione
e la gestione ad altri. Quindi se la dimensione deve essere di carattere
regionale, ben venga la diversità.
Il piano di razionalizzazione della rete scolastica era di competenza
del provveditore, e ogni volta che io Provveditore dovevo fare questo
piano venivo accusato di essere non il tutore della scuola ma un
ragioniere che chiudeva, accorpava o riduceva gli organici. Quando poi
queste competenze sono passate ad altri, nessuno ha accusato né la
Provincia né la Regione di avere ragionato in termini ragionieristici.
Allora probabilmente contemperare interessi politici diversi fa sì che
si raggiunga un obiettivo con un confronto molto più aperto e allargato,
cosa che faceva anche il provveditore ma che non gli si riconosceva.
Con riguardo agli organi territoriali, nella fase transitoria molti
poteri erano stati attribuiti ai CIS (Centri Intermedi di Servizio) e
oggi si parla di Consigli Scolastici Territoriali. La mia esperienza è
che il Consiglio Scolastico Provinciale non funziona più da anni,
nessuno ne sente la mancanza e nessuno lo rimpiange. Quando furono
costituiti i distretti, grandi prospettive dovevano coincidere con le
aree sanitarie, con le zone di decentramento, ma visto che adesso non
coincidono più con nulla, allora forse sarebbe il caso di suggerire alle
province e alle regioni di ragionare in termini di dimensionamento di
competenze.
Il fatto che molte competenze siano state attribuite alle regioni mette
molti in crisi perché hanno il timore di attribuire competenze a chi le
possa esercitare in maniera diversa rispetto ai diversi territori.
Affinché non si verifichi il timore che ha rappresentato l’avvocato
Mauceri credo sia necessaria una cosa: una nostra considerazione
all’interno del territorio di questi interessi che devono rappresentare
l’unicità all’interno della scuola. Questa è la funzione che devono
avere i direttori regionali, altrimenti corriamo il rischio di essere
affidati alle regioni in termini probabilmente difficilmente
controllabili.
Rappresento un’associazione di genitori che è nata nel 1976, quindi
coetanea e sviluppatasi in modo speculare agli organi collegiali.
Nasceva esattamente nel momento in cui si pensava di dover fornire
supporto, assistenza, aiuto ai genitori che intraprendevano un percorso
allora chiamato “di cittadinanza”.
Trovo molto sensata la domanda che apre questo nostro stare insieme e
cioè se hanno ancora senso e se ci sia ancora bisogno degli organi
collegiali. La necessità di storicizzare gli organi collegiali è
fondamentale perché, da un lato, possiamo dire cosa è accaduto in quasi
trent’anni e soprattutto cosa è accaduto alla categoria della
partecipazione, diversissima nella sua accezione dal 1974 ad oggi,
dall’altro stiamo assistendo a un movimento che viene dal basso per cui
è rispetto al genitore istituzionale eletto più forte il movimento.
Chi osserva le dinamiche della vita scolastica di questi anni vedrà che
è più vivo il comitato dei genitori piuttosto che l’organo collegiale
della scuola, quasi come se, una volta che l’organo collegiale si è
istituito, anche il genitore entrasse in un linguaggio rituale che nulla
ha più a che fare con la base dei suoi stessi eletti. Lo dico perché,
ragionando tutti i giorni con i genitori, mi chiedono non come
organizziamo la campagna elettorale ma come si fa un comitato genitori.
Siamo davvero entrati a far parte di una ritualità - quella degli organi
collegiali - che ha svuotato completamente di senso? Essendo
un’osservatrice in trincea - ma è sotto gli occhi di tutti quello che è
accaduto agli organi collegiali, nessuno si dimentica che ormai le
elezioni dei genitori nelle scuole superiori sono un’elezione bulgara
che chiedono soltanto al candidato di ritirarsi.
Non insisterei tanto nella detrazione degli organi collegiali tout court
perché a tutt’oggi sono una straordinaria scuola di democrazia: il
genitore esce in qualche modo dal suo individualismo e si sforza di
assumere linguaggi, fa un apprendistato di regole che prima gli erano
sconosciute e ragiona da cittadino e non da genitore.
So che questo dibattito è inquinato proprio dal fatto che c’è questo
familismo che attraversa la legge n. 53 che ci rende poco sereni nel
dibattito. Sono altresì convinta che questa alleanza genitori/insegnanti
di questi ultimi tempi può non essere un’alleanza di lunga portata ed
esaurirsi in una battaglia dell’hic et nunc che non scardina ruoli e
competenze, ma che anzi è più che mai avviata a due corporativismi che
saranno conflittuali. Sento che la figura del genitore, così
prepotentemente introdotto, diventa sempre più il ruolo di colui che
indicherà il livello di soddisfazione relativamente al servizio erogato
e non farà altro che far alzare le difese “corporative” dei docenti.
Credo che questa comunicazione tra genitori e insegnanti rischi, nei
tempi più lunghi, di diventare una comunicazione bloccata e sulla
difensiva.
Sono molto preoccupata rispetto a un’ipotesi di organi collegiali
laddove, in nome della competenza e della durata degli insegnanti
piuttosto che i genitori, si dice che la legittimità del governo della
scuola deve risiedere in chi per più lungo tempo attraversa il panorama
scolastico. Una visione di questo tipo la trovo pericolosissima, visione
che parte dagli interessi che si rappresentano, come se in questo paese
fosse davvero impossibile fare il salto dall’interesse individuale a
quello generale. Sembra cioè che non possa esistere il livello della
negoziazione delle parti.
Pur rappresentando la categoria dei genitori, mi chiedo se non sia il
caso di ripensare tutto.
Io nasco nel CGD, nasco nel 1976 e nasco con una logica che era quella
dei diritti dei numeri e delle parti; sento che qualcosa di nuovo deve
entrare nella nostra riflessione, sento che il termine negoziazione è
importante e fatico - lo confesso - a fare questo salto. E credo davvero
all’autonomia come vicinanza dei governati rispetto ai governanti.
Questa era la strada. Oggi invece nelle scuole viviamo con un dirigente
che rende questa normativa incongruente; penso alle giunte esecutive:
che senso hanno oggi nella conduzione e nel governo della scuola? Penso
che vada ridefinito il livello di responsabilità delle parti per
condurci a una riflessione complessiva che smobiliti una volta per tutte
questa pericolosissima idea dell’individualismo proprietario dei
genitori.
Se non induciamo la possibilità di crescita dei genitori che sia
quella di potere accedere a dire che il figlio non è un clone che non lo
puoi proteggere in eterno, che non ti scegli la scuola su tua misura,
che la tua partecipazione deve corrispondere a un orizzonte di diritti
condivisi, che questa può essere la scuola dell’interesse generale, io
credo che non facciamo un salto in avanti. E mi piacerebbe che
la discussione potesse procedere al di là del segno della corporazione.
Sono uno studente del Dante Alighieri, sono responsabile per quanto
riguarda gli organi collegiali della Sinistra giovanile di Roma e
provincia ma sono qui come studente, non per riferire un’opinione di
partito.
Abbiamo parlato della riforma Moratti e sembra scontato dire che una
riforma che interessa gli studenti debba essere decisa insieme agli
studenti, o quanto meno gli studenti dovrebbero essere ascoltati. Questa
riforma è stata presentata da tre anni durante i quali manifestazioni ce
ne sono state molte, non solo da parte della Sinistra e non per
manifestare contro il Governo. In questi tre anni ci sono state
moltissime manifestazioni e marciavamo insieme agli studenti di Azione
Giovani. Questa è una riforma che non piace agli studenti, ai docenti e
ai genitori, e io non vedo perché questa riforma debba essere portata
avanti con questa politica del muro contro muro, facendo la voce alta e
sfuggendo il confronto con quelli che avranno a che fare con questa
riforma.
La riforma non solo riguarda le persone ma soprattutto andrà a decidere
della classe dirigente del futuro. Questa riforma la ritengo anche
classista in quanto già a tredici anni impone una scelta delicatissima:
decidere o l’avviamento professionale o la prosecuzione degli studi, con
la conseguenza che si creerà un forte divario fra una classe dirigente e
una classe che rimarrà accantonata. Gli studenti si sono fatti sentire
in questi anni ma il Ministro ha sempre fuggito il confronto. A questo
proposito vorrei citare qualcosa che è accaduta la scorsa settimana alla
trasmissione televisiva “Ballarò”.
"Ballarò” vede sempre la presenza di studenti e genitori; ebbene, la
prima volta che è intervenuta il Ministro Moratti è stato vietato agli
studenti di partecipare.
Penso che chi decide la politica di un paese, chi decide il futuro dei
cittadini non è qualcuno superiore ai cittadini ma semplicemente uno che
li rappresenta: chi è in Parlamento non per questo è più importante di
chi fa un altro lavoro ma semplicemente lo rappresenta e quindi non può
arrogarsi il diritto di non rendere conto a chi lo ha messo in quella
posizione.
Tornando alla puntata di “Ballarò”, noi avevamo fatto richiesta alla RAI
di partecipare al programma, ma questa volta il permesso ci è stato
negato. Pertanto ci siamo recati davanti alla sede RAI di via Teulada -
non era una manifestazione ma volevamo solo dimostrare pacificamente,
senza interrompere il flusso stradale - e dopo mezz’ora sono arrivate
alcune volanti della Polizia che ci hanno portato in Questura fino alla
fine della trasmissione, dopo di che ci hanno rimesso in libertà senza
alcuna conseguenza. Questo vuol dire che non c’era alcun estremo perché
noi fossimo portati in Questura.
A noi studenti questa riforma non piace e forse chi è davanti al
televisore non lo avverte perché constato che non si parla tanto della
riforma Moratti. A Roma c’è almeno una manifestazione a settimana contro
la riforma ma in televisione non se ne parla mai, a meno che non accada
qualche incidente in modo da poter parlare male dei manifestanti.
Questo va a minare non solo il diritto degli studenti di avere una
riforma condivisa da loro stessi, ma anche - cosa ben più grave - il
diritto di manifestare un dissenso che è stato negato non solo nel caso
di via Teulada ma in generale. Quando ci sono le manifestazioni e
nessuno ne parla, questo significa che non si vuole far sapere quello
che accade, si vuole far pensare che tutto vada bene quando invece così
non è.
La consulta provinciale degli studenti rappresenta l’organo di maggiore
rilievo in quanto dà la possibilità degli studenti di far sentire la
loro voce a livello istituzionale. Della consulta provinciale però non
sa niente nessuno e non a caso gli unici componenti della consulta fanno
parte di organizzazioni politiche che hanno interesse ad essere
rappresentati in un organo istituzionale. Questo avviene perché gli
studenti non hanno la consapevolezza dei loro diritti, molti non sanno
nemmeno dell’esistenza dello Statuto degli studenti, quando invece
dovrebbe essere distribuito nelle classi.
Se la riforma del 1973-74 era una rivoluzione silenziosa, in questi anni
si sta attuando una regressione silenziosa: ci stanno togliendo tutti i
diritti che avevano conquistato i nostri genitori in anni e anni.
La consulta provinciale oggi pertanto è oggetto di una spartizione fra i
partiti: già nel mese di marzo nelle sedi di partito si sta discutendo
su chi sarà il presidente, chi saranno i consiglieri. Se poi la consulta
provinciale non riesce ad attuare una politica vera che vada in
direzione dei bisogni veri dei giovani è normale perché oggi la consulta
provinciale è qualcosa che non fa nulla o quasi: ogni tanto riusciamo a
fare qualche iniziativa ma siamo imbrigliati nelle logiche di partito.
La consulta provinciale oggi non rappresenta gli studenti ma il partito:
cioè i partiti riescono, per mezzo dei giovani, a essere rappresentati
anche nella consulta provinciale che invece dovrebbe essere qualcosa
proprio dei ragazzi.
Per far sì che questa situazione non permanga, è fondamentale che lo
Statuto degli studenti non solo venga applicato, ma ancor prima venga
reso noto.
L’autonomia, è vero, è un baluardo della libertà in quanto fa sì che le
scuole non dipendano da una maggioranza di governo e quindi che ogni sei
anni ci siamo degli stravolgimenti all’interno delle scuole ma in modo
che le scuole, essendo autonome, possano decidere della propria politica
interna in base alle vere esigenze.
Ancor prima dell’autonomia dobbiamo discutere dei fondi perché se c’è
autonomia ma mancano i fondi, la scuola ha le pareti che crollano. La
riforma toglie 280 milioni alle scuole - ai voglia a parlare di
autonomia!.
Parlo a nome dei presidenti dei distretti scolastici presenti.
Ci sono state tre interrogazioni parlamentari da parte dell’on. Publio
Fiori, del sen. Falomi e dell’on. Pasetto. Leggo la risposta del
Sottosegretario Aprea del 23 febbraio 2004 all’on. Fiori: “Si fa
presente che, nelle more, l’emanazione del Decreto Legislativo recante
norme di riordino degli organi collegiali territoriali della scuola, sia
a livello locale sia a livello nazionale, gli uffici scolastici
regionali hanno già intrapreso o sono in procinto di intraprendere le
misure organizzative idonee per corrispondere alle peculiari esigenze
dell’ambito territoriale di loro pertinenza”.
L’interrogazione era del 23 giugno ma, non avendo ottenuto risposta,
l’on: Fiori ha sollecitato la risposta il 27 ottobre e proprio quel
giorno, caso strano!, c’è stata la circolare del MIUR ai direttori
generali di arrangiarsi. La risposta del Sottosegretario prosegue: “In
via generale ed a mero titolo di contributo, in data 27 ottobre 2003 ai
medesimi uffici scolastici regionali sono state comunque prospettate
alcune possibili linee di intervento per consentire ai distretti
scolastici di poter svolgere le incombenze relative ai loro compiti,
tenuto conto che le disposizioni contenute nell’art. 35, comma 4, della
legge 288 del 2002 - legge finanziaria - non consentono a detti organi
di avvalersi di personale della scuola all’uopo utilizzato. In
particolare è stato suggerito di valutare la possibilità, sentite le
organizzazioni sindacali, di assegnare a detti organi personale docente
collocato temporaneamente o permanentemente fuori ruolo per garantire
continuità alle iniziative da intraprendere e alla definizione di
procedure e adempimenti eventualmente in corso, oppure, se ciò non fosse
possibile o non vi fossero attività in corso di definizione, di dare
incarico a una istituzione scolastica per curare la sistemazione e la
custodia di atti significativi e per fornire all’occorrenza supporto”.
Arrivati a questo punto, mi meraviglio che l’on. Aprea, che è un
dirigente scolastico, ignori completamente la norma. I presidenti dei
distretti scolastici, ancorché organi elettivi, sono responsabili
giuridicamente. Noi abbiamo depositato il nostro codice fiscale, siamo
consegnatari del materiale, dobbiamo fare il bilancio, il consuntivo.
Vorrei sapere cosa sta facendo il Direttore generale dottor De Santis
perché altrimenti io presidente potrei essere perseguibile per
interruzione di pubblico servizio e omissione in atti d’ufficio:
infatti, fin quando gli organi non saranno soppressi, l’amministrazione
dovrebbe garantire.
Vi sono una serie di contesti che rendono difficile la situazione di
chi deve procedere sulla strada dell’attuazione del sistema di
istruzione.
Le difficoltà di contesto attengono ai segni obiettivamente ambigui e
contrastanti che noi abbiamo all’interno del quadro generale.
Noi viviamo in un contesto istituzionale di regionalismo predicato e
centralismo praticato. Il dibattito politico-istituzionale è
iperlocalista, per contro le decisioni che vengono assunte sono
tendenzialmente centraliste.
Sembra che il motto di questa legislazione sia “più Stato e più
mercato”, “più decisioni al centro e più cose lasciate all’esterno”.
Poi vi sono un eccesso di innovazione cartolare e un minimo di
innovazione praticata: da questo punto di vista la vicenda
dell’autonomia scolastica è esemplare. La mia sensazione è che in questi
anni sia mancata una politica di implementazione dell’autonomia in una
condizione in cui si afferma genericamente che c’è una grande tendenza
autonomistica ma, come tutti i processi non alimentati, il processo
dell’autonomia si è svuotato.
