|
|
ASPETTI PEDAGOGICI, PSICOLOGICI E SOCIOLOGICI DEL
MODELLO ITALIANO di Andrea Canevaro
Questo intervento tenta di intrecciare alcuni elementi di storia della costruzione di un modello italiano per l'integrazione e utilizza per questo alcune pagine, utilizzando in parte un metodo che potrebbe definirsi anche antologico. Riprendiamo citazioni di autori che hanno contribuito in maniera determinante a elaborare un modello, quello che stiamo vivendo riproponendolo e, in qualche misura, difendendolo e valorizzandolo. Abbiamo con questo la possibilità di riprendere tracce di un passato recente, che a volte vengono cancellate o perché vi sono altri passaggi che si sovrappongono o perché vengono dimenticate, e non si vanno più a vedere.
Negli anni che sono compresi fra il 1960 e il 1970, in Italia vi è un fenomeno di emigrazione interna imponente. Le ragioni economiche dello sviluppo industriale fanno nascere vere e proprie città satellite, e gli spostamenti dalle campagne alle città, dal sud al nord, trasformano la vita di intere comunità. Inevitabilmente, la scuola entra in questo scenario di trasformazioni, dovendo affrontare situazioni che la investono di nuove responsabilità. In un primo tempo, di fronte alle conseguenze che si traducono in difficoltà di apprendimento è l'Italia dei dialetti, e un bambino o una bambina calabrese, o del Veneto, trapiantato a Torino, ha difficoltà notevoli -, la risposta è costituita da percorsi differenziati, ovvero classi differenziali e scuole speciali. L'alto numero di queste soluzioni crea una reazione: accogliere tutti i bambini e tutte le bambine, quale che sia la loro condizione, nelle classi ordinarie. Nasce la prospettiva dell'integrazione. In alcune pagine di Aldo Zelioli, pubblicate nel 1977, troviamo le analisi dei dati che riguardano le classi e il numero dei posti nelle classi speciali. Parliamo dell'anno scolastico 1963-1964. Annota Zelioli: "anno dal quale incominciano a sentirsi gli effetti delle leggi di bilancio sul finanziamento delle équipes psico-socio-pedagogiche e dell'assistenza igienico sanitaria e didattica agli alunni handicappati, [i posti nelle classi speciali] erano 2247". E leggiamo - sempre da Zelioli -che questi posti "registrano un costante incremento negli anni successivi passando a n. 3394 nel 1965-66, a n. 4743 nel 1968-69, a n. 5876 nel 1970-71, fino a giungere nel 1973-74 a n. 6790, che èla punta massima di incremento, per passare nel 1974-75 a n. 6692. I dati non ufficiali del 1975-76 segnano una leggera flessione che però, come vedremo, non prospetta la realtà di quanto èeffettivamente avvenuto". Continuiamo a citare Aldo Zelioli, che scrive: "Esaminiamo ora alcuni dati relativi alle classi dzfferenziali, sempre nelle scuole elementari: nell'anno scolastico 1963-64 i posti erano n. 1133, l'incremento negli anni successivi in questo settore è imponente: si passa a n. 1831 posti nel 1965-66, a n. 5106 nel 1968-69 e a n. 6199 nel 1970-71, superando in quell'anno il numero delle classi speciali che era sempre stato maggiore. Si verifica poi un forte calo: infatti nel 1974-75 si registrano n. 3376 posti, ma in realtà sono ancora meno per effetto della graduale trasformazione delle classi differenziali in classi comuni poi in sezioni in cui si operano interventi settoriali a tempo parziale su alunni che presentano deficit particolari, o per effetto dell'utilizzo degli insegnanti in azioni di recupero o di sostegno per i soggetti in difficoltà. Dall'esame dei dati sopra citati si può affermare che fin verso l'anno scolastico 1970-71 essi ci danno un quadro abbastanza fedele della situazione di fatto esistente nel settore dell'insegnamento speciale e differenziale nell'area della scuola elementare. Da allora in poi il quadro che si rivela è falso, mancando la coincidenza fra i dati ufficiali e la realtà, anzi, i dati statistici ci fanno deviare da un giudizio esatto sulla situazione. Perché il quadro è falso? Perché è in atto un processo non programmato di smantellamento delle scuole speciali e di inserimento indiscriminato di alunni handicappati nelle scuole comuni che gli organi ufficiali non riescono a seguire. Aggiungasi una certa riluttanza dei provveditori agli studi a ridurre gli organici delle scuole speciali e a disperdere cosi gli insegnanti specialisti di cui, d'altro canto, si sente grandissimo bisogno. Aggiungasi la resistenza