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Una scuola a misura di tutti e di tutte, in una regione accogliente di Lucrezia Stellacci 14 febbraio 2003 in occasione dell’apertura dell’Anno Europeo delle persone disabili Io sono onorata di lavorare in una regione che ha una lunga tradizione e una buona pratica di accoglienza e di integrazione per tutti. L’Emilia Romagna è per sua natura inclusiva, prova a non mandar mai via nessuno. Nostra passione educativa è non solo tenere tutti, ma anche dare ad ognuno il massimo di chanches per una buona vita, un buon futuro, con lo sviluppo di tutti i potenziali individuali. Nel libro di Robert Putnam "la tradizione civica nelle regioni italiane" si sostiene la tesi, storica e sociologica, che questo tessuto di civismo e solidarietà ha radici ben più antiche della contemporaneità, va lungo fin dall’epoca delle società comunali. Fin dai liberi comuni, l’idea della democrazia orizzontale (quando c’è un problema, ci organizziamo in comune a risolverlo) ha dominato in questa regione su quella verticale (se ho un problema, cerco qualcuno che possa risolvermelo), più tipico delle tradizioni feudali. Posso ben dirlo io, che provengo da una regione meridionale, come sono stata ben accolta, e come ben volentieri opero in una regione nella quale, al di là delle opinioni politiche individuali, c’è in tutti questo fortissimo tessuto connettivo profondo di solidarietà e di impegno civile. Questa regione, ad esempio, ha il più alto numero di cooperative sociali di tipo B. Se dovessi, come ho in programma, incontrarmi in un sola volta con tutte le associazioni regionali, provinciali, comunali, locali, di quartiere che si occupano di handicap, non mi basterebbe un cinema. Non è un caso che il padre pedagogico dell’integrazione scolastica sia un vostro conterraneo, che mi onoro di conoscere e stimare, il prof. Andrea Canevaro. Se vi devo parlare di disabilità, o meglio come si dice ora di "diversa abilità" e di integrazione scolastica non posso non partire dal contesto sociale, ma soprattutto valoriale entro cui questi fenomeni sono vissuti nel nostro sistema scolastico e sociale. Per la verità, anche se in forme non sempre buone come in questa regione, il patrimonio civile, educativo e culturale di tutta l’Italia tratta l’integrazione scolastica ormai come un fatto acquisito, del tutto incardinato nella tradizione comune, soprattutto irreversibile nelle sue tendenze complessive. La relazione del Sottosegretario on. Aprea del novembre scorso alla Commissione Bicamerale sui diritti dell’infanzia su questo è assolutamente chiara. Nessuno intende tornare indietro né riaprire scuole speciali. Nelle parole del Sottosegretario, e anche in molte argomentazioni operative, c’erano per la verità questioni simili alla Relazione al Parlamento ‘2000, predisposta dai precedenti governi e che analizzava la situazione dell’integrazione scolastica lungo tutti gli anni 90. A me pare che il valore dell’integrazione scolastica come "speciale normalità" delle nostre scuole sia molto più che bipartisan, è ormai italiana e basta. Questo è un punto d’onore del nostro paese, va ricordato sempre, pur non nascondendo i tanti problemi perché l’integrazione funzioni, ma riconoscendoci una conquista di civiltà, oltre che di efficacia concreta. Nell’anno europeo della disabilità, il nostro paese è più europeo degli altri su questo tema, e più vicino allo spirito della Carta di Nizza. Abbiamo qualcosa da insegnare agli altri. Ma c’è di più. Prendiamo a confronto il nostro paese e la Germania. In quel paese non esiste l’integrazione scolastica, ma una miriade di scuole speciali che separa i bambini per diagnosi, problema, patologia. La discussione tra i nostri due diversi modelli è molto accesa. Illuminante però è, ad esempio, l’esito della ricerca del prof. Renzo Vianello, psicologo dell’Università di Padova, che ha misurato il Quoziente Intellettuale dei bambini Down italiani e tedeschi. Ebbene, l’esito è per noi confortante: i nostri bambini hanno un QI mediamente