Penso che la tendenza alla deconcentrazione del sistema non sarà messa
in discussione, perché fa parte di tutti i paesi che conoscono la
globalizzazione i quali hanno anche elementi di localizzazione per
controbilanciarla. E anche lo stesso processo dell’autonomia scolastica
ha utilizzato lo spirito di autonomia.
Detto questo, il problema vero di questo Governo è il rapporto fra
l’autonomia delle istituzioni scolastiche e gli altri livelli di governo
e cioè le altre autonomie.
Il disegno che stava dietro sia la legge 537 del 1993 - la prima che
introdusse l’autonomia, sia l’art. 21 della legge 59 del 1997 ha questa
idea di fondo: l’autonomia delle istituzioni scolastiche intende
realizzare la separazione tra il servizio tecnico dell’istruzione e la
gestione non tecnica dell’istruzione che deve implementare questo
servizio. Questa autonomia va affermata e protetta nei confronti di
tutti i livelli di governo, sia statale, sia regionale e locale, anche
se si implementa e vive nel rapporto con gli altri livelli di governo
che hanno la responsabilità dell’implementazione del servizio di
istruzione come servizio chiamato ad attuare i diritti di cittadinanza.
In questo quadro l’art. 21 della legge 59 rispondeva a questa
idea: l’autonomia della scuola era distinta dall’autonomia di regioni,
province e comuni ma con questa dialogava.
Con la modifica del Titolo V della Costituzione è cambiato non il ruolo
dell’autonomia delle scuola ma il come l’interlocutore di questa
autonomia si atteggia che non è più soltanto un centro statale ma un
centro che conosce anche un pluralismo istituzionale.
Pur tuttavia questo dinamismo non erode - o non dovrebbe erodere - spazi
all’autonomia delle scuole, bensì dovrebbe realizzare questo centro che
parla della scuola.
Per realizzare questo processo occorrono due condizioni.
In primo luogo è necessaria una direzione salda e una
capacità di indirizzare il sistema di istruzione verso questa nuova
realtà; il passaggio da una sistema puramente verticale a un sistema di
rete di istruzione va implementato e applicato giorno per giorno, vanno
date risorse e va completata anche l’autonomia delle scuole perché sul
piano dell’apparato giuridico l’autonomia delle scuole è in cammino e
non è ancora compiutamente definita.
In secondo luogo occorre la politica per l’autonomia
per la realizzazione dei diritti di cittadinanza. Da questo punto di
vista si è fatto un passo indietro perché la scuola è uscita dalla sua
autoreferenzialità quando si è posto il problema di riformare
all’interno il proprio ordinamento e di relazionarsi con il sistema
istituzionale. Oggi la preoccupazione è stata riportata esclusivamente
alla questione riguardante gli ordinamenti, ma la questione del ruolo
istituzionale è stata trascurata. Le conseguenze sono una scuola alla
ricerca del proprio governo.
Sono della UIL Scuola. Entro nell’ambito delle riflessioni comuni
attraverso un ragionamento misto del sindacalista, del docente e di un
vecchio presidente del consiglio scolastico provinciale di Rieti. Non
ricordo più una data in cui ho convocato il consiglio scolastico
provinciale. Questo lo dico con una punta di amarezza. Raccogliendo la
“provocazione” del dottor De Santis quando sottolineava che forse
nessuno ci rimpiange, rispondo che ritengo ci siano momenti nei quali
invece qualcuno ci rimpianga. Faccio riferimento all’elemento terzo ma
fondamentale di riferimento della scuola e cioè al territorio: credo che
davvero il territorio senta la mancanza di un punto di riferimento di un
luogo di discussione collegiale nel quale si affrontino questioni che
riguardano il sistema dell’istruzione e della formazione.
Il dottor De Santis avrà vissuto certamente le questioni che
riguardavano l’allora razionalizzazione della rete scolastica, l’ha
vissuto da provveditore e dunque da protagonista. Oggi non più, oggi la
subisce. Allora il provveditore - assieme al consiglio scolastico
provinciale che non conta a nulla, che non serve a nulla ma che si
occupa di quel territorio - ha deciso il futuro della rete scolastica
della sua provincia. Oggi il dottor De Santis non ha più questa
competenza neanche come Direttore regionale perché la questione è
affidata alla Conferenza provinciale dei sindaci nella quale l’allora
provveditore partecipava insieme al presidente del consiglio scolastico
provinciale, due uniche figure competenti in un mare magnum di sindaci
incompetenti la cui unica competenza era il campanile, non la scuola.
Sono convinto che il sistema nel quale è stato determinato il
dimensionamento della rete scolastica non ha guardato agli interessi
della scuola. Potrei farvi esempi da far accapponare la pelle. In
territori dove ci sono 4200 abitanti è stata costituita una scuola così
fatta: un istituto verticalizzato e una direzione didattica che
attraversa orizzontalmente il territorio e a un certo punto lo
interrompe con elementi di discontinuità.
Questo la scuola non lo voleva, e non lo voleva neanche l’allora
provveditore, l’ha voluto la politica per interessi non della scuola.
Sottolineato che la RSU non è elemento di democratizzazione
della scuola nel senso di organismo collegiale ma elemento di
partecipazione democratica alla gestione della scuola in quanto
rappresentanza dei lavoratori, sono convinto che la riforma -
nel cancellare la funzione dirigenziale provinciale concentrandola nella
direzione regionale - impone una forma di partecipazione.
Allora credo che il livello regionale debba essere individuato quale
elemento principe della partecipazione nel sistema del governo regionale
della scuola.
Ma il sistema delle autonomie scolastiche che si calano in un territorio
meglio identificato in quanto a confini, non ha davvero bisogno di una
partecipazione? Davvero non deve rispondere a esigenze del sistema
produttivo locale o del sistema amministrativo di quel territorio? Io
sono convinto di sì.
Reclamiamo un sistema di partecipazione alla vita democratica della
scuola nel secondo livello e quindi nel territorio. Dobbiamo individuare
un sistema di partecipazione democratica nel livello del territorio:
questo credo che risponda anche alle esigenze di quei ragazzi che prima
tanto reclamavano la loro presenza nella scuola. Io li ringrazio
davvero: abbiamo bisogno di voi, la scuola ha bisogno di voi. Ragazzi,
voi spesso dite che subite la scuola, io desidero che voi la
partecipiate.
Penso che si sia consolidata l’idea che il contesto dell’autonomia
scolastica sia un contesto oggi decisivo, strategico, significativo
soprattutto se lo sappiamo leggere in chiave istituzionale. Tra l’altro
è da tutti condiviso il fatto che l’autonomia non può essere solo una
ginnastica istituzionale cioè non è solo l’elogio della flessibilità
fine a se stessa, ci deve essere qualche valore di fondo in gioco: penso
ad esempio al tema dell’equità e quindi degli obiettivi, delle finalità
istituzionali, quelle che leggiamo anche nell’art. 1 della legge n. 30 e
nell’art. 1 della legge n. 53.
Pertanto, al di là delle affermazioni di principio, l’idea è verificare
fino in fondo se dietro i principi vi sono scelte istituzionali,
operative, giuridiche coerenti. Per esempio è preoccupante, parlando di
equità, che negli ultimi documenti spesso si trovino termini come
“capacità, talenti, attitudini, vocazioni” perché potrebbero lasciare
aperta l’idea che si vada verso una sorta di personalizzazione
rinunciataria, cioè che venga meno la capacità della scuola di fare una
proposta complementare rispetto alle differenze osservate.
Quindi mi piacerebbe trovare nei documenti parole come “opportunità,
potenzialità, capacità progettuale”, cioè un’idea di offerta formativa
affidabile dal punto di vista tecnico-professionale.
Per questo nel mio intervento di questa mattina accentuavo la
responsabilità dei soggetti professionali della scuola dell’autonomia.
Non ci appassioniamo nel dibattito sulla composizione degli organi
collegiali, penso che ci dovremmo attestare su un lodo onorevole della
pariteticità delle presenze delle diverse componenti con una presidenza
di garanzia per i genitori. Ma soprattutto, ripensando agli organi
collegiali, dovremmo approfondire le funzioni che stamattina ricordavo e
cioè:
- l’approvazione del POF come ambiente del curricolo in un contesto;
- l’elaborazione come responsabilità del curricolo della scuola in
capo agli insegnanti,
- il collegio dei docenti non solo come organismo rituale ma come
un’articolazione intermedia, come una sorta di nervatura intelligente
dell’autonomia;
La partecipazione è l’elemento di forza non tanto nell’intelaiatura
degli organismi quanto nelle procedure di ascolto, di concertazione, di
rendicontazione, cioè una sorta di modello processuale trasparente dei
processi decisionali, fino ad arrivare alla rilettura dei compiti
gestionali del dirigente scolastico con riferimento alla normativa degli
anni Novanta, ma con un’esigenza di tenere aperta l’idea che il
dirigente scolastico non è solo il terminale dell’amministrazione, ma
anche il portavoce della dimensione partecipativa del contesto.
Se è questo il futuro dell’autonomia - cioè una trasparenza partecipata
dei processi decisionali, ci dovremmo chiedere cosa ci deve essere a
fianco della scuola dell’autonomia. Ci sono parecchie candidature:
l’amministrazione, gli enti locali, la filiera tecnica, le stesse scuole
con il sistema delle reti. Collegare lo sviluppo dell’autonomia delle
scuole con lo sviluppo del contesto istituzionale diventa estremamente
importante. Ci sono per esempio le idee dei tavoli o delle
concertazioni, in molti territori vi sono esperienze interessanti di
costruzione di sedi di concertazione.
Penso anche che dovremmo riflettere su come sta cambiando
l’amministrazione scolastica a seguito del Decreto n. 319 che
sostituisce il Decreto n. 347 e che il processo indicato nel Decreto n.
319 si debba confrontare con la sentenza n. 13 della Corte
Costituzionale.
Il Consigliere Paino propendeva per un modello inglese, cioè non più una
doppia filiera - Stato ed enti locali - nel territorio, ma la sola
filiera degli enti locali. Questo mi fa porre la domanda sul chi
potrebbe garantire nel territorio le norme generali, i principi
fondamentali, i livelli essenziali.
Un altro argomento riguarda la filiera tecnica di sostegno alle scuole.
Una volta tramontata l’ipotesi dei CIS, non c’è nulla in sostituzione di
essi. Spesso facciamo l’elogio delle reti ma anche questa è un’idea
evanescente. In Emilia Romagna abbiamo fatto un censimento molto
interessante dal quale è emerso che su 560 scuole abbiamo 300 reti. Ma
chi sostiene le reti? Chi aiuta le reti? Non abbiamo neanche un’anagrafe
delle reti. E soprattutto queste reti danno vita anche a delle strutture
permanenti - come è detto nel regolamento, laboratori territoriali per
la formazione, la ricerca e la documentazione e la valutazione? Forse
non è più il tempo di grandi ingegnerie concertative, di grandi tavoli
ma c’è bisogno di strutture di supporto.
La legge regionale dell’Emilia Romagna parla di centri servizi di
consulenze. Immagino che un processo interno di consolidamento
dell’autonomia - nel senso di condivisione di responsabilità, ma allo
stesso tempo anche di distinzione della stessa responsabilità - deve
avvenire non solo all’interno della scuola ma anche sul territorio tra i
soggetti che oggi si candidano a governare insieme.
Ringrazio per aver partecipato a questa lunga iniziativa.
Alcune osservazioni rispetto a questa giornata. Abbiamo ascoltato tutte
le voci che era necessario ascoltare in un ragionamento per quello che
riguarda il futuro della nostra scuola e gli organi collegiali.
La domanda che era alla base di questa iniziativa ha una
risposta positiva: gli organi collegiali servono ancora. Ciò che serve
anche è non guardare al passato ma guardare a un presente che è più
complesso e difficile rispetto a quello del 1974, c’è la necessità di
costruire un equilibrio di segno diverso rispetto allo scenario
istituzionale del Titolo V.
Ricordo in particolare l’intervento del Consigliere Alessandro Paino che
ci ha dato un quadro molto interessante sul significato della sentenza
della Corte Costituzionale.
Dicevo che la domanda ha una risposta positiva pur con diverse
accentuazioni, articolazioni e punti di vista. Sicuramente rimane il
dato che il tema dell’autonomia scolastica è uno dei temi fondanti e
rispetto alla quale non si può prescindere non soltanto perché è nella
costituzione, ma perché qualsiasi ragionamento deve partire proprio
dall’autonomia.
Un altro ragionamento deve partire dalla necessità di un sistema di
rappresentanza che sia pluralista e che guardi ad un rapporto diverso
con le comunità locali: penso che da questo punto di vista il percorso
assolutamente innovativo che noi abbiamo avviato di un confronto con le
rappresentanze dei dirigenti scolastici nei territori, l’esigenza molto
forte che abbiamo avvertito di un rapporto sinergico e sistematico tra
il sistema dell’autonomia scolastica e il sistema delle autonomie locali
costituiscano dei punti imprescindibili.
Se non vogliamo un’autonomia che sia autoreferenzialità, se non vogliamo
un federalismo che sia in realtà centralismo e gerarchizzazione, se non
vogliamo una scuola in cui ci sia un pluralismo con i bavagli, dobbiamo
fare in modo che questa pluralità di voci, queste diverse sensibilità,
queste diverse responsabilità che ciascuno di noi ha, possano trovare un
momento di sintesi che non può essere deciso centralmente, ma deve
essere deciso attraverso ulteriori approfondimenti e riflessioni. Questa
discussione così ricca di riflessioni è patrimonio per i presenti e ci
impegniamo affinché lo diventi anche per gli altri.
È aperta la discussione sulla legge n. 53 e sulle nuove modalità
attraverso le quali si partecipi democraticamente con responsabilità
ciascuno per il proprio ruolo e per le proprie competenze. Il nostro
impegno è quello di replicare queste riflessioni anche in altri
territori della nostra provincia.
Daniela Monteforte
Si tratta di costruire un sistema di rappresentanze di equilibrio di
poteri che tenga conto di tre fattori: l’autonomia scolastica, il
diverso ruolo e competenze degli enti locali. È questo il senso di
questa iniziativa. Una riflessione e una proposta affinché questa
Provincia, insieme a chi fa la scuola, possa diventare elemento di
riferimento per contribuire con la sua importante e forte esperienza a
un ridisegno dell’assetto degli organi collegiali che sia il frutto di
un’esperienza accompagnata dalla volontà di perseguire la realizzazione
di una scuola sempre più plurale, con un saldo rapporto con il
territorio e con gli enti locali. La volontà di affrontare questo
equilibrio delicato, definisce l’impegno che ci siamo dati per garantire
la piena partecipazione democratica di tutti nelle istituzioni come
l’ente locale e la scuola.
Do il benvenuto ai presenti, ringrazio Edoardo Del Vecchio, Presidente
della VI Commissione consiliare e la Commissione IV della Provincia di
Roma. Abbiamo promosso questo incontro proponendovi un interrogativo
forse troppo retorico: partecipazione, programmazione, democrazia,
autonomie scolastiche: servono ancora gli organi collegiali?
Per coloro che sono impegnati a rinnovare il funzionamento della
macchina amministrativa e al tempo stesso a realizzare una politica
innovativa più adeguata ai nuovi compiti istituzionali, è del tutto
evidente e indispensabile favorire la partecipazione dei cittadini anche
come destinatari dei servizi e delle politiche educative e culturali, da
noi proposte e realizzate nel territorio. Ma è altrettanto evidente che
se chi governa ha invece una concezione aziendale del proprio ruolo,
quello che può interessare in modo esclusivo è la qualità, l’efficienza
e la bontà del risultato della sua azione che sono però unicamente
valutate sulla base di altri criteri, cioè del giudizio degli utenti
clienti e dell’eventuale possibilità di conferma delle loro scelte sul
mercato.
Non è questa la filosofia che ci ispira.
