Buon Natale da ariosa berosa
Continuano a chiedermi perché non
scrivo o vado così poco in giro a parlare. Amici, supporter, spioni
aspettano e sospettano. Il mio articolino sul tempo che non è denaro
gira ancora tra le scuole, a mesi dalla pubblicazione. Intanto
telefonano per convegni, i più fantasiosi. Dico quasi sempre no.
Ai quattro gatti cui può interessare,
rispondo che parlo poco perché ho poco da dire sul poco di interessante
che a me pare accada, mentre il mondo vero dell’educazione chiederebbe
altri pensieri.
Per questo poco che accade bastano gli articoli che www.scuolaoggi.org
pubblica quotidianamente. Bravi amici che cercano sulla scarsa cronaca
di dare senso ad un malessere diffuso e comprensibile. Ogni tanto
qualche mosca cocchiera suggerisce domestiche scorciatoie se un decreto
sembra provocare bizzarre catastrofi nel tran tran della scuola. Ogni
tanto sento urticanti grida di dolore.
Certo, si può ragionare se questi anni lasceranno segni (devastazioni o
miracoli). Io penso, con più preoccupazione, invece, che c’è altro nel
mondo vero da pensare, ben più denso e profetico, per il quale sarebbe
urgente agire per l’educazione, un altro adesso troppo nascosto e
soffocato.
Per evitare, però, la critica di attendismo o di isolamento che mi sento
affettuosamente rivolta, penso che per me sia ora di riprendere a dire
di più. Mi sono quindi impegnato a scrivere un po’ di “frammenti per il
vicino futuro”, su quelle che io considero le priorità vere per
l’educazione.
Vorrei infatti soprattutto parlare di educazione, non di sola scuola,
chè sarebbe visione riduttiva.
Come, per fare un primissimo elenco,
sul tramonto dell’infanzia, sulla nausea verso il riformismo
illuminista, sul desiderio diffuso di egualitarismo, sulla precarietà di
una certa globalizzazione che disorienta i progetti esistenziali e su
quei due terzi degli umani del pianeta che stanno diventando vuoti a
perdere, sull’obesità cognitiva massmediale che devasta ogni
ermeneutica, sul nuovissimo disagio della middle class, sulla cosiddetta
soi disant società della conoscenza ma senza coscienza, sulla necessità
di passare dall’educazione fast a quella slow; e poi parlando di
scuola-scuola: sulla crisi dei dirigenti ormai sergenti, sull’agonia
dell’autonomia scolastica, sulla necessità di essere senza vergogna
conservatori anche se progressisti, sull’opportunità di rileggere Annah
Harendt e non solo Bruner. Ma anche, in modo più ameno, sul piacere di
non festeggiare Halloween, di ridurre le fotocopie, di recitare a voce
alta le poesie, di abolire l’open day e chiamarlo “scuola aperta”,
perché la nostra scuola non è quella di Fonzie. E così via.
C’è bisogno di pensare altro e alto, di tornare alla politica non solo
della scuola, ma dell’educazione complessiva, di ripensare al patto tra
società adulta e società dei bambini e giovani che in questo ventennio
si è per me frantumato in un mare di adultismi, spot, pedagogismi
narcisi. Alla paura di futuro che domina l’attuale presente adulto
(quasi terrore) proporre un pensiero “borghigiano” (grazie, De Rita) che
ci aiuti a riprendere la nostra città della vita come polis e agorà
quasi perdute. Nei non luoghi del presente progettare nuove piazze,
nuove aule, nuovi sguardi. Si può se si va oltre il rincorrersi di un
decennale traumatico quasi flop delle politiche educative, sociali e
scolastiche.
Forse soddisferò qualche amico, forse ne dispiacerò altri. Vedremo.
Però la verissima ragione per la quale ho scritto molto poco quest’anno
è tutta un’altra: provate a visitare per più volte in un anno un
orfanotrofio bielorusso e capirete il mio quasi silenzio.