sindacale inevitabilmente presente quando si tratti di dimensionare, magari soltanto spostandoli, i posti di insegnante. Aggiungasi, infine, una estrema incertezza normativa che da adito ai più disparati modi di comportamento in un campo già di per sé tanto difficile da inquadrare in ambiti ben precisi. Le azioni conseguenti alla contestazione delle istituzioni speciali e al movimento per l'integrazione degli alunni nelle strutture scolastiche comuni sono tutti fatti che, per il loro carattere extralegal e, sfùggono alla registrazione statistica. Ed anche quando sono registrati, non sono comparabili perché derivano non da azioni amministrative programmate, ma da moti spontanei di reazione di assestamento che solo in tempi successivi potranno essere studiati, razionalizzati e misurati con criteri obiettivi. Per ora, se vogliamo conoscere qualcosa, dobbiamo tralasciare la statistica scendendo sul terreno per verificare quanto avviene nelle singole zone e nelle diverse istituzioni. L'ondata della contestazione nei confronti delle scuole speciali, definite discriminanti e segreganti, all'inizio degli anni '70, ha investito più o meno tutte le province del nostro paese con effetti diversi a seconda delle diverse condizioni socio-culturali e delle diverse strutture scolastiche esistenti. Le punte polemiche più acute fra i fautori dell'integrazione degli alunni "diversi" nelle scuole comuni e i sostenitori della necessità della permanenza nella scuola almeno per i soggetti più gravi, polemiche spesso enfatizzate dalla stampa con prese di posizione politica di assai dubbia opportunità, sembrano un poco sopite ovunque. Permane tuttavia uno stato di disinformazione sui reali problemi dell'educazione speciale che non facilita certamente la loro soluzione. Il dilemma 'integrazione o 'segregazione' ha portato, in modo invero assai semplicistico, ad un altro dilemma: abolizione o mantenimento delle scuole speciali? Questo è un falso dilemma perché tutte le ragioni, e sono molte, che oggi fanno propendere per l'integrazione più ampia possibile dei soggetti handicappati nelle scuole comuni non portano necessariamente allo smantellamento delle scuole speciali e nel passato hanno sperimentato positivamente l'affinamento di quelle tecniche di trattamento individualizzato che bisognerebbe portare anche nelle odierne scuole aperta alla integrazione" (A. Zelioli, 1977, pp.1 05-107). Il testo che abbiamo ampiamente citato contiene molti degli elementi che fanno pensare a un modello in continuo divenire e che deve tenere conto di spinte dal basso e di necessità organizzative e legislative - di cui lo stesso Aldo Zelioli fu interprete in quegli anni, ed è oggi un testimone prezioso straordinariamente efficaci. Aldo Zelioli che criticava le posizioni assunte - extralegali, che sfuggono quindi alla possibilità di un computo istituzionale - era però anche, all'epoca, l'ispettore che guardava con più speranza e più fiducia alla possibilità di creare un sistema di integrazione nelle scuole ordinane. Erano gli anni di grande mobilità interna della popolazione; gli anni della costruzione di intere nuove città periferiche, e vi era quindi una mobilità che portava ad avere a nord bambini del sud, nelle città bambini e bambine delle campagne, con tante questioni aperte ad esempio - per l'apprendimento della lingua italiana, della scrittura. I riferimenti culturali di bambini e di bambine erano in contesti diversi da quelli in cui avevano potuto crescere i loro genitori, vivere e avere una loro contestualizzazione culturale. Le difficoltà di apprendimento, in questo senso, erano certamente numerose ma avevano come conseguenza, anche per meccanismi amministrativi, la costituzione, che abbiamo visto essere divampata, di classi differenziali e di classi speciali. Le due situazioni, 'classi differenziali' e 'classi speciali', facevano però parte di una costruzione "separata" che veniva posta sotto accusa. In quegli anni, un altro funzionario tecnico del Ministero della Pubblica Istruzione, Antonio Augenti, aveva la possibilità di rilevare l'inadeguatezza dei provvedimenti realizzati e la moltiplicazione delle classi differenziali e delle scuole speciali, moltiplicazione che "viene considerata la macchia di una politica scolastica tendente alla emarginazione e alla segregazione" (A. Augenti, 1977, p. 21). Vi era la percezione collettiva delle classi speciali