Se oggi il sistema degli organi collegiali ai vari livelli - quello
territoriale e di istituto - appare in uno stato di completo abbandono -
come documenteremo nel corso di questo nostro convegno, ciò non avviene
- a nostro avviso - in maniera casuale, perché chi ha oggi la
responsabilità del governo nazionale, si ispira alla seconda delle due
filosofie che ho prima enunciato. Le omissioni e le incertezze che si
sono verificate sul terreno della riforma di tale ordinamento sono
talmente macroscopiche che a volte ci sembra veramente di essere
governati da personaggi usciti da qualche bagaglino televisivo; ci
sforziamo di non crederlo, pensiamo di avere allucinazioni, di aver
capito male, ma alla fine dobbiamo in realtà constatare che i fatti che
stiamo verificando superano le allucinazioni.
L’ultima vicenda assolutamente incredibile di cui si sono resi
protagonisti i responsabili dell’istruzione nel nostro paese riguarda
l’elemento che è ora oggetto della nostra riflessione e discussione: la
morte dei vecchi e la nascita dei nuovi organi collegiali territoriali,
Consiglio Nazionale incluso. Il fatto incredibile è che dal 31 dicembre
2002 l’amministrazione scolastica non ha più potuto disporre di organi
collegiali territoriali, del Consiglio Nazionale - a cui pure
afferiscono competenze amministrative di tutto riguardo, e cioè questi
organismi giuridicamente non esistono più pur continuando nelle varie
sedi a riunirsi, a emettere delibere e carte che sono però ormai prive
di qualsiasi significato. Nessuno si occupa di tale circostanza, anzi,
per quanto riguarda in particolare i distretti scolastici - che pure
hanno avuto un ruolo fondamentale, la questione della loro sopravvivenza
o meno è nei fatti assegnata alla singola valutazione delle direzioni
regionali.
Gli organi collegiali di istituto. Nel quadro delle controriforme della
scuola che sono state proposte dall’attuale maggioranza governativa - e
per fortuna non ancora realizzate del tutto, di particolare rilievo ci
sembra quella che assai significativamente si richiama al governo delle
istituzioni scolastiche omettendo, peraltro, qualsiasi riferimento alla
partecipazione e alla collegialità. Questa giace nell’Aula dopo una
prima discussione generale dal 4 marzo 2002 e ancora non si ha notizia.
In effetti, al di là di marginali e confuse operazioni di cosmesi, il
progetto di legge approvato dalla VII Commissione riporta la scuola
italiana a prima del 1974, cioè a prima dei decreti delegati. Tutto ciò
comporterebbe l’eliminazione in un colpo solo di tutta l’esperienza,
sicuramente complessa e contraddittoria, della partecipazione
democratica dei genitori, degli studenti, degli operatori scolastici al
governo della scuola. Si fa in qualche modo piazza pulita di un
movimento che pure ha contribuito fortemente alla democratizzazione
della scuola, fondata su due principi fondamentali: la partecipazione e
la responsabilità, o meglio, la corresponsabilità del governo della cosa
pubblica. Con questo progetto, invece, emergono forme autoritarie e mai
sperimentate in precedenza; una gestione burocratica e verticistica del
processo educativo insieme ad alcune figure anche ambigue come ad
esempio quella del garante dell’utenza che ci fa pensare a una scuola
diversa rispetto al luogo di formazione dei cittadini e di crescita
democratica dei ragazzi - e quindi del paese. Appare il modello di
un’azienda - scuola con una concezione che mortifica le sue componenti,
presupponendo nei fatti una concezione centralistica e accentratrice.
Gli organi collegiali territoriali. Il 27 novembre 2003 il Consiglio dei
Ministri aveva approvato lo schema di decreto legislativo delegato che
poi non è stato emanato a causa del parere negativo espresso nella
Conferenza Stato/Regioni. Noi eravamo davanti a un sistema di nomine a
cascata: gli eletti da parte delle componenti scolastiche nei consigli
di istituto entravano a far parte dei consigli scolastici locali, i
presidenti e i vicepresidenti di questi consigli entravano a far parte
dei consigli scolastici regionali, i presidenti e vicepresidenti dei
consigli scolastici regionali entravano a loro volta a far parte del
consiglio nazionale dell’istruzione e della formazione composto da 55
membri, 10 nominati dal Ministero: insomma, un sistema elettorale di
fatto di cooptazione senza prevedere più il sistema della rappresentanza
delle diverse componenti.
Ora, su questo atto vi è stata una levata di scudi da parte di tutti e
io voglio ricordare i commenti pesanti da parte di Confindustria ne “Il
Sole 24 Ore”, ma anche da parte di tutte le componenti organizzate del
mondo della scuola che hanno bollato questo provvedimento che nei fatti
non avrebbe rappresentato minimamente le componenti della scuola e in
particolare i docenti - e non soltanto, ma avrebbe definito un sistema
assolutamente inutile e autoreferenziale.
In questa situazione, al di là di ogni altra valutazione di merito che
lascio al dibattito di oggi, è indubbio che la gestione di un sistema
complesso come quello dell’istruzione abbia la necessità di dotarsi di
strumentazione e di sedi che siano costruttive, ma anche decisionali e
fortemente rappresentative. Quindi delle strutture e dei luoghi che
consentano il governo delle istituzioni scolastiche e anche e
soprattutto in rapporto con le modifiche che sono intervenute
relativamente alla riconosciuta potestà legislativa delle Regioni,
all’autonomia delle istituzioni scolastiche, alle competenze statali.
Pur nelle more del nuovo ordinamento vi è sicuramente la necessità di
individuare delle forme strutturate e informali - sembra una
contraddizione ma non lo è - che possano consentire agli enti locali di
assolvere a quei compiti di coordinamento, pianificazione,
programmazione territoriale nel sistema dell’istruzione, dell’offerta
formativa, ma anche dei servizi di supporto che noi vogliamo e dobbiamo
dare al sistema dell’istruzione. È per questo che occorre l’attuazione
di un rapporto sinergico da parte degli enti locali con le istituzioni
scolastiche e tra queste e il sistema delle autonomie locali. È questo
il motivo per cui abbiamo avviato un percorso realizzando già tre
incontri per le conferenze territoriali aventi lo scopo di favorire il
coinvolgimento dei dirigenti scolastici attraverso la costituzione di
forme di rappresentanza delle scuole che siano articolate in relazione a
una ripartizione funzionale del territorio provinciale e in rapporto con
il sistema delle comunità locali e delle autonomie locali. Tutto ciò è
finalizzato anche alla costituzione di un organismo di rappresentanza
provinciale delle istituzioni scolastiche autonome. Questo d’intesa con
la direzione regionale.
Abbiamo, di conseguenza, individuato anche modelli informali ma
strutturati, ad esempio: il rapporto con la consulta provinciale degli
studenti e il progetto dello sportello informatico con gli studenti con
gli sms; forme assolutamente innovative che segnalano la necessità per
questo ente locale e per questo Assessorato, di costruire una relazione
pienamente concreta con coloro che sono le forze vere e vive del mondo
della scuola.
Un altro punto attiene alla sentenza della Corte Costituzionale del 13
gennaio 2004 che ha accolto la questione di legittimità costituzionale,
sollevata dalla Regione Emilia Romagna in riferimento agli artt. 117 e
118 Cost. dichiarando illegittima la disposizione dell’art. 22 della
legge n. 448 del 2001 nella parte in cui non prevede “…che la competenza
degli uffici scolastici regionali viene meno quando le regioni, nel
proprio ambito territoriale attribuiscono a propri organi la definizione
delle dotazioni organiche del personale docente delle istituzioni
scolastiche”, elemento questo particolarmente complesso in cui le
argomentazioni che la Corte Costituzionale pone sono interessanti
perché, pur non definendo le sfere di competenza delle norme generali su
cui lo Stato ha competenza esclusiva e quelle dei principi fondamentali
che sono destinati invece a orientare la legislazione concorrente delle
Regioni, individua la programmazione della rete scolastica - in cui
rientra la definizione della dotazione organica del personale docente e
non docente - come oggetto di legislazione regionale.
Tale sentenza porta a un altro tipo di considerazioni che attengono alle
questioni aperte con la riforma del Titolo V. Nell’incertezza
dell’attuazione del nuovo Titolo V della Costituzione e in attesa della
definitiva conclusione delle iniziative - che io definisco provocatorie
- avanzate dal Centrodestra in materia di devolution, è ormai matura la
necessità di una iniziativa di carattere legislativo regionale che,
respingendo ogni ipotesi strumentale di contrapposizione con la
legislazione statale, possa finalmente collocarsi in materia di
istruzione, formazione e propensione al lavoro all’interno e nel pieno
recepimento dell’ordinamento nazionale dell’istruzione la cui
definizione è di esclusiva competenza dello Stato.
Il nuovo Titolo V individua l’istruzione come materia sulla quale la
Regione esercita una potestà legislativa concorrente, fatta salva la
competenza esclusiva dello Stato in materia di norme generali
dell’istruzione e fatta salva la competenza dello Stato nel definire i
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale.
Rientrano evidentemente tra queste prestazioni tutte quelle che
riguardano l’istruzione e la formazione.
Dalla legislazione concorrente esercitabile nell’ambito di leggi cornice
definite a livello statale sono escluse, con diverse destinazioni, sia
l’istruzione che la formazione professionale - competenza esclusiva
delle regioni, ma anche l’autonomia scolastica che è competenza
esclusiva dello Stato; le disposizioni sull’autonomia scolastica si
possono quindi cambiare soltanto con legge dello Stato. Questo è il più
significativo portato della cosiddetta - costituzionalizzazione -
dell’autonomia.
Qui si apre però un nuovo interrogativo e cioè il fatto che al nuovo
assetto delle competenze legislative corrisponde in Costituzione un
nuovo profilo delle competenze amministrative.
Innanzi tutto la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie
di legislazione esclusiva - salva la delega che viene fatta alle
Regioni; su ogni altra materia - e quindi su quelle su cui si esercita
potestà legislativa concorrente - la potestà regolamentare spetta alle
Regioni. I Comuni, le Province, le Città metropolitane hanno potestà
regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello
svolgimento delle loro funzioni. In base a questo principio le leggi
regionali auspicabili, individuati i principi e i livelli che regolano e
articolano le competenze amministrative, potranno acquistare un
carattere effettivamente essenziale e più cogente, e quindi meno
farraginoso: possono quindi diventare un elemento di certezza da questo
punto di vista.
In questo quadro, la nuova Costituzione assegna ai Comuni le funzioni
amministrative relative a ogni tipo di materia e di funzione. Ciò
avviene con la limitazione - che rappresenta sicuramente uno dei nodi
politici di questa fase - di salvaguardarne l’esercizio unitario che
spetta alle Province, alle Città metropolitane e allo Stato sulla base
dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza e
soprattutto sulla base del principio fondamentale di unitarietà. Non vi
è dubbio che la legge statale dovrà stabilire la distinzione tra
funzioni attribuite allo Stato e funzioni proprie o delegate alle
Regioni. Così come è evidente che saranno le leggi regionali a
individuare le modalità e le sedi del citato esercizio unitario che è di
carattere fondamentale.
Anche nella definizione del nuovo assetto degli organi collegiali si
intrecciano le competenze legislative e amministrative di cui parlavo
prima. Sicuramente su questo vi è un vuoto di carattere normativo: non
abbiamo ancora la legislazione. Inoltre bisogna individuare un sistema
di regole che sovraintendano ai nuovi organismi e che tengano insieme un
sistema di rappresentanza di poteri, come le componenti del mondo della
scuola - insegnanti, docenti, non docenti e studenti che sarebbero
“fatti fuori” completamente da qualsiasi ragionamento sul nuovo assetto
della scuola.
Si tratta soprattutto di costruire un sistema di rappresentanze di
equilibrio di poteri che tenga conto di tre fattori: l’autonomia
scolastica, il diverso ruolo e competenze degli enti locali, la
necessità di costruire un intreccio sapiente ed equilibrato tra queste
diverse realtà.
Noi non siamo qui a ricordare in maniera nostalgica l’esperienza del
1974. Vi è stato sicuramente un buon percorso da allora, ma è indubbia
l’esigenza di riaprire un ragionamento che prefiguri uno schema di
assetto che tenga conto della riforma del Titolo V, delle competenze
legislative, delle competenze amministrative e delle esperienze
importanti realizzate con lo sguardo a quello che è la scuola oggi. Una
scuola oggi molto ricca, una scuola che ha bisogno di un rapporto
diretto e fecondo con il territorio e con il sistema delle autonomie
locali, una scuola che non viene contemplata nelle proposte di leggi e
di decreti che ci sono stati presentati.
È questo il senso di questa iniziativa. Spero che da qui possa partire
un inizio di riflessione - e, perché no, anche di proposta - affinché
questa Provincia, insieme a chi fa la scuola, possa diventare elemento
di riferimento per contribuire con la sua importante e forte esperienza
a un ridisegno dell’assetto degli organi collegiali che sia il frutto di
un’esperienza accompagnata dalla volontà di perseguire la realizzazione
di una scuola sempre più plurale, con un saldo rapporto con il
territorio e con gli enti locali. La volontà di affrontare questo
equilibrio delicato, definisce l’impegno che ci siamo dati per garantire
la piena partecipazione democratica di tutti nelle istituzioni come
l’ente locale e la scuola.
Mario Guglietti
Noi consideriamo tuttora valida l’idea di fondo della riforma del
1973-74 e assumiamo come valori fondanti del nostro ordinamento i
principi della collegialità, della democrazia e della partecipazione che
consideriamo né intaccati né messi in crisi né tanto meno superati
dall’evoluzione storica, culturale e sociale dall’ultimo trentennio ad
oggi. L’idea di fondo della riforma del 1973-74 è tuttora valida: la
scuola comunità, aperta al contributo partecipativo delle componenti che
le danno vita, il costante, dinamico e leale rapporto di interlocuzione
con i soggetti esponenziali del territorio, la solidarietà e la
cooperazione interprofessionale, le sinergie nei processi decisionali
fermo restando ruolo e responsabilità distinte sono, secondo noi, idee
che devono ancora sostenere e permeare le scelte di natura ordinamentale
che si faranno rispetto alla modifica degli organi collegiali, sia
quelli a livello di istituto sia quelli a livello territoriale regionale
e nazionale.
Intervengo nella mia veste di vicepresidente del Consiglio Nazionale
della Pubblica Istruzione, organismo in prorogatio di fatto per effetto
di un principio già contenuto nel 233, il decreto legislativo di prima
riforma degli organi collegiali territoriali del Consiglio Nazionale
della Pubblica Istruzione, ma contenuto anche nei provvedimenti di
delega per l’ulteriore riforma di questi organismi che l’attuale Governo
ha lasciato decadere per non essere stato in grado, in diciotto mesi che
il Parlamento aveva dato per l’integrazione dello stesso decreto, di
ottemperare al principio di delega che sancisce che i componenti degli
organismi tuttora in carica durano in carica fintanto che non verranno
sostituiti dai nuovi organismi.
Le prospettive di vita istituzionale lasciavano pensare che con il 31
dicembre 2001 la nostra esperienza dovesse concludersi. Il panorama non
è né semplice né facile.
Mi atterrò soprattutto all’esposizione dei punti di vista del Consiglio
Nazionale della Pubblica Istruzione sui temi della partecipazione, della
programmazione, della democrazia e dell’autonomia scolastica.
Vado all’interrogativo di fondo proposto da questo convegno: servono
ancora gli organi collegiali?
L’uso dell’avverbio di tempo “ancora” denota una precisa scelta di
merito che a mio avviso è politica e istituzionale. I processi di
cambiamento che hanno investito il nostro sistema educativo di
istruzione e formazione, essi organi collegiali - rivisitati,
aggiornati, coerenti con questa evoluzione - comportano una risposta
positiva. Sono stati utili nella pratica concreta della partecipazione,
della programmazione, della democrazia scolastica ed hanno preceduto e
avviato quel discorso che ha portato poi all’approdo dell’autonomia
delle istituzioni scolastiche. Essi hanno rappresentato una palestra di
democrazia; hanno abituato concretamente i soggetti alla pratica del
confronto, della mediazione, del perseguimento di obiettivi comuni e
condivisi e quindi delle dinamiche dei percorsi decisionali.