superiore del 30% a quello dei loro pari tedeschi. Ma c’è di più: secondo il prof. Vianello questo miglior esito non è dato tanto (o solamente) dall’insegnamento, ma probabilmente dalla grande forza cognitiva e relazionale che ha lo stare in mezzo a tutti gli altri bambini. Scoperta forse per noi quasi banale, ma illuminante. Lo stare insieme tra diversi rende più intelligenti. Ma c’è di più ancora: il modello tedesco costa quasi il doppio del modello italiano. E infine: è forse un caso che in Italia non esistono classi speciali per disabili e neppure per i bambini stranieri, mentre in Germania esistono tutte e due le situazioni? Insomma l’accoglienza e l’inclusione sono l’esprit comune della nostra tradizione sociale e scolastica. Naturalmente, l’oggetto principale di questo mio intervento riguarda l’integrazione scolastica nella nostra regione. Di questo intendo parlarvi approfondendo quattro aspetti cruciali, tra i molti entro cui meriterebbe scavare sull’universo della disabilità. Partiamo, ovviamente, dai nostri bambini e bambine, dai nostri ragazzi e ragazze.
I nostri diversamente abili Qualche numero ci aiuta a capire. I bambini le bambine, i ragazzi e le ragazze certificati ai sensi della Legge 104/92 sono in questo anno scolastico 8.700, pari al 2.1% della popolazione scolastica regionale, un po’ sopra la media nazionale, che è vicina al 2%, ma in linea con altre regioni limitrofe. Il numero è aumentato del 40% dal 1992 ad oggi, in percentuale dall’1.4% al 2.1 %. Le ragioni di questo aumento sono tre, molto importanti da studiare per comprendere come agire. Sono in costante aumento gli anni di scolarizzazione dei nostri alunni diversamente abili. Sempre di più e sempre per più tempo vivono e rimangono nel nostro sistema scolastico. Il poderoso ingresso degli alunni disabili nella scuola superiore è la vera novità di questi ultimi anni in relazione all’aumento percentuale prima descritto. Siamo passati in tre anni ad un aumento di ben il 50%. Significativo, però, è il fatto che l’aumento non riguarda tutta la leva: circa metà degli alunni disabili completa l’obbligo a 15 anni ancora nella scuola media. E qui nasce la più importante sfida di oggi. Non tutto va bene nella secondaria, c’è ancora da lavorare. Più di due terzi degli alunni in situazione di handicap si iscrivono all’istruzione o alla formazione professionale. L’area professionale è tradizionalmente più vicina a quell’area sociale di adolescenti che hanno meno chanches di successo formativo elevato e quindi più capace di accogliere tutti. Ma non è scontato che questo sia coerente per tutti gli alunni diversamente abili. Dobbiamo migliorare l’orientamento dopo la terza media, decondizionando i pregiudizi degli altri ordini e indirizzi secondari, rendendo possibile una maggiore apertura di tutti i potenziali effettivi dei nostri alunni disabili. Insomma, dobbiamo ridurre le implicite forme di discriminazione a priori. In generale, poi, vanno migliorate le didattiche, attraverso un utilizzo più ricco dell’autonomia scolastica e percorsi individualizzati più flessibili. Tuttavia, una grande questione dell’integrazione riguarda, per i nostri giovani, un aspetto che non va affatto sottovalutato. Nell’adolescenza emerge in tutti il "progetto di vita", cioè il pensiero e l’azione per il proprio futuro. Proprio "progetto di vita" si chiama l’impegno dei servizi territoriali verso le persone disabili previsto dalla Legge 328. In sostanza: la sfida dell’integrazione nella scuola secondaria ha senso se con maggiore intensità lavoriamo in rapporto con la Legge 68 del 2000 sull’occupazione dei disabili, in modo che il passaggio dalla scuola alla vita adulta, e in particolare al lavoro abbia il massimo di connessione, di fluidità, soprattutto di successo vero. Un lavoro, cioè, che non viene dato al disabile per pietà, ma all’interno di un progetto di vita dove le "sue" risorse diventano anche una risorsa per le imprese o i servizi che lo assumono. Su questi aspetti il rapporto tra scuola, centri per l’impiego, transizione