Qualcuno ricorderà un mio articolo, giusto un anno fa, per dare un
Natale normale ad una bambina orfana bielorussa. Un articolo notturno,
da melodramma (un dramma vero) su una bambina che aspettavamo a casa in
affido temporaneo per Natale e che la burocrazia internazionale
rischiava di non far partire. Quella bambina, poi, è arrivata, anche per
merito di decine di e.mail che ho ricevuto.
Lei è arrivata, ma poi siamo partiti noi con lei, per lidi prima ignoti.
E’ arrivata così tanto che tra un po’ diventerà nostra figlia adottiva.
Mentre scrivo, dorme nella sua cameretta per il suo secondo Natale con
noi. Cerchiamo di amarla come Ettore che alza al cielo il figlio, la
sera prima della battaglia finale con Achille, lo bene-dice e gli augura
“tu sarai migliore di me”.
Io e mia moglie desideriamo che la sua vita adulta sia migliore della
nostra. Se la merita, dal profondo della sua storia di abbandono amaro,
uguale a milioni di altri bambini del mondo.
Da qui in poi, però, su di lei farò silenzio. Racconterò, forse, tra
qualche anno cosa vuol dire per due cinquantenni in serena
pre-senescenza farsi adottare (così è successo) da una bambina
bielorussa di 11 anni, e tornare nella giostra della vita interiore ad
amare gratis.
E’ invece del suo orfanotrofio che qui voglio parlare appassionatamente.
Innamorarsi di un orfanotrofio bielorusso può succedere solo ad un
educatore che da giovane è stato comunista, voleva cambiare il mondo
partendo dai poveri, e va per questo quattro volte in sette mesi in una
terra quasi ex-comunista, che ha 60.000 bambini chiusi in istituti
grigiastri, sub figli di non famiglie annegate nella vodka e nel nulla
opaco. L’Assenzio di Degas.
Molti sanno appena, ma pochi conoscono davvero il fatto che ogni anno
vengono in Italia circa 30.000 bambini e ragazzi bielorussi. La ragione
è ormai ventennale, nasce dalla catastrofe nucleare di Chernobyl, dalla
necessità di offrire soggiorni salute per ammortizzare il Cesio e altre
schifezze.
Più di metà di questi bambini/ragazzi proviene dagli 86 internat
(orfanotrofi) della Bielorussia, aggiungendo al nucleare un drammatico
quadro sociale che complica ed alimenta la solidarietà.
Sono coinvolte associazioni le più varie, da gruppi spontanei di
quartiere, a parrocchie, ad associazioni ecologiche. Un turbinare di
visti, documenti, viaggi aerei all’alba, valige, pacchi e lettere
durante l’anno. Soggiorni in Italia da uno a cinque mesi all’anno. Bombe
di sentimenti.
Un fenomeno di solidarietà capillare e diffuso, un po’ pazzo, che
continua da anni senza scemare. Quale strana Italia ho incontrato per
merito di questa bambina!
E strana anche la Bielorussia! La crisi lì è doppia: Chernobyl e la fine
del comunismo sovietico, un mix assolutamente complicato. Dal quale la
Bielorussia fatica ad uscire, schiacciata dalla nostalgia del passato
(tra i migliori dell’ex impero), l’isolamento internazionale, la
difficilissima transizione verso un futuro economico e sociale ancora
incerto.
Il fatto è che la Bielorussia è poco abitata, non ha materie prime, ma
ha un popolo orgoglioso.
Un paese di passaggio eppure isolato, con il doppio di laureati
dell’Italia ma poco lavoro vero.
Un dostoievskiano desiderio di rimanere puri in un comunismo appassito e
la giustificata paura di essere inghiottiti dalla globalizzazione più
selvaggia. Che pagano, appunto, i bambini con una crisi delle famiglie e
della società civile che produce più alcoolismo che ottimismo.