Partecipazione, democrazia, programmazione sono da considerare criteri e
valori che già ispiravano, informavano e connotavano sia gli indirizzi
socio-politici che le scelte giuridiche istituzionali della prima metà
degli anni Settanta da cui trassero legittimazione ordinamentale gli
organi collegiali di partecipazione - democratica - alla gestione della
scuola ai vari livelli. L’art. 1 dell’originario DPR 416 che è recepito
testualmente nell’art. 3 del Decreto Legislativo n. 297 del 1994 - cioè
il Testo Unico delle leggi sulle disposizioni legislative della scuola -
istituendo gli organi collegiali e riordinandone alcuni preesistenti ne
individuava esplicitamente la finalità istituzionale: esordisce l’art. 1
“al fine di realizzare la partecipazione alla gestione della scuola…”,
finalità che non restava fine a se stessa, ma si incardinava in un
disegno istituzionale ordinamentale di più ampio respiro: proseguiva,
infatti, “…dando ad essa il carattere di una comunità interagente con la
più vasta comunità sociale e civica”.
Siamo in presenza di una obsolescenza istituzionale e ordinamentale?
Questi concetti hanno perso valore, vitalità, vigore?
No, noi consideriamo tuttora valida l’idea di fondo della riforma del
1973-74 e assumiamo come valori fondanti del nostro ordinamento i
principi della collegialità, della democrazia e della partecipazione che
consideriamo né intaccati né messi in crisi né tanto meno superati
dall’evoluzione storica, culturale e sociale dall’ultimo trentennio ad
oggi. Principi che, a nostro parere - ossia dell’organismo del quale
attualmente svolgo le funzioni di vicepresidente, sono valorizzati da
questa evoluzione e resi ancora più significativi dai processi di
riforma che hanno attraversato e coinvolto il nostro sistema scolastico
e formativo, con particolare riferimento al riconoscimento
dell’autonomia scolastica sancito dall’art. 21 della legge n. 59 del
1997 - cioè la legge Bassanini - e più ancora dalla riforma del Titolo V
della Costituzione.
L’idea di fondo della riforma del 1973-74 è tuttora valida: la scuola
comunità, aperta al contributo partecipativo delle componenti che le
danno vita, il costante, dinamico e leale rapporto di interlocuzione con
i soggetti esponenziali del territorio, la solidarietà e la cooperazione
interprofessionale, le sinergie nei processi decisionali fermo restando
ruolo e responsabilità distinte sono, secondo noi, idee che devono
ancora sostenere e permeare le scelte di natura ordinamentale che si
faranno rispetto alla modifica degli organi collegiali, sia quelli a
livello di istituto sia quelli a livello territoriale regionale e
nazionale.
Sicuramente le scelte assunte nel 1973-74 non si sottraggono all’usura
del tempo e risentono del clima politico-culturale e dei vincoli allora
considerati irrevocabili perché discendenti dall’ordinamento
amministrativo e didattico allora vigente; a tale proposito consentitemi
una breve digressione sull’esperienza degli organi collegiali.
Fin dalla seconda metà degli anni Sessanta e per tutto il successivo
decennio viene esplicitamente messo sotto accusa l’assetto piramidale e
gerarchico dell’amministrazione della pubblica istruzione. In quegli
anni decentramento e partecipazione sono istanze che irrompono
prepotentemente nel dibattito socio-culturale e politico-istituzionale
alimentando e legittimando le diffuse ansie innovative e riformatrici di
quegli anni. È vero che i decreti delegati del 1974 - varati anche a
seguito di una decisa mobilitazione delle confederazioni sindacali -
assumendo la collegialità e la partecipazione democratica come idee
guida dell’auspicato e non più rinviabile processo riformatore,
tentarono un ridisegno complessivo dell’impianto organizzativo e
gestionale della scuola.
L’allora Ministro della Pubblica Istruzione Franco Maria Malfatti li
definì una rivoluzione silenziosa, ma in realtà non ebbero alcunché di
rivoluzionario trattandosi - questi rilievi furono esplicitati da
qualificati esperti di diritto amministrativo, Daniele, Potoschning,
Salasda, De Simone - di un’operazione di giustapposizione di nuovi
organi collegiali democratici ai tradizionali organi monocratici della
pubblica amministrazione - Ministro, provveditori, capi di istituto -
che mantennero pressoché intatte le rispettive competenze gestionali e
le connesse potestà autoritative a ciascuno derivanti dal livello di
preposizione gerarchica.
La riforma del 1974 - si obiettò in quei tempi - non ha certamente
realizzato quella gestione sociale alta della scuola, ma ha introdotto
l’idea della scuola come unità, un’idea sottratta al dibattito, allora
prevalentemente di carattere culturale e sociologico, per diventare un
riferimento di natura istituzionale e ordinamentale.
I limiti di questa scelta sono stati riconosciuti anche dal Governo
della decorsa legislatura in sede di predisposizione del Decreto
Legislativo che poi sarebbe approdato alla riforma degli organi
collegiali territoriali nel Decreto Legislativo n. 233 del 1999; in sede
di relazione introduttiva si disse - sempre riferendosi all’esperienza
del 1973-74: “L’istituzione dei predetti organi ha segnato un momento
importante nella vita della scuola, delle componenti che in essa operano
e delle stesse comunità locali. Le risposte in termini di efficacia
dell’azione svolta dagli organi in questione non hanno tuttavia
corrisposto alle attese e ciò soprattutto per la circostanza che essi
sono sorti ed hanno operato in un sistema fortemente centralizzato nel
quale le forme e gli spazi di autonomia delle scuole erano o
praticamente inesistenti - autonomia didattica e organizzativa, o
notevolmente limitati - autonomia amministrativa - e le stesse funzioni
dell’amministrazione scolastica periferica, responsabile dell’andamento
complessivo del servizio scolastico in sede locale, hanno risentito
degli effetti negativi di un modello organizzativo funzionale fortemente
squilibrato a favore delle strutture centrali.
E proprio tale sistema ha finito, in ultima analisi, col vanificare ogni
sforzo teso ad instaurare un costruttivo rapporto e dialogo
collaborativo con il sistema delle autonomie locali”.
Oggi lo scenario giuridico-istituzionale generale del paese è mutato
rispetto ai vincoli nei quali si è imbattuta e si è realizzata
l’esperienza della collegialità e della partecipazione; abbiamo avuto la
sanzione giuridico-istituzionale dell’autonomia scolastica e quindi la
generalizzazione della soggettualità giuridica a tutte le istituzioni
scolastiche che prima ne erano prive e, più ancora, la modifica del
Titolo V della Costituzione e in particolare il comma 3 del nuovo art.
117 Cost. ha elevato la tutela e l’autonomia delle istituzioni
scolastiche a rango costituzionale con il famoso inciso “salva
l’autonomia delle istituzioni scolastiche”, il che sta a significare che
un intervento sull’autonomia non potrà che essere operata se non con
legge dello Stato.
Tali modifiche dello scenario istituzionale hanno sostanzialmente
modificato l’ambito di riferimento della collocazione istituzionale del
sistema di istruzione di formazione e quindi hanno sollecitato un
ripensamento del suo impianto organizzativo e gestionale e,
conseguentemente un ripensamento della partecipazione collegiale e
democratica non in quanto istanza socio-culturale e politico-gestionale
- che noi continuiamo a ritenere irrinunciabile - ma in quanto
all’individuazione degli strumenti, delle modalità, delle condizioni di
effettiva fungibilità e di un concreto ed efficace esercizio.
Infatti già nel corso della richiamata XIII Legislatura in connessione
con i tre grandi filoni di innovazione del sistema introdotto dalla
Bassanini - il federalismo amministrativo con conferimento di
importantissimi compiti e funzioni amministrative al sistema regionale,
provinciale e comunale; il decentramento e quindi il trasferimento di
compiti gestionali dal centro agli uffici scolastici regionali;
l’autonomia - veniva chiaramente e lucidamente proposto al dibattito
politico la questione della riforma degli organi collegiali, sia a
livello di scuola del quale già si stava autonomamente occupando il
Parlamento - disegno di legge Acciarini ed altri, sia a livello
territoriale per il quale il comma 15 dell’art. 21 prevedeva una
specifica delega al Governo compiutamente esercitata e perfezionata con
il Decreto Legislativo n. 233 del 1999.
Ciò nonostante, oggi siamo in presenza di un imbarazzante paradosso
politico, giuridico e istituzionale: l’impianto partecipativo pensato e
realizzato agli inizi degli anni Settanta in quanto a soggetti, livelli,
attribuzioni, compiti, responsabilità e dinamiche relazionali, sul piano
giuridico-ordinamentale è da ritenersi tuttora vigente, anche se per
taluni aspetti di fatto inoperante, sia per effetto del mancato
perfezionamento di provvedimenti riformatori o arenatosi nelle paludi
parlamentari, sia a causa della sospensione dell’applicazione di riforme
già perfezionate. Appare curioso il comportamento di un Governo che, pur
in mancanza di nuovi progetti riformatori, sospende l’applicazione di
leggi già esistenti.
Da un punto di vista di natura giuridico-istituzionale non è proprio
quanto di meglio la scuola possa aspettarsi. Quindi sia nell’uno che
nell’altro caso sono evidenti e censurabili le responsabilità
governativa e parlamentari.
Il CNP non si è estraniato da questa vicenda e fin dal 1999 ha posto
all’ordine del giorno dei suoi lavori la necessità di un’accurata
riflessione sul significato, sul ruolo e sui soggetti della
partecipazione. La volontà di ritenere ancora culturalmente e
politicamente valida l’idea della collegialità e della partecipazione,
la riforma degli organi collegiali, tra gli obiettivi, deve porsi quello
di superare il concetto di partecipazione indistinta che nell’esperienza
concreta si è andata sempre più caratterizzando come priva di ruolo, di
poteri e di prerogative. È da ciò che poi è nato quell’atteggiamento di
disaffezione verso impegni così poco edificanti. Tra il dicembre 1998 e
la primavera 1999 ritenevamo che dovesse tenersi conto delle novità
normative introdotte dagli artt. 138 e 139 del Decreto Legislativo n.
112 - tuttora vigente anche se superato in quanto a compiti e funzioni -
che attribuiva alle regioni, alle province e ai comuni notevolissime
competenze in materia scolastica.
Per quanto riguarda le strutture territoriali, ritenevamo che ci dovesse
essere una simmetria e un parallelismo tra le mutate competenze
dell’amministrazione e i soggetti della rappresentanza, quindi pensavamo
a forme di partecipazione più sostanziali che non formali tra le scuole
dell’autonomia e le rappresentanze dei soggetti esponenziali nel
territorio.
Troviamo - e lo diciamo con grande soddisfazione - che queste nostre
riflessioni hanno trovato eco sostanziale nel durissimo e severo parere
espresso dalla Conferenza Stato/Regione che recepiva i pareri espressi
dalla Conferenza dei Presidenti delle Regioni e dall’ANCI i quali - di
fronte all’approvazione in deliberazione preliminare da parte del
Governo del nuovo schema di decreto legislativo che avrebbe dovuto
integrare e modificare il Decreto n. 233 - hanno fatto salvi i criteri e
i principi sanciti nel comma 15 dell’art. 21 della legge Bassanini. La
severità del giudizio si è espressa nella richiesta di ritiro dello
schema di decreto legislativo già deliberato dal Consiglio dei Ministri,
di una proroga della delega e dell’apertura di un tavolo di confronto
interistituzionale tecnico-politico per il riesame dell’intera materia.
Il CNP non si è ancora pronunciato sullo schema di decreto legislativo
perché è stato escluso dalla fase istruttoria di questa procedura -
tecnica peraltro ormai consolidata del Governo - e quindi ci riservavamo
di intervenire solo in sede di richiesta parere del quale sollecitavamo
un nostro coinvolgimento formale. L’ultima presa di posizione
dell’ufficio legislativo del Ministero è che, essendo la situazione
ancora molto fluida ed essendoci questo parere profondamente negativo
della Conferenza Stato/Regione, il Ministro si riserva un
approfondimento su questa materia. Pertanto in attesa degli eventi il
Consiglio Nazionale, il Consiglio scolastico provinciale e i Consigli
scolastici distrettuali continueranno, pure in questo vulnus di natura
giuridico-istituzionale, a svolgere la loro funzione anche se in un
quadro giuridico-istituzionale completamente modificato.
Emanuele Barbieri
La partecipazione degli organi collegiali serve, la scuola senza
partecipazione è come un motore senza olio e poi magari apparentemente
le cose possono andare meglio, ma nei fatti ci sono delle difficoltà
serie. Il dibattito sulla devolution sembra un dibattito tra Stato e
regioni; forse non è questo il problema: i problemi emergono nel
rapporto tra regioni e scuole. Nel 1996 agivamo in modello analogo a
quello prospettato da Gentile, nel 2002 ancora come Gentile. Siccome poi
a scuola ogni anno siamo costretti a rivedere ordinamenti, programmi,
sperimentazioni, è mai possibile che non ci possa essere un organo
tecnico di monitoraggio e di proposta di riforma? Ecco una proposta ....
La domanda (la partecipazione serve?) è legittima. Dal 1974 ad oggi sono
passati trent’anni, dall’ultima tornata di elezioni degli organi
collegiali - 1996 - sono passati otto anni e sono cambiati tutti i
parametri che riguardano la scuola. La partecipazione degli organi
collegiali serve, la scuola senza partecipazione è come un motore senza
olio e poi magari apparentemente le cose possono andare meglio, ma nei
fatti ci sono delle difficoltà serie.
Potremmo affrontare il tema degli organi collegiali secondo il metodo
top/down - dall’alto in basso, io preferisco un approccio che parta
dalla scuola nel riflettere sulle forme di partecipazione e sul modo di
come possano essere realizzate, tenendo presente che oggi abbiamo il
problema di chi abbia la competenza a stabilire queste nuove forme di
partecipazione; solitamente noi siamo abituati ad aspettarci una legge
dello Stato, mentre forse la questione è più articolata. Infine, vedremo
quali sono le forme di partecipazione necessarie e adeguate per
consentire alle istituzioni costitutive della Repubblica - comuni,
province, città metropolitane, regioni e Stato - e alle istituzioni
scolastiche autonome di esercitare in modo efficace le loro funzioni in
materia di istruzione. Sono tanti i soggetti che hanno competenze
diverse in materia di istruzione e io credo che per i diversi soggetti
siano necessarie specifiche forme di partecipazione.
Partiamo dalla scuola. Il compito della scuola è definire e realizzare
l’offerta formativa tenendo conto delle funzioni delegate alle regioni e
dei compiti e funzioni trasferite agli enti locali; deve promuovere il
raccordo e la sintesi tra le esigenze e le potenzialità individuali, gli
obiettivi nazionali del sistema di istruzione. Questi sono i parametri
regolatori di cui l’autonomia scolastica ha bisogno e per poter svolgere
questa funzione le istituzioni interagiscono con loro e con gli enti
locali. La predisposizione di una riforma degli organi collegiali che
non accoglie queste indicazioni secondo comporta un non senso, perché si
assegna un compito ad un soggetto con diverse e ambigue forme di
partecipazione.
Specificando su come la scuola realizza la sua funzione, l’art. 3 del
regolamento sull’autonomia scolastica prevede il Piano dell’offerta
formativa della scuola dell’autonomia. Tale Piano deve presentare tali
caratteristiche:
la coerenza con gli obiettivi generali educativi dei diversi tipi di
indirizzi di studi determinati a livello nazionale - anche qui viene
ribadita una funzione nazionale;
l’esigenza del contesto culturale, sociale ed economico della realtà
locale;
la programmazione territoriale dell’offerta formativa.
A questo punto il dirigente scolastico, al fine di presentare al
consiglio di istituto queste esigenze, attiva i necessari rapporti,
quindi è lasciata alla capacità, alla volontà, al tempo del dirigente
scolastico di attivare i necessari rapporti con gli enti locali e con le
diverse realtà istituzionali, culturali, sociali ed economiche operanti
sul territorio. Il Piano dell’offerta formativa è reso pubblico alle
famiglie.