scuola-lavoro, sono strategici. Pena l’illusione del diploma e una vita da disoccupati, sottooccupati, occupati per pietà. Su questo la Direzione regionale ha attivato rapporti con la Regione, per un intervento integrato tra diversi soggetti. Nelle province vi sono numerose esperienze in atto. Ci sono numerose buone esperienze, ma non siamo ancora ad un sistema veramente integrato. Gli alunni diversamente abili crescono con l’età e stanno a scuola più a lungo Un altro dato significativo è l’aumento delle certificazioni dalla scuola materna (attorno all’1%) alla scuola elementare (attorno al 2%) alla scuola media (attorno al 3%). Si tratta di una questione delicata, effetto di due cause, l’una (positiva) dell’attesa a certificare, l’altra (negativa) data da una pressione della scuola o sociale legata alla distanza tra i comportamenti del bambino e i modelli di "normalità" di una data scuola. Alcuni autori sostengono che spesso quest’ultima certificazione è più effetto di una cattiva scolarizzazione che di una vera e propria disabilità evolutiva, tendendo a rovesciare sull’alunno anche i problemi di difficoltà della scuola ad accogliere e individualizzare. Ma c’è un altro aspetto, forse sottovalutato. Ogni anno circa il 12% degli alunni in situazione di handicap risulta respinto o ripete l’anno. E’ una tendenza diffusa quella di "ritardare" la progressione scolastica, soprattutto negli anni di passaggio tra un ciclo scolastico e l’altro. Vi sono più ragioni, alcune obiettive e spesso meditatamente legate alla scelta di una maggiore lentezza come aiuto alla maturazione. Ma non mancano scelte, spesso dei genitori, legati al timore del passaggio ad altro ciclo se non vi sono buone condizioni di accoglienza. Una buona continuità è fondamentale per i nostri alunni diversamente abili. Sono in aumento certificazioni di natura psicosociale e si tende di più a clinicizzare le difficoltà Più dell’85% degli alunni certificati sono nella categoria detta "psicofisici", con problemi prevalentemente psicologici. E’ una tendenza in sempre maggiore espansione, da un anno all’altro, quella di certificare situazioni individuali di disagio intellettivo e relazionale, sociale, cognitivo e psicologico in genere. Si spiega così la volontà a ripensare la certificazione secondo la Legge 104/92, che la recente Legge Finanziaria segnala rinviando ad un successivo Decreto del Ministero della Salute, di cui siamo in attesa. Credo sia un errore polemizzare e basta, sostenendo un’indiretta voglia di stringere i cordoni della borsa. La questione è stata sempre all’attenzione di tutti i governi del decennio scorso, con numerose misure di chiarimento, ridefinizione, senza tuttavia esiti significativi. E’ questione delicata, di cui all’intero universo della disabilità conviene riflettere con coraggio e serenità. Il tema delle certificazione di handicap è di complessa interpretazione, mette insieme questioni cliniche e questioni sociali sul significato di handicap, tema presente anche negli altri paesi della Comunità europea con forti differenze interpretative da paese a paese. Vorrei qui solo sfiorare il problema, accennando almeno a due elementi che possono rendere incerta la questione certificazione: spesso la scuola, la famiglia e il territorio vivono con grande sofferenza i casi di disagio sociale, psicologico, cognitivo. La certificazione sembra "aiutare" sia per gli effetti nella scuola (meno alunni, sostegno, ecc..), sia per una sorta di "consolazione" sociale che c’è qualcosa di clinico. La questione è anche complicata dalla perversa relazione tra certificazioni e risorse docenti, tali da provocare alcune spinte implicite a favorire la certificazioni. Accentua questa dilatazione del termine "handicap" una tendenza di un certo mondo clinico (quello soprattutto di scuola organicista e genetica) a clinicizzare i problemi umani delle persone. L’effetto è di diversissimi comportamenti da zona a zona, di una relazione tra disagio sociale del territorio e certificazioni. Insomma della presenza di