Eppure la Bielorussia non sta male come altri paesi, c’è di peggio
all’est e al sud dell’Italia.
Questa relativa povertà e l’auto-isolamento la rendono un paese
purtroppo antipatico alla Comunità europea, difficile da relazionarsi,
con alti e bassi nei sui rapporti internazionali.
Un paese complesso, doloroso, e insieme orgoglioso. Il contrario
dell’Italia, paese allegro e caldo, ma spesso poco serio. Tra questi due
opposti paesi, è nato un filo rosso di amicizia (per merito dei bambini)
che non ha eguali al mondo e nessun precedente. Questo imbarazza gli
studiosi, che vedono strano questo pendolarismo affettivo, e i politici
interdetti tra la simpatia per questo volontariato contagioso ed un
paese politico che resta lontano e che si fatica ad aiutare.
Per la verità i bielorussi che non bevono sono simpatici, cordiali,
sentimentali, ma come tutti i poveri intelligenti sentono le stigmate
della loro condizioni, con perverse oscillazioni tra il chiedere troppo
e il voler far da soli. Non è vero che i poveri tra di loro sono
solidali. E’ più complicato.
A Pasqua di quest’anno, quindi, sulle tracce della nostra bambina
tornata nel suo (?) Internat dopo il soggiorno da noi a Ravenna, ci
siamo trovati all’aeroporto di Minsk in un pomeriggio brutto e piovoso.
All’uscita della dogana, c’era lei che ci aspettava, con nostra
stuporosa sorpresa.
E poi, trecento chilometri di strade semideserte e di boschi di betulle
(in russo: berosa) ci hanno portato in una cittadona grigia, tra
pozzanghere e case fatiscenti. Lì c’è l’Internat.
Le parole sono strane. Abito in una via che si chiama ariosa, di cognome
si sa come faccio, l’albero tradizionale bielorusso è la betulla-berosa.
C’è un “osa” che unisce un mistero.
Da quel viaggio è partita una passione travolgente, perfino esagerata,
per 200 bambini e ragazzi (da 6 a 18 anni) ammassati in un internat che
vive a malapena, con insegnanti ed educatori brave persone in difficoltà
economica, organizzativa, sociale. In un internat che ha una ringhiera
che lo isola dalla città, ma con un buco “metafora della fuga”
particolarmente amato dai bambini.
Che fare? Pensare solo a lei? Ma via, sarebbe stato un furto!
Lavoriamo, io e mia moglie, nella piccola associazione della mia città
che aiuta da anni i bambini bielorussi, svolgendo attività strane, fino
ad un anno fa per me incomprensibili. Come andare alla Coop a
raccogliere viveri, e mandare TIR di 20 tonnellate. Come fare i baristi
per un’estate intera presso un museo per tirare su qualche euro e
comprare letti, materassi, comodini, carte da parati.
Ma non solo questo. Portare nell’orfanotrofio della grigia cittadona
copie perfette di mosaici ravennati e di ceramiche faentine (fatte dalle
nostre straordinarie scuole!), costruirci sopra un evento culturale che
apre l’internat alla città e donare alle camere dei bambini un po’ di
bello.
Il bello della solidarietà è la solidarietà del bello, non solo
dell’utile. Famiglie ravennati di tranquilli cinquantenni in autobus per
4.000 chilometri a festeggiare con questi nostri bambini, nell’internat
senza nome (non ha neppure un nome!) della grigia cittadona bielorussa.
E poi l’ardua scoperta dell’associazionismo! Un mondo molto più teso,
conflittuale, disarmonico della politica politicante (sempre fredda), ma
anche grandioso, miracoloso, imprevedibile, caldo.
E adesso, il colpo gobbo. Lavorare per cambiare l’orfanotrofio cercando
di inventare case famiglia, partendo dal miglioramento delle condizioni
di vita attuale e da prime strutture di autogoverno. Stiamo lavorando
per realizzare, nell’internat, primi “laboratori cooperativi” per dare
maggiore autonomia ed autoaffermazione ai ragazzi, altrimenti lasciati a
bighellonare nel tempo libero che è lì un tempo pericolosamente vuoto.