Abbiamo nelle scuole autonomie funzionali supportate dagli organi
tecnici preposti a realizzare il servizio di istruzione teso a garantire
un diritto fondamentale di cittadinanza. Queste scuole hanno gli
obiettivi nazionali, le funzioni delegate alle regioni, le esigenze e le
attese, espressione quest’ultima rinvenuta nell’art. 8 del regolamento
sull’autonomia: esigenze e attese delle famiglie, esigenze e attese
degli enti locali, esigenze formative degli alunni concretamente
rilevati, esigenze e attese dei contesti sociali, culturali ed economici
del territorio.
Raccogliendo tutto questo, le scuole devono garantire il diritto
all’istruzione e quindi il successo formativo ai loro alunni.
Tutte le istanze confluiscono nel consiglio di istituto il quale dà gli
indirizzi. Il collegio dei docenti elabora il POF; il consiglio lo
adotta e poi l’attuazione spetta al dirigente scolastico e al team di
gestione.
Mi soffermo ora sulla definizione degli indirizzi, e su come il
dirigente scolastico riesce a raccogliere le esigenze, le istanze e le
attese delle famiglie. A mio avviso sarebbe sufficiente una conferenza
di scuola, convocata dal dirigente scolastico, composta dal consiglio di
istituto, dai rappresentanti delle famiglie e degli studenti, dai
rappresentanti degli enti locali e dai rappresentanti delle realtà
produttive sociali. Anche questa proposta va declinata a seconda degli
ordini di scuola. In una prima riunione questa conferenza rappresenta le
istanze, dopodiché la scuola deve giustificare il complesso delle scelte
che hanno determinato il piano dell’offerta formativa.
La scuola dell’autonomia non è un apparato autoreferenziale, assume la
sfida di rendere conto delle proprie azioni e per questo si può
autogovernare. Infine, viene elaborato un rendiconto di fine anno. Le
discussioni su pesi e contrappesi, forse, vengono a cadere perché questo
è il modo con cui la comunità locale si rapporta alla comunità
scolastica.
Chi ha la facoltà di fare queste cose? L’art. 33 Cost. dice che la
Repubblica detta le norme generali sull’istruzione. La Repubblica è
costituita dai comuni, dalle province, dalle regioni e dallo Stato, la
potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni.
Secondo la Costituzione alcune materie sono potestà esclusiva dello
Stato, alcune sono concorrenti e altre esclusive delle regioni. La
competenza esclusiva dello Stato in materia di istruzione e formazione
professionale riguarda: i livelli essenziali delle prestazioni
concernenti i diritti civili, le norme generali sull’istruzione e i
principi fondamentali cui si deve ispirare la legislazione regionale
“fatta salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche”. Quindi abbiamo
alcune questioni che sono definite, altre da definire e uno spazio
dell’autonomia i cui confini devono essere delineati.
Il dibattito sulla devolution sembra un dibattito tra Stato e regioni;
forse non è questo il problema: i problemi emergono nel rapporto tra
regioni e scuole perché nel momento in cui si danno competenze in
materia di organizzazione scolastica di gestione degli istituti
scolastici, si entra dentro materie che l’art. 21 del regolamento
dell’autonomia aveva conferito alle scuole. Per quanto riguarda la
definizione dei programmi scolastici per la parte di interesse
regionale, sembra che vi sia un regresso rispetto al principio
dell’autonomia e di curricoli: qui si riparla di programma e quindi si
ha una ingerenza rispetto alla facoltà di progettazione e di
realizzazione da parte delle scuole.
Per dipanare la matassa delle competenze ho provato a utilizzare la
sentenza della Corte Costituzionale n. 13 del 2004 nella parte in cui
recita che “…è implausibile che il legislatore costituzionale abbia
voluto spogliare le regioni di una funzione che era già ad essa
conferita nella forma della competenza dell’art. 138 del Decreto
Legislativo n. 112”. L’attuazione della Bassanini attraverso il Decreto
Legislativo n. 112 aveva elencato le competenze dello Stato, delle
regioni, delle province e dei comuni. Nel momento in cui l’art. 117
potenzia la struttura federale, non è pensabile che abbia voluto
sottrarre competenze già trasferite: è un ragionamento in negativo che
agevola una ricognizione delle competenze per una classificazione
secondo le norme generali e i principi fondamentali.
Le dizioni della legge n. 59 riferite agli ordinamenti scolastici, ai
programmi scolastici, all’organizzazione generale dell’istruzione, allo
stato giuridico del personale, rappresentano le definizioni delle
competenze non trasferite. Sulla base del regolamento dell’autonomia e
declinando i programmi scolastici, nell’art. 8 possiamo trovare la
traduzione più corretta di programma: gli obiettivi generali del
processo formativo, gli obiettivi specifici di apprendimento relativi
alle competenze degli alunni, le discipline e attività costituenti la
quota nazionale dei curricoli e il relativo monte ore annuale.
Queste a mio avviso sono l’equivalente dei programmi. Vi sono poi:
l’orario annuale complessivo dei curricoli - se a scuola i ragazzi
devono stare 30 o 36 ore, i limiti di flessibilità temporale, gli
standard relativi alla qualità del servizio, gli indirizzi generali
circa la valutazione degli alunni, gli obblighi complessivi di servizio
dei docenti previsti dai contratti, l’obbligo di adottare strumenti di
verifica. Questi a mio avviso sono l’equivalente dei programmi e dei
livelli essenziali delle prestazioni cui tutti si devono attenere.
Le regioni hanno il compito della programmazione e dell’offerta
formativa nei limiti delle risorse umane e finanziarie. Il nuovo art.
119 Cost. parla di federalismo fiscale e quindi, una volta che le
regioni avranno capacità impositiva, stabiliranno loro le risorse da
destinare; ma fino a che questo non avverrà, per garantire il servizio
lo Stato, che attualmente garantisce le risorse umane e finanziarie,
compirà un’operazione di trasferimento. La sentenza della Corte
Costituzionale dice che, anziché trasferirle all’ufficio scolastico
regionale, le deve trasferire alla regione.
Veniamo alle province. Su tutta la materia era previsto il parere del
Consiglio Scolastico Provinciale, organo di partecipazione di supporto
all’azione dell’amministrazione scolastica. Nel momento in cui alcune
competenze sono state trasferite alle province, appare nel contempo una
falla, perché nessuno ha previsto il parere del CSP.
La stessa cosa riguarda i comuni: anche qui troviamo materie rispetto
alle quali il Consiglio Scolastico Distrettuale e il Consiglio
Scolastico Provinciale avevano competenza: diritto allo studio,
orientamento, educazione degli adulti, uso delle attrezzature e dei
locali. La legge dello Stato ha trasferito queste competenze ad un altro
soggetto ma vi è da colmare un vuoto. Credo che siamo in una fase
costituente dell’autonomia scolastica e quindi alcuni tasselli vanno
costruiti, altrimenti la provincia, in nome della democrazia e del
decentramento, non agirebbe più in un’ottica partecipativa, con
l’attivazione di proposte senza sentire nessuno o dialogando soltanto le
scuole interessate.
La questione dei distretti e dei Consigli Scolastici Provinciali non si
pone in termini di conservazione o di innovazione fine a se stessa, ma
nelle esigenze derivate dalla mutazione del quadro di riferimento
istituzionale. In termini di efficacia e di funzionalità una provincia
deve esercitare la propria competenza di programmazione dell’offerta
formativa sul territorio stabilendo, ad esempio, l’indirizzo per
ragionieri piuttosto che altri indirizzi.
L’esercizio di questa competenza deve avvenire in modo autonomo o
tenendo conto della domanda, dell’offerta, delle vocazioni, delle
prospettive? La sicura preferenza per la seconda ipotesi, richiamerebbe
l’esigenza dell’istituzione delle conferenze territoriali. Il Dec. L.vo
n. 112 prevedeva gli ambiti territoriali funzionali all’organizzazione
del servizio scolastico del territorio; nessuna regione ha ottemperato a
quanto emanato. La Provincia di Roma ci sta provando. Attraverso la
progettazione di ambiti più ampi con le rappresentanze dei Comuni, delle
scuole, sociali, del personale, dei genitori, degli studenti. Le
rappresentanze DEF dovrebbero essere paritetiche. Per esempio, nel
comprensorio di Subiaco - Roma - e dintorni ci sono venti scuole e una
ventina di Comuni per un totale di quaranta persone. Se accogliamo anche
la rappresentanza del mondo delle imprese e dei lavoratori, raggiungiamo
una cinquantina di persone. La programmazione dell’offerta formativa sul
territorio non può dunque prescindere dall’attivare queste forme di
partecipazione.
I compiti della conferenza territoriale dovrebbero essere analoghi a
quelli dei distretti. Il referente è il comune o la provincia perché
anche vi era la possibilità da parte di comuni e province di istituire
organi collegiali - provinciali o comunali - a loro spese. Un accordo
tra la provincia e il comune eviterebbe una stratificazione in verticale
della scuola e quindi in queste conferenze territoriali si potrebbero
acquisire tutte quelle indicazioni, quei pareri e quelle proposte
necessari a esercitare le funzioni delle province e dei comuni. E senza
un’eccessiva fatica si potrebbe costituire anche un coordinamento
provinciale di queste conferenze per ottenere una sintesi proficua.
Il modello non sarà sempre lo stesso, dato che si configurerà in base
alle caratteristiche singolari di ogni provincia.
Credo che a livello regionale ci sia bisogno di un organo tecnico per le
forti competenze in materia di istruzione. Ogni volta che il Ministro
esercitava le sue prerogative - compresa quella della proposta di legge
del Governo, sentiva il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione.
L’art. 8 prevede che gli obiettivi specifici vengano emanati dal
Ministro previa indicazione delle Commissioni parlamentari e parere del
Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Credo che in modo analogo
ci debba essere un organo tecnico a composizione mista del mondo della
scuola. Ci deve essere poi un organo di tutela dell’autonomia, dei
diritti degli studenti, delle prerogative degli insegnanti.
Questa impalcatura è retta dall’art. 33 Cost. L’autonomia delle
istituzioni scolastiche è una garanzia di libertà di insegnamento e di
pluralismo culturale: cioè l’idea di un sistema dell’istruzione
nazionale caratterizzato da una possibilità di diversificare l’offerta
formativa tenendo conto dei contesti e delle esigenze, è garantita
dall’autonomia scolastica. Essa si sostanzia nella progettazione e nella
realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione
mirati allo sviluppo della persona, adeguati ai diversi contesti, alla
domanda delle famiglie: questo è cioè lo spazio dell’autonomia.
In questo spazio la potestà legislativa non può interferire.
Penso che avremmo bisogno di descrivere meglio questo spazio, di fare
una sorta di Carta della scuola dell’autonomia per poi definirne gli
organi.
Nel 1996 agivamo in modello analogo a quello prospettato da Gentile, nel
2002 ancora come Gentile. Siccome poi a scuola ogni anno siamo costretti
a rivedere ordinamenti, programmi, sperimentazioni, è mai possibile che
non ci possa essere un organo tecnico di monitoraggio e di proposta di
riforma?
La risoluzione dei conflitti tra l’amministrazione scolastica e
l’autonomia scolastica è un problema. Si pensi ad alcune sollecitazioni
che ho avuto nell’esercizio delle mie funzioni di Direttore generale da
parte di qualcuno che mi chiedeva perché non avessi preso le sanzioni
disciplinari nei confronti di un insegnante che aveva parlato male del
Governo. Allora bisogna mettere la scuola dell’autonomia al riparo da
questo tipo di ingerenze; per esempio il dirigente scolastico dovrebbe
essere messo al riparo da un rapporto strettamente gerarchico
dall’amministrazione, se vogliamo una garanzia di autonomia e
indipendenza.
Giancarlo Cerini
Il punto focale è quello della responsabilità che implica la
rendicontazione delle azioni attraverso la trasparenza dei processi
decisionali. Bisogna che ci sia una imputabilità delle attività a dei
soggetti identificati. Di qui la rilettura delle responsabilità
gestionali del dirigente scolastico. La responsabilità comporta la
riscoperta di spazi istituzionali e fisici per la partecipazione dei
genitori che non sono solo quelli della concertazione e della mediazione
all’interno di un consiglio di istituto. La valutazione è un elemento
che dà un senso complessivo, e allora nelle proposte di riforma degli
organi e degli organismi di gestione i nuclei di valutazione devono
essere affiancati ai processi di autovalutazione, per rendere concreta
una capacità di regolare e migliorare i processi di formazione.
Svolgerò una riflessione rivolta alle dinamiche interne alle istituzioni
scolastiche. Concordo sul fatto che siamo appena nell’anticamera
dell’autonomia scolastica. Uno scenario diverso dopo venticinque anni di
decreti delegati ci dà il segno che si è aperta nuova stagione.
Reinterrogarsi sul “dove eravamo rimasti”, su quale è il senso oggi
della partecipazione credo sia stato un atto di coraggio
dell’Amministrazione provinciale, perché probabilmente le urgenze forse
sono altre, ma è giusto occuparsi delle regole del gioco anche quando si
fa duro.
Parlando di partecipazione, oscilliamo, da una parte, tra un insieme dei
genitori come un soggetto politico disordinato - e questo ci dà
un’immagine della domanda di partecipazione - e, dall’altra, una
proposta di riforma che sollecita in maniera esplicita uno spostamento
del baricentro delle scelte educative e di politica scolastica verso un
ideal tipo di famiglia che non corrisponde più alla pluralità di
situazioni variegate nel nostro paese. E tale scelta è avocata
immediatamente ai genitori e agli studenti piuttosto che agli operatori
scolastici. Questa sollecitazione vede però i genitori quasi come
titolari di un privatissimo diritto all’istruzione. Qualche studioso
anglosassone parla quasi di una “genitocrazia”, cioè l’educazione dei
figli che dipende dalle condizioni e dai desideri dei genitori anziché
dalle abilità e dagli sforzi dei figli.
Il disagio che proviamo ad affrontare un tema complesso, delicato, che è
anche il crocevia di culture diverse rispetto al ruolo, ad esempio, dei
genitori forse risiede anche in questo tipo di percezione e di idea
culturale.
Allora credo che riparlare di partecipazione, di gestione collegiale, di
cittadinanza attiva, di regole del gioco, di organi collegiali, di
strumenti di partecipazione, di riscoperta del senso dell’autonomia
possa aiutare a ricomporre questa lacerazione e a riscoprire il
significato di una progettualità pubblica condivisa sull’educazione. È
giusto non vedere nei genitori semplicemente dei soggetti politici
collettivi, perché vi è anche l’esigenza di una crescita di una
genitorialità consapevole. La linea che è già emersa da questi primi
interventi sia quella di aiutarci a condividere un progetto nella
distinzione dei ruoli e delle responsabilità.
La riforma del 1974 cercava di considerare anche le grandi culture del
nostro paese: per esempio, la cultura cattolica, comunitaria,
personalista, solidarista oppure la cultura laica che guardava ai
modelli anglosassoni di partecipazione di autogoverno - penso all’idea
del distretto, alla cultura della Sinistra legata ai temi della
cittadinanza, della democrazia, del ruolo del territorio, della gestione
sociale. È un tentativo generoso che forse oggi tutti hanno detto di
dover rileggere con occhi diversi.
Oggi il messaggio è di un potente richiamo alla libertà. Il richiamo
alla libertà vi è anche nel regolamento dell’8 marzo 1999 n. 275 dove
viene giocata fortemente quasi in termini eversivi nei confronti delle
istituzioni: penso al cattivo uso che si fa della parola federalismo
nella sua versione urlata padana corsara, quando invece il federalismo
va associato alle radici della democrazia: ai tempi degli Stati Uniti di
fine Settecento che lottavano contro un potere imperiale o quando a
Altiero Spinelli a Ventotene nel 1941 lanciò l’idea del federalismo,
delle ragioni dello stare insieme in modo diverso - il federalismo
europeo. Dico questo perché come CIDI - Centro Iniziativa Democratica
Insegnanti - di cui sono il vicepresidente abbiamo realizzato in questi
giorni un grosso convegno sulle prospettive europee.