un problema vero (la sofferenza umana e le difficoltà di inclusione) risolto con uno strumento non sempre appropriato. Al mondo della disabilità conviene, a mio giudizio, far chiarezza, se non altro per una maggiore finalizzazione e differenziazione degli interventi più appropriati. Non mi azzardo a dire di più, è questione di competenze diverse dalle mie, ma suggerisco di prestare attenzione ad un evento importante, a livello internazionale, che potrebbe aiutarci. Nel maggio scorso, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha approvato il cambiamento del modello certificativo, da quello chiamato ICD-H (diagnosi cliniche "classiche" indicanti malattie, memonazioni, disabilità come "handicap" in senso negativo) al nuovo modello ICF. E’ una novità che forse ci aiuterebbe a vedere meglio l’intero mondo delle difficoltà che possono determinare esclusione. Infatti l’ICF non separa la persona in menomazioni, ma interpreta l’individuo per "funzioni", insomma per i potenziali legati alle categorie dell’autonomia, della partecipazione, dello sviluppo in relazione ai contesti. Insomma, si parte dalla persona nel suo insieme piuttosto che dai suoi organi singolarmente presi. Questo scenario affascinante, potrebbe aiutare a superare alcune ambiguità sorte dopo l’applicazione della Legge 104/92 e sviluppare nuove modalità interpretative, dove l’approccio clinico agisce assieme a quello sociale, a quello educativo, a quello occupazionale. Sarebbe importante sperimentare l’ICF nella nostra regione.
La nostra offerta scolastica Per principio, parlando ora dell’offerta della scuola, non voglio partire dagli insegnanti di sostegno (di cui parlerò successivamente), perché l’integrazione è tema che riguarda tutta l’intera comunità scolastica. Voglio qui proporre, invece, alcune riflessioni sul clima e la qualità dell’integrazione desunta dalle nostre ricerche e dalle valutazioni dei tecnici esperti della nostra regione. La qualità dell’integrazione scolastica è fortemente connessa alla presenza o meno di una felice combinazione e incontro tra due fattori: i comportamenti individuali e collettivi delle singole scuole e la presenza attiva dei servizi sociali, sanitari e assistenziali. Sembrano contare molto le persone in carne ed ossa più che le istituzioni formalmente intese. Ciò fa riflettere sulle azioni di sostegno e supporto che dobbiamo realizzare per rendere più qualificata l’integrazione in ogni scuola. La capacità della scuola di ben integrare è inversamente connessa ai gradini scolastici: alta nella scuola dell’infanzia, bassa nella scuola secondaria. La questione non mi pare sia legata alla maggiore complessità dei curricoli, ma a storie scolastiche e diverse attenzioni nei confronti degli alunni, con una diversa capacità didattica di essere flessibili ed intenzionali. Per esempio, mano a mano che i bambini crescono, diminuiscono le competenze didattiche raffinate utili per l’individualizzazione. E’ più frequente che l’insegnante di sostegno agisca in team nella scuola dell’infanzia e in buona parte della scuola elementare, mentre diviene a volte l’unico insegnante direttamente coinvolto nella superiore. L’autonomia scolastica presenta, nelle scuole, diversi gradi di flessibilità e intenzionalità all’individualizzazione. Oggi le norme prevedono ampi spazi di flessibilità. Non tutta è ben utilizzata. Anche in questo caso la flessibilità decresce con l’innalzamento degli anni di scuola. Tuttavia spesso nella scuola ci sono esperienze interessanti, molte di più di quanto i documenti (es. il POF) indichino. La flessibilità del gruppo classe è una spia se l’integrazione avviene in modo positivo o con l’isolamento dell’alunno disabile nel rapporto di coppia lui/il sostegno, o peggio ancora fuori dell’aula. Le scuole ondeggiano tra due polarità: da una didattica interattiva e gruppale per tutti, che integra l’alunno disabile in modo mirato, ad una didattica sostegno-centrata, prevalentemente fuori della classe o con attività molto diverse dal resto della classe. Più una