come macchia, come elemento che non consentiva di esserne fieri, e Antonio Augenti, dirigente superiore, consigliere ministeriale presso il Ministero della Pubblica Istruzione, lo rilevava con convinzione, ritenendo che bisognasse lavorare per un superamento di quella che veniva definita "segregazione". Ma Aldo Zelioli, uno dei fautori dell'integrazione, sosteneva che la contrapposizione fra classi speciali e integrazione fosse un falso problema, perché occorreva integrare le competenze degli insegnanti "speciali" nel quadro delle classi ordinarie. E' da li che nasce un modello che ha subito diverse necessità di aggiustamenti, e che lo stesso Aldo Zelioli ha contribuito a realizzare, con l'interpretazione di un supporto speciale, e quindi di un sostegno specialistico, all'interno delle classi normali, e non dell'eliminazione della struttura speciale in sé: piuttosto la sua disseminazione perché raggiunga il soggetto in un contesto di socializzazione, con la possibilità di essere, in una classe ordinaria e di mantenere la risposta ai propri bisogni speciali in maniera precisa e con personale tecnicamente preparato. Nelle pagine di Aldo Zelioli si trovano già concentrati tutti gli elementi che hanno reso felice e anche faticosa la costruzione del modello. Si nota, per esempio, le resistenze e le difficoltà ad accogliere innovazioni con lo spirito giusto, con la possibilità di vederle anche come una valorizzazione di ruoli in un modo diverso da quello che era stato fino ad allora praticato. Sono gli elementi che permettono di costruire ma anche di mediare ad esigenze diverse. Ed entrano in gioco quelle discipline, quelle dimensioni scientifiche che erano anche nella dizione degli 'istituti socio-psico-pedagogici'; con la possibilità che la stessa dizione diventasse una disseminazione di elementi sociologici, psicologici e pedagogici.
La conoscenza dei soggetti disabili in un contesto ordinario porta al cambiamento di parametri e di concetti di riferimento. Non sono elementi inediti, ed hanno radici profonde (ad es.: le vicende del "sauvage" e di Itard, all'inizio dell' '800...). Per certi aspetti, in maniera dapprima empirica e poi in parte concettuale, vi è un anticipo di quell'impostazione diagnostica che oggi emerge dall'ICS. Ovvero dalle indicazioni diagnostiche internazionali che segnano il passaggio da un giudizio statico ed individuale, in termini quantitativi (ad es.: la "quantità" di intelligenza di un soggetto), ad un giudizio basato sulle possibilità di realizzare dei "funzionamenti adattivi". La diagnosi non è una sentenza senza appello, ma un processo di cui la stessa diagnosi è un passaggio e non una stazione d'arrivo. Questo cambiamento ha diverse conseguenze importanti. Ne sottolineiamo due:
Il quadro concettuale cambia e non cambia in una data precisa; per certi versi si potrebbe immaginare che ha già avuto dei grandi cambiamenti negli studiosi e diventa un riferimento più concreto nell'organizzazione quando vi sono elementi di cambiamento che costringono a prendere in considerazione un diverso modo di pensare la persona handicappata, disabile. La sintesi del cambiamento può essere espressa in questi termini: il passaggio da una concezione della disabilità come un dato quantitativo misurabile in termini statici, e quindi elemento che accompagnerà tutta la vita di un soggetto; a una considerazione che guarda piuttosto ai funzionamenti adattivi, e quindi alla necessità di pensare sempre in rapporto a un contesto, e meglio ancora ai diversi contesti. E' il momento in cui si specifica meglio la possibilità di rendere l'educazione punto di passaggio tra il soggetto con le sue caratteristiche e l'ambiente, con la possibilità che si creino delle mediazioni tra il soggetto e l'ambiente e degli adattamenti reciproci per ridurre gli handicap. Si può risalire al mito fondatore dell'educazione degli handicappati: a Itard e alla vicenda del bambino 'selvaggio'. Itard si scontra e siamo al passaggio del secolo tra il 1700 e i primi anni del 1800 - con Pinel, il luminare della psichiatria dell'epoca, personaggio carismatico per certi aspetti, e capace di realizzare un cambiamento epocale: che i ricoverati per cause psichiatriche non vengano incatenati. Pinel, nonostante questa sua visione aperta al progresso, quando esamina il sauvage, lo considera ineducabile. La sua è una diagnosi definitoria ma non