Sembra che i ruoli delle istituzioni incontrino una difficoltà rispetto
al loro senso di esistenza. Si tende a dire che forse non sono in grado
di fare fronte alle nuove domande sociali perché magari la
globalizzazione lascia intravedere nuove potenzialità: per esempio, le
reti informative, gli scambi, le connessioni sembrano quasi rendere
superfluo il ruolo delle istituzioni. Certo, oggi si riscopre anche il
valore dell’identità, il valore dell’appartenenza, il valore delle
risorse locali; forse anche da queste istanze nasce la riscoperta della
sussidiarietà e qui mi piace vedere un partito trasversale della
sussidiarietà, cioè l’idea di una cura degli interessi il più possibile
vicino ai diretti interessati.
Ci possono però essere dei rischi in questa enfasi del principio di
sussidiarietà. È giusto valorizzare e responsabilizzare le periferie, ma
è evidente il rischio di un localismo e di un comunitarismo: cioè il
confine tra l’autonomia e l’autarchia non è sempre chiaro. Penso che la
scuola abbia come sua finalità istituzionale l’esigenza di tendere oltre
il particolare, superare i confini, ampliare orizzonti. A scuola vi è
l’incontro dei ragazzi con i saperi universali per andare oltre
l’immediato presente, per ampliare interessi e a stabilire nuove regole
di convivenza: è quella che chiamiamo la cultura disinteressata.
Il rischio è che un approccio localistico potrebbe determinare la
chiusura e la separatezza mettendo a repentaglio le finalità
istituzionali della scuola. Ecco perché allora non è sufficiente una
visione comunitaristica o organicistica, tanto meno delle piccole patrie
etniche che stanno sulla difensiva.
Sono già stati delineati i percorsi evolutivi istituzionali dalla prima
Costituzione del 1948 - molto centrata su questo ruolo illuminista della
scuola di stato - alla decretazione degli anni Settanta - perché negli
anni Settanta non ci sono solo i decreti delegati ma anche tante leggi
sociali, alla legge n. 59 che mi sembra un accettabile punto di
equilibrio, alle incertezze che abbiamo di fronte al Titolo V e alla
futura terza Costituzione - cioè la devolution.
Le connessioni tra queste evoluzioni istituzionali, le regole fondative
della Repubblica e la scuola sono oggi molto evidenti; il punto di
intreccio è proprio l’autonomia e ne cosa pensiamo. È stato ricordato
che autonomia funzionale della scuola significa rafforzamento della
posizione della scuola istituzionale nei confronti dell’amministrazione
scolastica ma anche nei confronti degli enti locali: quel “fatta salva
l’autonomia della scuola” che è sia nel Titolo V sia nella terza
Costituzione è certamente la richiesta di una riserva di legge rispetto
all’eventuale legislazione concorrente o esclusiva delle Regioni. Poi -
dice Barbieri - c’è un’incongruenza perché rischiamo di affidare alle
regioni la legislazione esclusiva in materia di gestione e di
organizzazione che sono le due prerogative forti dell’autonomia
scolastica.
Vi è una sorta di vulnus in questo “fatta salva l’autonomia della
scuola” perché l’autonomia si sostanzia nell’autonomia gestionale e
organizzativa.
È importante ricordarsi della scuola come espressione dell’autonomia
funzionale che è ben rappresentata dall’attribuzione della personalità
giuridica alle nostre 11.000 scuole perché questo segnala, da un lato,
la terzietà della scuola nei confronti dell’amministrazione. Ma
dall’altro lato, la personalità giuridica è anche il segnale che non
siamo di fronte a una visione originaria, istituente, organicistica
delle singole autonomie scolastiche, perché la personalità giuridica la
conferisce l’ordinamento giuridico.
Il dimensionamento - cioè la vita e la morte - delle istituzioni
scolastiche, per esempio, ci richiama a una giusta collocazione delle
autonomie scolastiche nell’ambito dell’ordinamento. Ad una personalità
giuridica con un’autonomia istituzionale e con autonomia di
dimensionamento, si ha la mancanza di un organico funzionale; e
l’assenza di un budget garantito e non filtrato giorno dopo giorno dai
flussi di cassa. Manca quindi l’autonomia vera che trasforma la scuola
in un centro di risorse e di professionalità, con una propria identità e
progetto. Ecco perché credo sia stata giusta l’operazione del
dimensionamento sostenibile all’autonomia della scuola come centro
pensante che non subisce pressioni localistiche da parte del territorio
o del mercato o degli utenti.
Vista in questo modo - come capacità di interlocuzione autorevole,
l’autonomia porta con sé una domanda di responsabilità - c’è anche
nell’art. 21 della legge 59 - attraverso un rapporto più impegnativo con
la comunità esterna e con le istituzioni locali. Segnalo questa rapporto
in un’etica della responsabilità che renda conto degli spazi di
autonomia: il “chi siamo” da parte della scuola, il “cosa sappiamo
fare”, il “cosa ci impegniamo a fare” e il “come rendiamo conto di
quello che facciamo”. La dimensione di autonomia istituzionale, per chi
sta dentro la scuola, è autonomia culturale e autonomia professionale.
Quando parliamo di partecipazione o di organi collegiali o di territorio
o di autonomia, dobbiamo avere un senso di forte rispetto verso gli
operatori scolastici: sono loro la scuola, sono loro la riforma. E
dobbiamo sapere ascoltare e valorizzare la loro domanda. L’autonomia può
essere una opportunità per la valorizzazione di questa professionalità.
La scuola dell’autonomia ha bisogno di riscoprire il valore della
professionalità, di riscoprire la centralità dei processi di
insegnamento/apprendimento. Non è solo una semplice trasmissione del
sapere, ma occorre la mediazione culturale e quindi il rapporto con i
saperi condivisi dalla comunità scientifica e professionale. Questi
criteri non li vedo oggi alla base di una condivisione di un progetto:
penso all’idea dell’autonomia professionale dell’insegnante e della
collegialità degli insegnanti e quindi il rileggere il principio della
libertà di insegnamento affiancato a questa assunzione di responsabilità
condivisa.
L’autonomia e gli organi collegiali, con sedi aventi una responsabilità
condivisa, collegiale, forte, autorevole degli insegnanti,
costituirebbero un elemento anche di accompagnamento dello sforzo e del
disagio che oggi si manifesta nelle scuole. Gli organi collegiali non li
vedrei semplicemente come un tentativo di imbastire degli equilibri
scontati nelle nostre scuole; c’è un’identità progettuale della scuola
che deve essere responsabile anche di indirizzi. L’attuale è più chiara
distinzione tra le funzioni di indirizzo da un lato e le funzioni di
gestione dall’altro, ci aiuta disporre l’intelaiatura degli strumenti
partecipativi. Però quando parliamo per esempio di indirizzi del
consiglio di istituto dobbiamo cogliere il gioco dialettico tra
indirizzi nazionali della singola istituzione e indirizzi territoriali.
Va precisato il rapporto tra le decisioni locali attribuite alla
responsabilità delle singole scuole e gli indirizzi nazionali di
competenza dello Stato.
L’insistenza sulla centralità delle componenti professionali all’interno
della scuola non rappresenta la linea difensiva dell’autoreferenzialità
degli insegnanti sul mondo esterno, quanto la sottolineatura del
carattere istituzionale della scuola che non è semplicemente un luogo
dove si risponde a una domanda individuale dell’utente cliente, ma è un
luogo dove si elabora una progettualità pubblica condivisa.
Di qui vi è un grande spazio per strumenti tecnici, dipartimenti,
momenti istruttori, staff intermedi come espressione di progettualità
tecnica, di elaborazione culturale. Non vi dovrebbe essere, pertanto,
un’alleanza collusiva tra insegnanti e genitori, come oggi rischiamo di
leggere in una serie di messaggi che vengono mandati quando si parla per
esempio del diretto intervento dei genitori sulle scelte di età di
accesso alla scuola o sulla scelta su una parte degli orari di
funzionamento della scuola o sulla cogestione di linee didattiche. Credo
che invece si debba parlare di una dimensione di crescita attraverso il
confronto, l’ascolto, la partecipazione anche di una genitorialità
matura e consapevole, per esempio, su come cambiano i rapporti
all’interno della famiglia, su come cambiano i concetti di paternità e
di maternità.
Le cose più belle che ho visto nella scuola dell’infanzia erano quelle
belle serate per i genitori dei bambini di cinque anni in cui si metteva
nel cartellone dell’atrio della scuola un messaggio: “Andiamo insieme
alla scuola elementare” perché l’idea era: è un momento importante per
noi, ci fidiamo dei nostri insegnanti, ci parleranno di questo passaggio
importante, forse ne avranno già parlato con gli insegnanti delle
elementari, ci sarà un progetto delle istituzioni, cresciamo su questo.
Oggi invece se vedo cos’è l’anticipo lasciato a una scelta solitaria, in
solitudine, quasi nascosta da parte dei genitori vedo tutta la
differenza anche in una richiesta di attenzione alla specificità
genitoriale della partecipazione.
L’autonomia quindi non è semplicemente la possibilità di rispondere
rispondere in maniera immediata ai bisogni e alle domande puntuali. La
scuola deve rilanciare il proprio progetto; di qui lo spazio nuovo degli
organi collegiali e dell’autonomia.
Se l’autonomia non è un “fai da te” ma ha bisogno di capisaldi forti, di
un progetto culturale affidabile di carattere pubblico, sono d’accordo
con Mario Reguzzoni - che è stato uno dei maggiori studiosi dello
sviluppo dell’autonomia italiana nelle nostre scuole - quando dice: “Il
modello italiano dell’autonomia è molto diverso da quello anglosassone
dove nel consiglio di amministrazione sono rappresentati i proprietari o
gli azionisti della scuola che possono anche intervenire direttamente
sulle caratteristiche del processo formativo”. Il modello italiano di
autonomia - Reguzzoni la definisce “autonomia di comportamenti” -
salvaguardia l’unitarietà del sistema formativo ma aumenta la
discrezionalità, per esempio, degli operatori scolastici delle singole
scuole nella costruzione dell’offerta formativa. Di qui la riscoperta
della funzione degli organi collegiali e una rivisitazione delle
responsabilità di chi opera all’interno della scuola.
Ripensando agli organi collegiali, sarà necessario rendere maggiormente
visibile la struttura decisionale della scuola e il sistema delle
responsabilità sottostanti. Non si tratta tanto di riscoprire con il
bilancino qual è l’esattissima composizione degli interessi negli organi
collegiali ma forse conviene rendere trasparente la rappresentazione
della domanda, quindi una sorta di scansione trasparente delle
procedure: la domanda dei genitori, la domanda degli enti locali, la
progettazione della scuola. È importante riscoprire l’elemento di
trasparenza dei processi. Siccome un organismo di compensazione e di
incontro ci deve essere, la sua composizione deve tener conto di tutti
questi soggetti, con una identificazione chiara dei diversi ambiti.
Anche la riforma amministrativa degli anni Novanta ci può aiutare in
questo, nonostante si sia focalizzato sul dirigente scolastico una
responsabilità quasi monocratica sui risultati della scuola - e di cui
deve rendere conto a un altro organo monocratico che è il direttore
generale il quale, a sua volta, deve rendere conto a un altro organo
monocratico che è il ministro.
Perché è vero che il dirigente deve essere garante di questa filiera ma
deve anche essere il cantastorie dell’autonomia della scuola, cioè deve
riuscire a cogliere la domanda della comunità, le soluzioni originali
che ci sono all’interno della scuola. Occorre allora rafforzare la
dimensione della rete di responsabilità intermedia, una sorta di
leadership diffusa culturale all’interno della scuola.
Vanno poi identificate con maggiore precisione alcune funzioni come
quella della partecipazione che è cosa diversa dall’elaborazione
progettuale, che è cosa diversa dalla gestione, che è cosa diversa
dall’indirizzo e dal controllo.
Non voglio depotenziare il valore della responsabilità degli organi
collegiali in favore di altri valori considerati più produttivi -
efficienza, decisione -, ma una distinzione di queste funzioni va fatta.
Per esempio, la partecipazione forse oggi deve recuperare un significato
di informazione, di trasparenza, di conoscenze, per rappresentare
bisogni. La partecipazione - che sa anche delimitare ambiti e soggetti -
non dovrebbe perseguire prevalentemente gli obiettivi individuali,
quanto quelli di interesse pubblico. In questo senso dobbiamo anche
riflettere sull’idea che vi è un’utenza nella scuola che forse ha titolo
a dire cose sul suo funzionamento, tuttavia il concetto di base è che la
partecipazione può esprimere un interesse pubblico con protocolli di
mediazione attraverso una logica di ascolto reciproco e una
disponibilità al cambiamento. Per esempio, il problema della formazione
dei genitori, di chi assume responsabilità negli organi collegiali, come
ci possono aiutare le tecnologie - mi sembra strano che gli 11.000
presidenti di istituto italiani non siano in rete tra loro.
Il punto focale è quello della responsabilità. La responsabilità nella
scuola dell’autonomia implica la rendicontazione delle azioni attraverso
la trasparenza dei processi decisionali. Bisogna che ci sia una
imputabilità delle attività a dei soggetti identificati. Di qui la
rilettura delle responsabilità gestionali del dirigente scolastico. I
compiti gestionali sono sottratti alla gestione sociale, ma allora
dobbiamo trovare un punto di equilibrio tra una collegialità informale
che si esprime nell’interlocuzione con associazioni o comitati e una
collegialità sistemica, cioè con un processo decisionale basato sulla
partecipazione.
La responsabilità comporta la riscoperta di spazi istituzionali e fisici
per la partecipazione dei genitori che non sono solo quelli della
concertazione e della mediazione all’interno di un consiglio di
istituto; il quale dovrebbe assumere una funzione di regia leggera; cioè
di divisione capace di dar conto di questa processualità partecipata che
arriva alle decisioni.
La valutazione è un elemento che dà un senso complessivo, e allora nelle
proposte di riforma degli organi e degli organismi di gestione i nuclei
di valutazione devono essere affiancati ai processi di autovalutazione,
per rendere concreta una capacità di regolare e migliorare i processi di
formazione.
Riflettiamo su queste funzioni: partecipazione - e vedo qui l’idea della
trasparenza, della massima apertura e dell’informalità -, elaborazione -
e qui vedo una forte responsabilità degli operatori della scuola,
gestione, indirizzo e controllo. Prima di misurarsi in un necessario
percorso di possibile condivisione di uno strumento sulle regole della
partecipazione all’interno delle scuole, credo sia necessario riflettere
e chiarire a fondo sul senso della cultura delle regole, sul senso della
partecipazione, sul rispetto dell’autonomia istituzionale della scuola a
partire dalla distinzione di queste funzioni fondamentali e delle
relative responsabilità all’interno della scuola autonoma.
Luciano Corradini
Vi è il momento dell’elaborazione, il momento della gestione e il
momento dell’indirizzo, ma c’è prima qualcosa di più profondo che è dato
dall’educazione. Cioè la partecipazione è uno dei fini dell’ordinamento
- vedi art. 3 Cost. -, quindi una scuola non può fare il suo mestiere di
istituzione della Repubblica se non si fa carico della partecipazione.
Barbieri ha sottolineato la distanza che esiste tra la legislazione del
1973-74 e la legislazione attuale. Vorrei richiamare come erano le cose
prima del 1973 e perché si è arrivati a quel periodo. Nel 1973 era in
vigore la legge delega n. 477 essenzialmente dedicata allo stato
giuridico degli insegnanti. Ora, la materia del riordino degli organi
collegiali si è inserita su quel testo per cui lo stato giuridico degli
insegnanti non è stato più definito in termini di professionalità - e
questo è secondo alcuni un guaio, secondo altri una fortuna - ma nel
contesto di quella che è stata chiamata la comunità scolastica, la
partecipazione o la gestione sociale: cioè l’insegnante è stato uno dei
soggetti che operano nella scuola nell’ambito della collegialità.