scuola è flessibile per tutti, meno l’alunno disabile è affidato solamente all’insegnante delle attività di sostegno. L’utilizzo delle tecnologie per migliorare l’integrazione è molto più diffusa di quanto si pensi. Su questo ha giocato anche la presenza in regione di istituti e associazioni di altissimo valore scientifico e tecnologico (Si pensi all’ASPHI di Bologna, che organizza annualmente l’Handimatic alla Fiera, o all’istituto Cavazza, come ai CDH promossi in ogni provincia). Per noi oggi si tratta di migliorare e diffondere la qualità, e di evitare il rischio (perverso) che l’uso di una tecnologia "speciale" isoli piuttosto che integrare l’alunno diversamente abile. E’ molto diffusa l’esigenza di mettere in rete le buone prassi, di avere efficaci sedi di documentazione, scambio, confronto. Da due anni la nostra Direzione regionale sta investendo soldi e idee, lavorando alacremente per integrare risorse ed esperienze simili degli enti locali. C’è ancora molto da lavorare. Ma questa strada è decisiva per innalzare il livello complessivo della qualità in tutto il territorio, considerando le scuole risorse per le loro esperienze realizzate sul campo. Stiamo lavorando, da quest’anno, per aumentare le competenze di tutti gli insegnanti sui temi dell’integrazione, non solamente quelle degli insegnanti di sostegno. Considero questa scelta una questione strategica per aumentare la qualità complessiva. Abbiamo deciso appositi finanziamenti, promuovendo una formazione non retorica e astratta, ma centrata sulla ricerca-azione, che aiuta ad imparare facendo. Ricordo inoltre che in tutte le province si sono svolti corsi di formazione all’assistenza di base da parte dei collaboratori scolastici –novità contrattuale importante per garantire i servizi alla persona-, con esiti particolarmente soddisfacenti. Un altro elemento di qualità sta nel ruolo dell’insegnante delle attività di sostegno. Numerosi indicatori segnalano il fatto che più l’insegnante di sostegno è stabile nel tempo, più è presente una didattica non isolata. Il fatto è ovvio: la presenza stabile crea relazioni tra i docenti, un docente precario che cambia di anno in anno viene inevitabilmente portato ad occuparsi più dell’alunno che del resto. Conosco bene, ovviamente, le questioni contrattuali, la mobilità, ecc.. ma non possiamo non segnalare la necessità di una maggiore continuità e stabilità dei docenti –tutti- come condizione di qualità. Anche nella nostra regione, infine, la questione dei cosiddetti "gravi e gravissimi" è fonte di discussioni, convegni, proposte di intervento. La questione non è quella di riaprire chissà quali sedi "speciali", ma di agire con la maggiore integrazione possibile tra scuola, servizi sociali, assistenziali, locali. Più un alunno è grave, più la sua gravità viene aggravata se i diversi enti lavorano da soli, o peggio sono assenti o divergenti nelle decisioni. Per me, la cosiddetta "gravità" non è un fatto assoluto, ma relativo al contesto di integrazione creato per ogni singolo alunno. Devo dire, al proposito, che molto si è fatto per abbattere la barriere architettoniche, di più forse si deve fare per abbattere quelle "simboliche" e psicologiche. Nel mondo c’è spazio per tutti, anche nella scuola, basta saperlo creare su misura. Non sempre facile e sempre coerente è il rapporto tra le scuole e le famiglie dei nostri alunni diversamente abili. La domanda di partecipare di più da parte dei genitori è forte e comprensibile. Non basta solo formalmente istituire i gruppi H di istituto, ma coltivare la cultura e la pratica della condivisione, della reciprocità, della partnership tra famiglie e scuole, più che mai nel mondo della disabilità, che ha anche stigmate di dolore, fatica, ricerca del rispetto dei diritti, che vanno riconosciute e massimamente rispettate.