Un’impresa in una regione dove è difficile vivere per una famiglia
normale, figuriamoci le reti di solidarietà cooperativa orizzontale!
Grande, grandissima fatica a trovare finanziamenti regionali ed europei.
Quasi già tutti bloccati dagli “esperti” in progetti-businnes. Leggete e
regalate per Natale “La mia guerra all’indifferenza” di Jean Selim
Kanaan, giovane dirigente ONU ammazzato quest’anno a Bagdad, e capirete
tutto.
Grande rispetto, in ogni caso, per questo paese pieno di contraddizioni,
ma se stesso comunque, con una storia costellata di morti, di glorie
appassite, di un futuro da inventare ogni mattina.
Adesso, in questo paese, ci sono spinte politiche a chiudere queste
esperienze di solidarietà. Si teme (si dice) che il contatto con
l’Europa occidentale porti il virus del consumismo, si vorrebbe fare di
più da soli, si vorrebbe essere aiutati solo lì a spese nostre. Molti di
noi sperano che si salvino almeno quelle associazioni, come la nostra,
che portano i bambini in Europa ma anche lavorano in Bielorussia con una
solidarietà rispettosa dei loro mondi interiori, che pure dovranno
cambiare.
Eppure, l’Italia meriterebbe una ben diversa attenzione. Certo, il
nostro paese è consumista, ma io posso testimoniare che la speranza di
questi bambini non è per l’ultima versione del game boy, la loro
speranza è ben più profonda: che qualcuno creda in loro. L’originalità
delle famiglie italiane è che, appunto, queste credono davvero in questi
bambini (perfino quia absurdum), senza alcuna pietosa compassione. Gli
italiani credono in loro in modo molto diverso dagli altri europei.
Nella loro terra, i bambini orfani sociali sono visti come imbarazzanti
bastardi, considerati con pena (e qualche volta con tenerezza) ma con
molto poco ottimismo. Le loro ferite sono evidenti, ma sono anche
lampanti le loro forze. Forze, ho detto, non astratti potenziali. C’è
molto di più in loro: una inesauribile voglia d’amore e di attenzione. E
che altro dovrebbe chiedere un bambino a noi adulti?
Un bambino che ha, tra l’altro, la forza disperata dell’istinto di
sopravvivenza che la vita in orfanotrofio impone. Ma anche bambini con
un destino adulto troppo spesso fatalmente segnato: futuri alcoolizzati,
puttanelle, ladruncoli di mezza tacca. E noi italiani dovremmo
rassegnarci?
Ebbene, quello che ho visto e vissuto è che trentamila famiglie italiane
stanno ri-scrivendo sulla loro pelle (con tatuaggi di tutti i tipi)
“Lettera ad una professoressa” di Don Milani,. Sto dicendo di quell’ y
care che ha segnato la mia professione e ora tocca il mio privato, che
vedo (sbalordito) nel dilettantismo amoroso di migliaia di italiani che
fino ad un anno fa non sapevo neppure esistessero.
C’è la densità magnetica dell’ottimismo della follia educativa tutta
milaniana in queste famiglie, perfino esagerata, ma sanissima e
profetica. Capace di cambiare un po’ il mondo.
Un fluido educativo che va avanti indietro Italia-Minsk, aerei pieni,
valige con vestiti per bambini e caramelle, camion di tutti i tipi.
Perfino oltre la necessità utilitaristica, ma dentro il simbolo del filo
rosso che non si spezza mai. Questo bambino/a vale molto più di un
figlio naturale, vale te stesso.
Mi piacerebbe che sia in Bielorussia sia in Italia si riconoscesse
meglio questa strana esperienza di pedagogia internazionale milaniana.