Le parole chiave - comunità, partecipazione, gestione sociale - hanno
tentato di fornire una legittimazione a questo processo e hanno tentato
di superare le difficoltà proprie del 1968-70 che avevano concepito la
scuola come spaccata in due: gli studenti e una parte degli insegnanti
che volevano cambiare radicalmente la scuola o addirittura distruggerla,
e la parte istituzionale. L’art. 1 del 416 - “al fine di fare della
scuola una comunità che interagisce con la comunità sociale e civica” -
serve per ristrutturare un mondo della scuola in relazione a una società
che si avvertiva come spaccata. La scuola della fine degli anni Sessanta
non era avvertita più come istituzione sociale positiva, bisognava
decidere se salvarla o no.
Il Segretario generale della CISL Macario mi disse una volta: “O ci
pensiamo noi sindacati a salvare la scuola, o tutto va per aria”.
“L’Unità” aveva sette colonne in cui diceva: “O i decreti delegati o il
caos”. Quindi si trattava di reagire di fronte a quella deriva che poi è
diventata terrorismo, ma non tornando indietro bensì cercando di
riconoscere i diritti e i doveri di tutti.
Parlando di gestione, l’ispettore Cerini ha distinto con molta chiarezza
tra il momento dell’elaborazione, il momento della gestione e il momento
dell’indirizzo, ma c’è prima qualcosa di più profondo che è dato
dall’educazione. Cioè la partecipazione è uno dei fini dell’ordinamento
- vedi art. 3 Cost. -, quindi una scuola non può fare il suo mestiere di
istituzione della Repubblica se non si fa carico della partecipazione.
Negli anni Sessanta si combatteva contro la scuola perché non c’era la
possibilità di parlare, di capire, di fare un’analisi della condizione
dello studente e dei genitori. I genitori sono entrati quando c’erano le
scuole occupate e volevano rendersi conto di cosa succedesse. Allora
queste forze interne e poi esterne alla scuola cercarono di salvare una
scuola in cui si rischiava di non capire più nulla, di non riuscire più
a insegnare. I trent’anni dai decreti delegati in poi sono andati avanti
con la sostanziale salvezza statica dell’ordinamento ma senza essere
riusciti a promuovere il processo di riforme, tant’è vero che la riforma
delle superiori e della formazione è ancora da fare.
Oggi abbiamo la scuola autonoma per cui il dirigente scolastico sulla
base di questa autonomia funzionale può dire al Sindaco o il Presidente
della Provincia di avere la stessa legittimazione costituzionale a
occuparci delle persone che sono affidate alle nostre cure.
Come si realizza un’autonomia funzionale partecipata e a cosa serve
questa partecipazione? Quella degli studenti resta intatta, vogliono
capire dall’insegnante perché studiano queste cose, a quale titolo, in
quali tempi, in quali modi, con quali valutazioni, quale cultura viene
loro proposta dalla scuola e cosa possono dire loro. C’è il momento
dell’iniziativa degli studenti che può diventare - come è diventata -
distruttiva, facendo l’occupazione perché è un modo per sentirsi vivi e
un modo per sentirsi nella scuola.
Nella Conferenza nazionale degli studenti si disse “Il nostro slogan è:
essere scuola e non esserci solo dentro”. La scuola riesce ad essere
educativa? Al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione dicemmo che
sarebbe stato bene che ci fossero anche gli studenti perché sono la
domanda e la verifica finale. Per evitare che ci sia soltanto una
rinascita di partecipazione in piazza e che le sedi istituzionali siano
deserte o mal presidiate è necessario trovare, sul piano dell’invenzione
di una scuola possibile e buona, le occasioni di lavoro. Coloro che ci
credono non vogliono appesantire inutilmente di speranze la vicenda
partecipativa scolastica, ma credono che sia effettivamente utile per le
persone che si mobilitano, per i valori che, attraverso l’interazione
volta verso il successo formativo, si riescono a creare.
Lo Stato ha bisogno di una società civile viva, quindi si tratta di
lavorare per dare spazio a una società civile e per aumentarla,
altrimenti abbiamo i dirigenti generali lottizzati, i ministri che pro
tempore fanno le loro scelte, chiamano le persone loro fedeli e basta,
con la scusa che in questo modo si è più efficaci e più efficienti. Tra
efficacia, efficienza e partecipazione non c’è un’insanabile
contraddizione, bisogna trovare i livelli giusti per evitare perdite di
tempo e per non essere causa di ostacoli ai processi partecipazione.
Leonardo Galli
Noi ci definiamo “l’oggetto misterioso”, “morto che cammina” a riprova
di un grave fatto istituzionale di un organo collegiale che continua a
essere in funzione senza il supporto amministrativo. Continuano ad
arrivare circolari che dicono che dobbiamo fare il bilancio: bisogna
pagare il telefono, addirittura sono arrivate le cartelle per la tassa
della nettezza urbana. Il presidente è responsabile del patrimonio e di
qualsiasi cosa avviene nel distretto scolastico.
Ringrazio l’Assessore Daniela Monteforte per questo incontro.
All’istituto Galilei di Roma a livello di organi collegiali territoriali
abbiamo avuto una parentesi abbastanza lunga nel senso che l’ultima
convocazione a livelli di distretti è stata fatta dall’Assessore
Capotorto. Pertanto non desta meraviglia quello che sta accadendo perché
già avevamo visto come andavano le cose. Io sono presidente del XV
Distretto scolastico di Roma, ma faccio parte anche del coordinamento
nazionale dei presidenti dei distretti scolastici.
Noi ci definiamo “l’oggetto misterioso”, “morto che cammina” a riprova
di un grave fatto istituzionale di un organo collegiale che continua a
essere in funzione senza il supporto amministrativo. Continuano ad
arrivare circolari che dicono che dobbiamo fare il bilancio: bisogna
pagare il telefono, addirittura sono arrivate le cartelle per la tassa
della nettezza urbana. Il presidente è responsabile del patrimonio e di
qualsiasi cosa avviene nel distretto scolastico.
Allora o avete la decenza di chiuderli e ve ne assumete la
responsabilità, oppure dovete mettere a disposizione i supporti
amministrativi. C’è stata un’interrogazione dell’on. Publio Fiori di
Alleanza Nazionale il 23 giugno 2003 che chiedeva come mai dal 1
settembre 2003 i distretti scolastici sarebbero rimasti senza personale
pur continuando a funzionare. Non c’è stata alcuna risposta. Il 27
ottobre 2003 lo stesso Fiori ha fatto il sollecito alla sua
interrogazione a seguito del quale vi è stata una circolare del MIUR ai
direttori generali dicendo: “Arrangiatevi, nel senso di vedere caso per
caso come potete risolvere la situazione senza però intaccare la norma
della legge finanziaria”, con il risultato che in nessun distretto
d’Italia i direttori generali hanno applicato quella circolare perché
andavano contro la legge finanziaria.
Vi sono state altre interrogazioni parlamentari come quella del sen.
Falomi, dell’on. Pasetto. Il 23 febbraio 2004 il Sottosegretario Aprea
ha risposto all’on. Fiori. Egli richiama la famigerata circolare del 27
ottobre 2003: “Abbiamo dato incarico ai direttori generali di provvedere
in merito, in attesa della riforma degli organi collegiali…”. Ma questo
quando l’ufficio legislativo aveva già mandato ad Aprea la nota che era
caduta la delega: “…che andranno a scadere nel settembre 2005”. Arrivati
a questo punto, altro che morto che cammina!
Noi chiediamo che ci sia una assunzione di responsabilità da parte del
Governo e della maggioranza parlamentare per mettere in condizioni
questo morto che cammina di riprendere il cammino anche per
salvaguardare le responsabilità personali dei presidenti di distretto.
Circa poi le proposte, mi ritrovo in quello che hanno detto i relatori
e, per quanto riguarda i consigli locali territoriali, Barbieri ha fatto
un ottimo lavoro. Fra l’altro parecchie delle funzioni enunciate da
Barbieri dovrebbero essere affidate alle conferenze di servizio.
Alessandro Paino
Lo Stato può dettare criteri e principi ma non può provvedere a una
gestione amministrativa facendo ormai parte di un corpo di funzioni la
cui titolarità è della regione e pertanto da questo punto di vista
costituiscono oggetto della potestà legislativa concorrente delle
regioni. L’autonomia scolastica è un’autonomia funzionale, non politica.
Esiste uno spazio in cui le istituzioni scolastiche possono tutelare la
lesione delle loro attribuzioni impugnando non in via principale, ma in
via incidentale. Vi è uno spazio che non può essere compresso né dalla
legge statale né dalla legge regionale perché comprimerebbe la libera
determinazione dell’autonomia scolastica.
Parlerò del significato e delle prospettive aperte dalla sentenza della
Corte Costituzionale n. 13 del 2004 intervenuta su due norme della
finanziaria 2002 che riguardavano, l’una, la competenza alla
determinazione degli organici nelle varie regioni attribuendo questo
potere al direttore dell’ufficio scolastico regionale, l’altra,
l’utilizzazione degli insegnanti all’interno delle scuole. Le norme di
cui si discute sembrano apparentemente norme di minuta gestione della
vita scolastica, in realtà implicano il rapporto fra i grandi scenari
nei quali si iscrive l’organizzazione del sistema di istruzione: lo
scenario dei rapporti fra Stato e regioni, lo scenario dei rapporti fra
regioni e istituzioni scolastiche, lo scenario dell’apertura del ruolo
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche. Scenari che quindi
attengono a un profilo assai significativo di valori e di questioni, al
modo di esercitare l’autonomia didattica delle scuole, alla capacità di
correlare le risorse - in questo caso la risorsa del personale - con le
questioni riguardanti la programmazione educativa, alla capacità di
assicurare un governo complessivo del sistema di istruzione.
In questo quadro, anche se non è titolare di potere normativo, non è
estranea la Provincia perché intanto è già attributaria di funzioni ai
sensi del Decreto Legislativo n. 112 del 1998 e da questo punto di vista
la sentenza della Corte Costituzionale contiene indicazioni assai
interessanti perché ci dice che il Decreto Legislativo n. 112 è in
vigore da tempo mentre - secondo una prospettiva non ufficialmente
predicata ma concretamente praticata - da parte del Ministero si assume
che questo trasferimento di poteri non sia ancora operante. È tanto
operante che la Corte Costituzionale ha preso il Decreto Legislativo n.
112 come strumento per effettuare il sindacato sull’esercizio del potere
legislativo da parte dello Stato.
La sentenza contiene una indicazione sulla qualità e il valore
dell’autonomia scolastica a mio avviso da prendere in considerazione;
inoltre, contiene una prospettiva che implica un riconoscimento di
grande rilievo dell’organizzazione dei grandi servizi pubblici. La Corte
ha affermato l’illegittimità costituzionale di questa norma ma ha
postergato la decorrenza di questa dichiarazione di incostituzionalità
al momento in cui le regioni si sarebbero dotate degli apparati
amministrativi per esercitare le funzioni ad esse attribuite. Dice la
sentenza: “I diritti fondamentali vengono assicurati non solo attraverso
l’attività normativa ma anche attraverso gli apparati che a questi sono
preposti ad erogare”: si tratta del riconoscimento dell’importanza dei
grandi servizi pubblici - scuola, educazione, sanità - legati
direttamente ai diritti fondamentali.
L’impugnazione davanti alla Corte Costituzionale era un’impugnazione in
via principale, cioè un’impugnazione con cui la Regione Emilia Romagna
rivendica la violazione, da parte della legge statale, delle proprie
competenze legislative riservate ad essa dal nuovo Titolo V della
Costituzione, art. 117 nel testo introdotto dalla legge costituzionale
n. 3 del 2001.
Nella finanziaria 2002 sono presenti due norme: una che attribuisce al
ministro il potere di dettare criteri per la formazione degli organici,
una secondo la quale la determinazione degli organici negli ambiti
regionali viene effettuata dal dirigente dell’ufficio scolastico
regionale.
Vi è poi una norma che dà indicazioni per l’utilizzazione degli
insegnanti all’interno delle istituzioni scolastiche e tende a fare in
modo che gli insegnanti siano prioritariamente utilizzati per i
completamenti di cattedra, il che - secondo la tesi della Regione Emilia
Romagna - incide sulla qualità dei progetti perché se gli insegnanti
devono completare le cattedre non possono essere dedicati alla
progettazione.
La Regione Emilia Romagna denuncia l’incostituzionalità di queste due
norme. La prospettazione è la seguente: la Regione è titolare del potere
legislativo in materia di istruzione, pertanto, come dice l’art. 117
Cost., ha una competenza concorrente mentre quella dello Stato è
limitata alle norme generali sull’istruzione oltre che ai principi
fondamentali in relazione alla competenza concorrente. Attraverso queste
norme, il legislatore attribuisce questo potere a un soggetto che
potrebbe non essere più titolare di questo potere nel nuovo assetto, ma
soprattutto mette la regione in condizione di depauperare la qualità
delle istituzioni scolastiche sicché, quando la regione legifererà su
questa materia, avendo il legislatore occupato tutti gli insegnanti e
determinati gli assetti, troverà un vincolo indiretto all’esercizio
della sua potestà legislativa in questa materia incidendo sulla qualità
dell’autonomia delle istituzioni scolastiche.
La prospettazione era ad un tempo ambiziosa e pericolosa. Ambiziosa
perché l’oggetto sostanziale era quello della tutela delle autonomie
scolastiche: le autonomie scolastiche sono patrimonio di tutti e
pertanto lo Stato non può determinare un depauperamento del personale a
danno degli altri soggetti istituzionali del sistema. Pericolosa perché
prospettava un danno futuro, tant’è che l’Avvocatura dello Stato,
accortasi della questione, ne eccepisce la futuribilità.
La Corte la registra nella parte in fatto ma nemmeno la esamina nella
parte in diritto. Riferisce questa complessa questione a entrambe le
norme e la scinde in due questioni diverse ma connesse. La prima verte
sulla titolarità del potere di determinazione degli organici: esiste
ancora questo potere? O meglio, lo Stato può legiferare in tema di
determinazione degli organici in ambito regionale? La seconda questione
verte sulla lesione o meno, da parte della norma, dell’autonomia
scolastica.
Le risposte che la Corte dà a questi quesiti sono diverse: una va in
senso positivo, l’altra va in senso negativo per la Regione. “Il potere
dello Stato di legiferare in tema di istruzione non può più estendersi,
dopo il Decreto Legislativo n. 112, a una materia che attiene alla
gestione e alla programmazione del servizio come quella che riguarda
l’attribuzione di questo potere a un proprio organo periferico, il capo
dell’ufficio scolastico regionale”. Addirittura va oltre perché
prospetta che questa funzione amministrativa non solo è disciplinabile
con legge, ma in sostanza è ormai nella titolarità della Regione la
quale deve dotarsi degli strumenti adeguati per gestire queste realtà.
Sulla seconda questione si pone il problema della legittimità della
norma dal punto di vista dell’autonomia scolastica: la regione ha la
legittimazione sulla tutela dell’autonomia scolastica?
Dopo avere posto l’interrogativo, la Corte dice che la lesione non c’è
perché l’autonomia non significa che non ci possa essere una
conformazione qualunque data dalle norme. Allo stesso tempo la Corte dà
qualche indicazione sul contenuto di questa autonomia e pone un
principio. Fa capire che l’autonomia è uno spazio garantito anche a
certe condizioni nei confronti della legge sia statale sia regionale.
Passiamo alla prima prospettazione della Corte. Essa fa l’analisi
dell’esistenza della legittimità del quesito posto dalla Regione Emilia
Romagna, se cioè lo Stato abbia o meno il potere di legiferare. Ed è
molto interessante capire come fa questa analisi perché il dato
significativo è il modo con cui arriva all’esito positivo per la
Regione. Per vedere se lo Stato ha potestà legislativa nella
determinazione degli organici a livello regionale e se quindi può
affidare a un proprio organo questo potere, la Corte va a esaminare
l’esercizio delle funzioni amministrative. Per verificare se c’è stata
invasione della sfera legislativa, prende come parametro la situazione
determinatasi a seguito del Decreto Legislativo n. 112 che è uno dei
decreti attuativi della legge n. 59 del 1997 che ha trasferito funzioni
e compiti dal sistema statale al sistema regionale e locale anche in
materia di istruzione. La legge ha trasferito funzioni amministrative,
cioè funzioni che erano già disciplinate con legge.