3. Gli insegnanti Solo dopo quanto detto finora, possiamo parlare con maggiore equilibrio sulla questione degli insegnanti. Nella nostra regione, attualmente vi sono più di 4.000 docenti che svolgono attività di sostegno. Il rapporto è di un insegnante ogni 2.2 alunni. Ma lo scarto è troppo forte da provincia a provincia. Si va dal 2.50 di Bologna all’1.75 di Rimini. Reggio Emilia è a mezza via, attorno al 2. La questione va approfondita, se non altro per ragioni di equità. L’epidemiologia non può avere eccessivi scarti, vanno capiti meglio i meccanismi di distribuzione. D’altra parte questo è lo sguardo regionale che la nostra Direzione Generale deve necessariamente avere. Meriterà però anche ricordare che sono insegnanti di alunni disabili più di 25.000 docenti della nostra regione. Insomma quasi 30.000 docenti vivono l’esperienza dell’integrazione, 3 su 4. Merita infine ricordare che 4 classi su 10 hanno un compagno di banco disabile, 6 nella scuola elementare. Ma il rapporto tra docenti e docenti di sostegno funziona? Vediamo assieme alcune questioni Troppa variabilità. Metà dei docenti di sostegno sono senza titolo di specializzazione, il 45% a tempo determinato, circa il 13% dei docenti specializzati di ruolo passa ogni anno nelle cattedre ordinarie. L’effetto nella continuità didattica e nella qualità è preoccupante. Spesso dalla scuola dell’infanzia alla scuola elementare alla scuola media, il numero di docenti di sostegno che mediamente incontrano un alunno disabile è circa il doppio di quelli normalmente previsti. Ho già segnalato che l’eccessiva variabilità determina un livello di prestazione professionale degli insegnanti di sostegno più bassa, in quanto non hanno il tempo di legare con i colleghi, e più facilmente sono portati a ruoli di delega e di segregazione didattica. La questione determina giuste proteste nei genitori. Ovviamente molte delle possibili soluzioni riguardano un livello di decisione più alto di quello regionale, tra cui in particolare quelle della formazione iniziale, del reclutamento, della mobilità. Le competenze professionali. Come dicevo, nella nostra regione sono pochi –e sempre meno- gli insegnanti specializzati. Siamo ormai all’emergenza, frutto anche del fatto che in tutto il nord sono sempre meno ricercate le professioni a valenza sociale-relazionale, (es. assistenti sociali, logopedisti). In attesa di un sistema più coerente di formazione dei docenti (soprattutto aumentando in tutti la competenza sulla disabilità, non solo puntando allo specialismo), ci stiamo attivando, nei limiti del possibile, su due fronti: sono in partenza i corsi SSIS di specializzazione con un accordo tra il sistema universitario regionale e la nostra Direzione Generale, anche con una partecipazione alle spese. Stiamo inoltre partendo anche con i corsi modulari per gli insegnanti di scuola materna ed elementare, nei limiti dei finanziamenti e nella transizione verso un sistema più regolato, che speriamo arrivi presto. Forse, però, è giunto il momento di ripensare alle figure professionali che agiscono per l’integrazione. Spesso il sostegno, come sappiamo, non è "dato alla classe" (come da 30 anni dicono leggi e circolari) ma al singolo bambino, e troppo spesso le "ore settimanali di copertura" (bruttissima parola che segnala più un controllo che un’opportunità) sembrano il tema dominante piuttosto che quello della qualità complessiva. Non facciamone solo un problema di spesa, che peraltro esiste, ma abbiamo il coraggio di una riflessione più attenta al rapporto quantità-qualità. Penso, ad esempio, che si debba scavare meglio sui confini tra servizio didattico (svolto dal docente) e quello assistenziale-educativo offerto da molti comuni della nostra regione, troppo spesso pensati l’uno il "rabbocco di ore" dell’altro, piuttosto che come figure mirate a ruoli integrati. Su questo dobbiamo lavorare per una gestione concertata e integrata di tutte le risorse, Penso anche alla figura del "tutor", che in molte scuole superiori sta avendo buoni esiti. Ma penso soprattutto alla necessità di aumentare le competenze didattiche e relazionali di tutti i docenti, per evitare la sconfitta della delega al solo insegnante di sostegno, che condanna il bambino e quell’insegnante ad un isolamento spesso angoscioso.