assoluta, nel senso che non è così chiuso nella sua convinzione da non permettere al suo giovane allievo Itard di sviluppare un'altra ipotesi, circa l'educabilità del ragazzino, e quindi la possibilità che vi siano adattamenti reci;proei, termini non usati all'epoca ma che usiamo noi. Nel tempo si è verificata la possibilità che una vicenda come questa potesse favorire una maggiore possibilità di educazione, una maggiore ampiezza del termine stesso di 'educazione'. E noi ritroviamo questo dibattito, o questo contrasto, in un percorso lungo che va dall'epoca dell'Illuminismo fino ai giorni nostri, con momenti in cui sembrano chiare le indicazioni diagnostiche statiche, i momenti in cui una certa medicina - non certamente la medicina - sembra avere il sopravvento, ad altri momenti in cui sembra che il sopravvento lo abbiano gli educatori e le educatrici. Non possiamo non ricordare che la storia contiene le pagine tragiche degli stermini, delle considerazioni di soggetti umani come "prodotti guasti", che devono essere o fatti vivere poco, e senza costi, o soppressi. Sono pagine da non dimenticare, e che rendono ancor più importante la scelta della prospettiva dell'integrazione. Noi dovremmo avere un certo interesse allo sviluppo delle organizzazioni locali con i rischi delle chiusure localistiche - con molte figure importanti messe, individuabili con nitidezza se si guarda alle microstorie. E' quanto è accaduto in un lungo e contraddittorio periodo, che arriva fino a noi. Sono presenti nella storia dell'educazione delle "avventure" - se così si può dire -' che fanno riferimento a sensibilità e competenze umane e scientifiche previste e prevedibili in un contesto molto preciso: in una città, in una campagna, in cui i riferimenti non possono più essere gli assoluti dei grandi livelli accademici della medicina; sono piuttosto coloro che conoscono le risorse dei bambini e delle bambine che incontrano, e le risorse locali, che sanno formarle, plasmarle. E questo procede e va oltre gli atti dei governi. Ha possibilità di flussi sotterranei continui, di percorrenza lunga. I nomi possono anche rifarsi a Maria Montessori, a Sante De Santis, ma sono anche figure meno conosciute come lolanda Cervellati, Maria Teresa Rovigatti: grandi personaggi che alimentano una capacità locale di far fronte alle tematiche poste dalle disabilità. Il nostro paese ha la vicenda del ventennio di governo fascista, e quindi di svolta epocale con la fine del conflitto dal '39 al '45. Quella è l'epoca in cui si riprendono contatti operativi, non solo di studio, con la didattica e l'educazione attiva, con l'educazione nuova o, se si vuole usare il termine nella sua originaria dizione idiomatica, i 'éducation nouvelle. E' il momento in cui il modello per l'integrazione ha i presupposti più interessanti, più importanti; sia dal punto di vista organizzativo sia dal punto di vista concettuale - i due elementi non sono divisibili -. Se sul piano organizzativo bisogna dare una grande rilevanza al 1962, anno della scuola media unica. Occorre però accompagnare questo elemento costitutivo, di grande importanza, con le riflessioni. Anche qui useremo un metodo in parte antologico - in parte: perché un'antologia sarebbe corposa e supererebbe le dimensioni di questa riflessione a intreccio con personaggi di grande rilievo. Leggiamo una pagina di uno degli autori nella pedagogia che ha certamente rappresentato un punto di riferimento importante per lo sviluppo di quello che chiamiamo il modello italiano. E' Lamberto Borghi. "La scuola è chiamata a continuare questo duplice intento dell'educazione materna, a guidare il ragazzo consapevolmente e tenendo conto del suo grado di sviluppo, in modo che egli divenga capace di agire e di pensare indipendentemente e di rendersi sempre più intimo agli altri, cioè di pensare e di agire all'unisono con loro e di porre a fine del proprio sviluppo il promuovere un simile sviluppo negli altri. Ora, se da un lato è infinito il processo di formazione del singolo ad attitudini di pensiero, di libertà, e di socievolezza, è infinito dall'altro lato il numero delle persone che, nel nostro 'mondo uno', egli deve aiutare nel medesimo processo di formazione e con le quali è chiamato ad accomunarsi, nessuno lasciando escluso dalla sua perfezionatesi capacità e volontà di intendere e di amare. Libertà, socialità e universalità sono pertanto