In sostanza la Corte dice:
“Ai sensi del Decreto Legislativo n. 112 del 1998 la regione ha già il
potere di disciplinare la programmazione dell’offerta formativa. I
poteri di programmazione del servizio scolastico sono già nell’ambito
delle competenze regionali.”
Qual è la chiave di volta che nel Dec. L.vo n. 112 distingueva il ruolo
dello Stato, delle autonomie scolastiche, della regione? Era la nozione
di programmazione e gestione amministrativa del servizio.
L’idea insita nel Dec. L.vo n. 112 era quella di dare alle istituzioni
scolastiche il servizio tecnico dell’istruzione - cioè il servizio
espletato dagli insegnanti, a regioni, province e comuni la
programmazione e gestione amministrativa del servizio, cioè il quadro di
riferimento generale del rapporto fra il servizio tecnico di istruzione
- che è dato dalle scuole - nel quadro del contesto culturale,
economico, sociale del territorio delle regioni. C’è la preoccupazione
di salvaguardare l’autonomia dell’insegnamento legato all’autonomia
della scuola e di utilizzare il concorso degli enti locali in tutte
quelle funzioni che servono da implementazione del servizio e da
introduzione all’interno delle politiche generali dell’istruzione:
collegamento con il mondo del lavoro, con il mondo produttivo, con le
realtà culturali e istituzionali.
Secondo la Corte questo potere di programmazione e gestione del servizio
la regione ce l’ha già: se questo è vero è implausibile che questo
potere sia stato depauperato dall’entrata in vigore della norma
costituzionale che ripartisce la potestà legislativa in potestà
concorrente delle regioni e norme generali sull’istruzione in capo allo
Stato. Una volta affidato il potere di programmazione del servizio alle
regioni, appare del tutto ragionevole che anche la risorsa
strutturalmente legata alla programmazione - ossia la risorsa umana -
venga gestita dal sistema regionale.
Pertanto lo Stato su questa materia può dettare criteri e principi ma
non può provvedere a una gestione amministrativa facendo ormai parte di
un corpo di funzioni la cui titolarità è della regione e pertanto da
questo punto di vista costituiscono oggetto della potestà legislativa
concorrente delle regioni.
Ci sono due profili da sottolineare in questa affermazione della Corte.
La prima è che la Corte fa un adattamento del concetto di programmazione
e gestione amministrativa delineato dal Dec. L.vo n. 112: tale decreto
infatti mantiene allo Stato le funzioni in materia di personale, la
Corte Costituzionale fa invece un passo in avanti perché considera la
risorsa umana come inglobata nella programmazione e gestione
amministrativa del servizio. “Una volta attribuita l’istruzione alla
competenza concorrente, il riparto posto dall’art. 117 postula che, in
tema di programmazione scolastica e gestione amministrativa del
servizio, compito dello Stato sia solo quello di fissare principi, e la
distribuzione del personale tra le istituzioni scolastiche che
certamente non è materia di norme generali sull’istruzione riservata
alla competenza esclusiva dello Stato in quanto strettamente connessa
alla programmazione e alla rete scolastica - che è funzione tuttora di
competenza regionale - non può essere scorporata da questo”.
Quindi la Corte fa due operazioni: per un verso dichiara la competenza
regionale su questa materia, per altro verso amplia, novandola, la
nozione di programmazione e gestione amministrativa del servizio
scolastico includendovi anche la gestione del personale.
C’è il problema delle risorse finanziarie, e lì c’era un obiezione
radicale perché la disciplina della provvista finanziaria del sistema
regionale e locale è riservata, dall’art. 119 nuovo testo della
Costituzione, ad alcune norme dette di “federalismo fiscale”. Ora, il
fatto che non sia attuato il federalismo fiscale a parere della Corte
non può essere ostativo alla pronuncia di incostituzionalità,
semplicemente ne posterga l’efficacia a una fase successiva che però non
è quella del federalismo fiscale ma una fase in cui le regioni si
doteranno di queste funzioni amministrative.
Quali sono sul piano immediato le conseguenze di questa affermazione
della Corte Costituzionale? Lo Stato non è più titolare di questo potere
anche se continua a esercitarlo fino a quando le regioni non si
doteranno degli apparati necessari, ma lo esercita come supplente delle
regioni e non più come titolare.
Questa decisione ha alcuni rilievi di grande importanza. Innanzi tutto,
l’architettura istituzionale del Ministero e in particolare quella
periferica non trovano più fondamento costituzionale, cioè la presenza
degli uffici scolastici regionali sul territorio non è più giustificata
dal quadro normativo e costituzionale che esiste adesso. La Corte in
pratica dà una legittimazione agli uffici scolastici regionali fino a
quando non saranno costituiti.
In secondo luogo, questa sentenza fornisce contenuti significativi
sull’esercizio della potestà legislativa concorrente delle regioni. A
una prima lettura dell’art. 117 la potestà legislativa in materia di
istruzione sembra una sorta di busillis tra norme generali, principi
fondamentali, competenze concorrenti e competenze esclusive perché il
nuovo Titolo V prevede che per le norme generali sia competente lo
Stato, che l’istruzione sia materia di competenza concorrente, che sulla
materia di competenza concorrente lo Stato determini i principi
fondamentali, che alcune materie - istruzione e formazione professionale
- siano competenza esclusiva del sistema regionale.
In questo quadro certamente complesso c’è un’indicazione di grande
interesse. La Corte dice: “Ai fini della presente decisione non è
necessario definire interamente le rispettive sfere di applicazione e il
tipo di rapporto tra norme generali sull’istruzione e principi
fondamentali (le prime di competenza dello Stato e i secondi destinati a
orientare le regioni chiamate a svolgerli). Nel complesso intrecciarsi,
in una stessa materia, di norme generali, principi fondamentali, leggi
regionali e determinazioni autonome delle istituzioni scolastiche…”:
segnalo questo inciso perché già, accanto alle fonti normative primarie,
compare lo spazio libero dell’autonomia scolastica, segno del
riconoscimento costituzionale del valore dell’autonomia; se non ci fosse
tale riconoscimento, il riferimento alle determinazioni autonome delle
scuole unitamente alle fonti legislative statali e regionali non sarebbe
stato possibile. “…si può assumere per certo che il prescritto ambito di
legislazione regionale sta nella programmazione della rete scolastica”.
L’ambito della competenza legislativa concorrente delle regioni è la
programmazione del servizio e cioè l’organizzazione del servizio non
solo nei suoi aspetti meramente burocratici ma nei suoi collegamenti
strutturali con il sistema di relazioni, di politiche istituzionali, di
valori che fanno l’in sé di quella regione.
Questo è uno spazio di grande interesse perché per un verso appare più
tranquillizzante sotto il profilo della struttura unitaria:
l’ordinamento scolastico inteso come ordinamento degli studi è e rimane
materia generale nel senso che la norma generale deve dettare un
ordinamento che vale.
È chiaro che la questione dei titoli di studio è e rimane una questione
di norma generale, è chiaro che i principi generali che riguardano lo
statuto della libertà degli insegnanti devono valere per tutti. Ma vale
un discorso più articolato per la programmazione intesa come criterio di
collegamento tra il servizio e le politiche regionali, lo sviluppo
regionale, il sistema dell’occupazione della regione. È qui che occorre
una politica per l’istruzione che sopperisca alle difficoltà avutasi nel
nostro paese nell’inserire la funzione di erogazione di servizio in un
progetto di sviluppo generale.
Un altro profilo riguarda l’autonomia scolastica. La Corte esamina il
comma 4 nella parte riguardante l’utilizzazione degli insegnanti.
Secondo la Corte la questione non è fondata: “È evidente che questa
disposizione enuncia un principio al quale devono attenersi le
istituzioni scolastiche ancorché dotate di autonomia”.
In realtà si tratta di una norma che tende a contenere la spesa per gli
insegnanti. “Non vi è però lesione delle attribuzioni legislative
regionali né, come ipotizza la ricorrente, dell’autonomia delle
istituzioni scolastiche, a prescindere dalla questione se una regione
possa censurare leggi statali ritenute lesive dell’autonomia
scolastica”. Se allora la regione non ha questo potere, chi ce l’ha? Il
nuovo testo del Titolo V attribuisce il potere di contestare la potestà
legislativa a Stato e regione; lo stesso Titolo V però dice che la
repubblica si compone di stato, regioni, province, comuni e città
metropolitane.
Vi è quindi il dibattito se il sistema dei conflitti non si debba
adeguare a questo pluralismo istituzionale presente all’interno del
nuovo quadro costituzionale.
Io penso che l’autonomia scolastica sia un’autonomia funzionale, non
politica e che probabilmente esiste uno spazio in cui le istituzioni
scolastiche possono tutelare la lesione delle loro attribuzioni
impugnando non in via principale, ma in via incidentale.
Interessante è vedere che spazio dà all’autonomia: “A prescindere da
questa questione, è assorbente il rilievo che tale autonomia non può
risolversi nella incondizionata libertà di autodeterminazione, ma esige
soltanto che a tali istituzioni siano lasciati adeguati spazi di
autonomia che le leggi statali e quelle regionali, nell’esercizio della
potestà legislativa concorrente, non possono pregiudicare”.
Questa è una frase di grande importanza perché pone una riserva di
autonomia a favore delle istituzioni scolastiche: c’è uno spazio che non
può essere compresso né dalla legge statale né dalla legge regionale
perché comprimerebbe la libera determinazione dell’autonomia scolastica.
Le piste di applicazione di questo criterio sono evidenti: leggendo la
riforma della legge n. 53 del 2004, si notano molti dubbi che alcune
disposizioni comprimano questo spazio dell’autonomia scolastica; ora,
questa affermazione della Corte offre un implicito riconoscimento
dell’impossibilità che certe realtà possano essere compresse
legittimamente con il potere legislativo statale.
Ultima questione è quella del riconoscimento del valore
dell’amministrazione. Nel momento in cui la Corte Costituzionale
posterga nel tempo la decorrenza dell’entrata in vigore della
dichiarazione di incostituzionalità al momento in cui le regioni si
doteranno degli uffici e degli apparati, fa un’affermazione di principio
rilevante che nel mondo dei costituzionalisti sta facendo discutere. La
Corte dice: “Quel principio di continuità che questa Corte ha già
riconosciuto operare sul piano normativo nell’avvicendamento delle
competenze costituzionali dello Stato e delle regioni e in virtù delle
quali le preesistenti norme statali continuano a vigere nonostante il
mutato assetto delle attribuzioni fino all’adozione delle nuove leggi
regionali, deve ora essere ampliato…”. Questo principio di continuità
affinché il sistema istituzionale continui a operare è soprattutto
legato ai diritti fondamentali ed era sempre stato riconosciuto per le
norme legislative. Prosegue la Corte: “…ampliato per soddisfare
l’esigenza di continuità non più normativa ma istituzionale (e cioè
gestionale amministrativa) giacché soprattutto nello stato
costituzionale l’ordinamento vive non solo di norme ma anche di apparati
finalizzati alla garanzia dei diritti fondamentali”.
Quei sistemi organizzativi legati all’erogazione di servizi pubblici
essenziali che intercettano diritti fondamentali devono essere
modificati ma non possono subire o tollerare interruzioni perché
corrispondono a un diritto fondamentale del cittadino.
Ci sono qui due grandi riconoscimenti: il primo, del valore della
funzione amministrativa, il secondo, del servizio pubblico di istruzione
che si lega a un diritto fondamentale.
Se questo è quello che si può leggere dalla sentenza della Corte, il
resto appartiene allo scenario del futuro, cioè è chiaro che la Corte
lancia una serie di indicazioni che aspettano di essere raccolte.
Questa sentenza, per un verso, contiene un implicito - ma a mio avviso
chiaro - invito all’amministrazione statale a cominciare a progettare la
sua riprogrammazione secondo le nuove funzioni, per altro verso, lancia
alle regioni - come titolari delle potestà normative - ma anche a tutti
i livelli di governo previsti nel Dec. L.vo n. 112 l’invito ad
attrezzarsi per esercitare queste funzioni.
Questo significa, per esempio, che le province che hanno già quei poteri
che sono legati al Dec. L.vo n. 112 devono non solo attrezzarsi per
esercitarli materialmente ma devono già pensarli nella prospettiva della
programmazione generale del servizio cominciando a elaborare criteri che
colleghino il sistema delle province con il sistema regionale da una
parte e con il sistema delle istituzioni scolastiche dall’altra parte,
in modo che questo quadro sia non solo partecipato democraticamente ma
anche efficace e cioè capace di venire incontro a bisogni veri e non a
bisogni rappresentati solo sulla carta.
Da questo punto di vista è decisivo, a mio parere, il rapporto con le
istituzioni scolastiche: i dirigenti scolastici devono interloquire con
questo sistema perché faccia presente cosa può dare e per altro verso le
scuole possano trovare la loro missione nel rapporto con questo tipo di
sistema.
Si tratta di una grande opportunità che suscita grandi entusiasmi ma
potrebbe essere delusa se alle cose non seguono i fatti. Nella vita
istituzionale succede lo stesso della vita politica: se gli spazi non si
occupano qualcun altro li occuperà.
Marcello Vigli
La scuola non è un pezzo della pubblica amministrazione, ma un pezzo
delle istituzioni della Repubblica. Pertanto il dirigente va ripensato
in maniera radicalmente diversa: della collegialità del collegio dei
docenti va recuperata la dimensione della dirigenza scolastica.
Faccio parte dell’associazione che si chiama “Per la scuola della
Repubblica” perché nel momento in cui si è parlato contro lo statalismo
e la scuola di stato per contrapporvi una scuola autonoma, noi ci siamo
interrogati su questo problema: forse, si parla male della scuola di
stato perché non si è approfondito cosa di nuovo la Costituzione ha
portato nella forma Stato?
Sono stato molto contento di sentir parlare della scuola come
istituzione dello Stato, di sentir parlare di un’autonomia funzionale e
soprattutto di sentir raccordare il discorso dell’autonomia con il
discorso del 1973-74. È un’opera di pulizia nei confronti di tante
polemiche sull’autonomia. La nostra è un’autonomia che nasce da
un’esperienza diversa da quella dei paesi anglosassoni.
Si è parlato di autonomia istituzionale, funzionale, non territoriale,
pertanto la scuola si avvicina al territorio per esercitare la funzione
che la Costituzione dà alla scuola della repubblica, cioè la funzione di
avere come committente non la famiglia, ma la società.
È la società in quanto tale che paga affinché la scuola eserciti a
livello locale la funzione di essere terza non solo nei confronti della
pubblica amministrazione o degli enti locali, ma anche nei confronti
della comunità locale e alla famiglia: cioè esercitare la stessa
funzione che esercitano gli organi della repubblica.
Sulla base di questa ipotesi, indubbiamente ci sono alcune cose da
ripensare. Esiste un’autonomia della scuola? Perché non è il Consiglio
Nazionale della Pubblica Istruzione l’organo centrale dell’autonomia? È
questo che garantisce alla singola scuola la possibilità di non essere
schiacciata dall’ente locale? Il referente del dirigente scolastico non
è il Ministero, ma un organo istituzionale che permette di ricordare
questa funzione istituzionale.
Se è una istituzione, dobbiamo coglierne la specificità e invece la
riforma delle autonomie si è fatta pensando che la scuola sia un pezzo
della pubblica amministrazione. Quando si è trattato di dare uno status
al primus inter pares - il preside, lo si è chiamato dirigente
scolastico trasferendogli le competenze di un qualsiasi ufficio. Ma non
è così che si doveva fare.
La scuola non è un pezzo della pubblica amministrazione, ma un pezzo
delle istituzioni della Repubblica. Pertanto il dirigente va ripensato
in maniera radicalmente diversa: della collegialità del collegio dei
docenti va recuperata la dimensione della dirigenza scolastica.
Il problema oggi è quello di profittare dei guai prodotti dal modo di
interpretare o non interpretare le riforme fin qui fatte, per capire
quali siano le altre vie possibili.
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