4. L’integrazione dell’integrazione Un ultimo grande tema su cui mi voglio soffermare è l’integrazione territoriale di tutti i servizi alla persona. Abbiamo una legge importante, che cambia lo scenario e la filosofia dei servizi sociali, la Legge 328 del 2000, che parte dal "progetto di vita" di ogni persona, obbliga ad integrare i servizi nei "Piani di zona", dà spazio e diritti agli utenti e ai cittadini. Abbiamo le scuole autonome costituzionalmente garantite, e i nuovi spazi di flessibilità e responsabilità. Abbiamo il D.Lvo 112 che sui temi della disabilità affida nuove responsabilità ai comuni e alle province. C’è un diffuso sentire sulla necessità di dare maggiore ruolo alle famiglie, al mondo asssociativo, al sistema sociale più ampio, al sistema dell’economia e delle imprese. Tutto ci chiede una sola cosa: integrare meglio l’integrazione. Dobbiamo ammettere che spesso le difficoltà maggiori non le hanno i nostri alunni, ma noi adulti, quando ad esempio è difficile trovare orari compatibili di incontro tra insegnanti e psicologi, perché abbiamo diversi contratti e organizzazioni del lavoro. Tutto va, invece, verso una logica di "sistema integrato delle competenze", di governance, insomma di un modo nuovo e originale di rapportarsi tra servizi, uffici, enti, bilanci e competenze. La scuola è pienamente dentro a questa nuova sfida per la qualità. Le stessa Legge 104/92 appare obsoleta su molti punti, pur essendo stata dieci anni fa anticipatrice di sistemi di integrazione. In molti aspetti è già superata dalle nuove norme. Il nostro impegno va su tre percorsi principali: favorire accordi regionali, provinciali, comunali, territoriali nella logica della partnership e della governance, che "metta insieme" competenze e risorse, per evitare frammentazioni e sovrapposizioni. Le già buone relazioni con gli enti locali (dentro un accordo quadro regionale, che confermiamo) devono trovare maggiori sinergia da parte di tutti, a partire dal nostro sistema scolastico; favorire la sussidiarietà orizzontale, insomma l’autogoverno dal basso che faciliti decidere il più vicino possibile ai cittadini come modalità concreta di qualificare i servizi; favorire forme innovative di strutturazione dei nostri servizi di supporto, in una logica di rete e di scambio, nuove responsabilità e competenze integrate, con una maggiore visibilità e responsabilità di ogni singola scuola autonoma. Gli ambiti prioritari di impegno sono molti, a partire: dalla nostra più partecipata presenza ai piani di zona annuali previsti dalla Legge 328; da nuovi accordi locali che rimettano ordine, efficacia e vitalità ai precedenti accordi di programma fondati sulla Legge 104, superando gli anacronismi, le inefficienze, e valorizzando il nuovo quadro normativo e di distribuzione delle responsabilità. da una cornice regionale di relazioni interistituzionali che armonizzi le competenze e innalzi le sinergie tra sistema scuola e sistema degli enti locali; una maggiore partecipazione della famiglie, del mondo associativo, della cooperazione, della società civile e del volontariato alla grande sfida dell’integrazione per tutti. La nostra regione è pronta alla sfida. La quantità di servizi è notevole, la qualità può essere ampliata. Noi sistema-scuola siamo pronti e partecipi ad una sfida che ha un valore grande per ognuno di noi. Noi sappiamo che la vita ci consegna l’incontro con la differenza, e insieme con il dolore, la sconfitta, la solitudine, l’esclusione. Uscirne insieme è la democrazia e una società veramente giusta. Uscirne da soli, ognuno per conto proprio, è l’egoismo. La solidarietà non è un atto di carità, è l’anima stessa della civiltà, non ha colore politico. E’ di tutti e per ognuno di noi necessaria come l’aria. Rende ognuno di noi migliore. Come l’integrazione scolastica, che non è servita solo a "loro", ma serve a tutti noi, ogni giorno, a sentirci più cittadini di questo mondo, di cui condividiamo il destino comune. |
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