Dove “…Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I
nostri no. Standogli accanto, ci si accorge che non sono. E neppure
svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà,
che ci deve essere un rimedio. Allora è più giusto dire che tutti i
ragazzi nascono eguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e
dobbiamo rimediare” (Lettera ad una professoressa, pag. 61).
Standogli accanto, a questi bambini orfani bielorussi considerati
bastardi, ci si accorge che sono, eccome se sono. E che se non sono è
colpa mia, anche tua di te che mi leggi, di Berlusconi, di D’Alema e di
Lukashenko. E che si deve rimediare. Perché sono nostri davvero, nostri
di tutti noi.
Ecco cosa fanno trentamila famiglie per qualche mese all’anno: credono
sia colpa loro e rimediano. Perché, accidenti, questi bambini diventano
davvero tuoi, perdutamente tuoi di quell’angolo di te più importante di
tutto, nella vita: la responsabilità individuale.
Mai avrei pensato che il pensiero di Don Milani fosse così presente
nell’anima di molti italiani normali, in questo amena Italia che
sembrerebbe invece un paese solo di veline e cellulari. Non è così negli
altri paesi europei. Non così profondo. Misteri poco noti della nostra
pedagogia italiana.
Italiani normali più pedagogisti dei nostri accademici presuntuosi.
Una storia che gli scienziati vedono storcendo il naso, e i politici
seguono distrattamente. Troppo strana la Bielorussia, e troppo strano
questo fenomeno educativo.
Naturalmente, questo articolino è anche un messaggio ai pochi amici che
ancora hanno voglia di leggermi. Aiutatemi, aiutateci per i lavori di
cooperazione che faremo lì. In tutti i modi che volete.
In questi pomeriggi vado all’Ipercoop a fare pacchetti natalizi,
raccogliendo in cambio offerte per i nostri bambini. Nessuna vergogna,
anzi i pacchetti mi vengono bene. Ma ogni volta che entra un euro nella
scatola delle offerte mi sale una rabbia da urlo. La rabbia di un mondo
che per i tanti bambini sfortunati del pianeta lascia a quattro gatti
come me la pena biografica e la responsabilità patetica di fare un po’
di bene. I bambini bielorussi dell’orfanotrofio della cittadona grigia
sono solo uno scoglio nell’arcipelago stupido della globalizzazione.
Paradossalmente quasi fortunati.
E gli altri che stanno ancora peggio? Mi è entrata in casa la
globalizzazione più dura. La globalite.
Non è che Wall Street approfitti della mia e nostra buona fede? Non è
che il volontariato pacifico rischi di essere una foglia di fico delle
varie dittature e guerre? Non è che questo impegno, senza volerlo,
perpetui lo status quo? Sempre Jean Selim Kanaan mi ha dato la risposta:
“Mi metto sempre dalla parte delle vittime: avrei voluto essere aiutato
pur sapendo che quell’atto avrebbe potuto giustificare una certa
politica? Ovviamente sì” (La mia guerra all’indifferenza pag. 72)
Però, è ovvio che non basta. Ci vuole la grande politica, non solo il
volontariato. Ma intanto continuo senza sosta a fare pacchetti. Non
posso farne a meno. Mi vergognerei altrimenti di me.
Come si fa, a questo punto, a perdere più tempo di quello che serve a
spettegolare sul tutor?
Ho imparato di più in questo anno di avanti/indietro che nei precedenti
trenta di studi e politica.
Mi sono sporcato le mani, non solo la mente. E anche per il mio paese è
un po’ ora di sporcarsi le mani, non solo di scribacchiare sussiegosi
saggetti di pedagogismo. Pensando seriamente al mondo intero, non solo
al destino incerto del team docente paritario.
Naturalmente, ho poco tempo per i miei regali di Natale. Impacchetto
quelli degli altri.
Sarà forse anche per questo che ho proprio voglia di inviare un buon
Natale a tutti. |