tra gli aspetti dello stesso processo educativo, della stessa formazione sono tre aspetti dello stesso processo educativo, della stessa formazione della personalità umana" (L. Borghi, 2001, p. 144). Questa pagina - che ha avuto una stampa recente ma che risale indietro nel tempo - illumina bene i concetti su cui si basa l'integrazione educativa. Una necessità tener conto di aspetti etici e di viverli nel contempo come impegno educativo, sia per l'adulto che ha responsabilità di educatore, di insegnante, sia per un bambino, o una bambina, che cresce nella responsabilità di raggiungere dei traguardi e di permettere anche agli altri, nessuno escluso, di raggiungerli. E' importante questa affermazione di Borghi, ed è tanto più importante in quanto lo studioso, come molti altri pedagogisti che in quegli anni avevano un ruolo attivo sullo scenario della pedagogia italiana, non finalizzava la propria riflessione ai soggetti handicappati ma ragionava per tutti i bambini e le bambine, ed era un ragionamento in cui la non esclusione era punto di forza. E questa era l'educazione attiva, la scuola nuova, che aveva radici profonde in tutta la prima parte del secolo e in molte parti del mondo. Esigeva il rispetto del soggetto nella sua originalità e nella sua diversità. Esigeva la considerazione dello statuto del bambino e della bambina, considerato punto importante e da sottrarre al rischio di adulti nostalgici della propria infanzia o all'altro rischio di adulti esigenti nell'imitazione del loro modo d'essere. Lo statuto del bambino e della bambina era visto, ed èvisto, come uno statuto nella pluralità dei soggetti, nella loro originalità. Esigeva inoltre che il ritmo dell'infanzia, di chi cresce, e le esigenze di respiro, di ritmi, fosse accompagnata da rituali significativi, capaci di collegarsi all'immaginario, al simbolo, e capace di scandire la giornata, l'organizzazione, tempi e spazi. Esigeva ed esige che il nuovo si organizzi, si raccordi su uno spazio politico - polis - aperto al divenire; e la necessità dell'esperienza educativa porta e comporta una duplice distanziazione: quella scientifica specikica e quella più ampiamente culturale che permetta la possibilità di respiro rispetto ai soggetti che crescono. Questi gli elementi importanti di una costruzione che ha in questi concetti i presupposti per quella che sarà poi l'integrazione, e per quello che è, può essere definito anche, il modello italiano. E le conseguenze sono organizzative. E' sempre necessario tener conto che l'organizzazione è complessa e che nella vastità delle attività scolastiche della capillare organizzazione della scuola vi sono elementi variegati, che è impossibile e non sarà possibile neanche in futuro considerare in un unico modo, ma è importante, è fondamentale nella prospettiva dell'integrazione, che vi sia una scuola. Il raggiungimento della scuola media unica, e quindi di un percorso di base unitario per tutti, è stato un elemento di grande importanza, alle spalle dell'avvio delle esperienze di integrazione. Non può essere dimenticato, e su questo convergono le tre dimensioni scientifiche che esaminiamo, sia pure in forma molto sintetica e non analitica: la dimensione sociologica, quella psicologica e quella pedagogica. Vi è una convergenza di elementi che tendono a individuare in un percorso unitario diverse possibilità per lo sviluppo della prospettiva dell'integrazione. Ma parlando di modello italiano non possiamo evitare di fare riferimento ad una modellazione che ha avuto dei grandi contributi dagli studiosi di altri paesi, i quali hanno riconosciuto nella modellizzazione italiana la realizzazione delle loro idee - non in esclusiva, certamente -. Per questo riteniamo che vi possa essere un equivoco nel parlare di "modello italiano" se questo viene isolato da un contesto di studi, di ricerche e di realizzazioni anche di altri paesi. Il rischio grosso che corriamo è quello di credere che solo il nostro paese abbia realizzato certe cose. Vi è una linea di continuità, e questa ci interessa indicarla come strada che collega le realizzazioni nel modello italiano e gli studi e le realizzazioni di altri paesi. Pensiamo alla statunitense normalLation, che è una individuazione di percorsi inclusivi non esclusivi tipici del Nord America ma anche riconoscibili come simili al percorso che è chiamato 'modello italiano'. Certamente il riconoscimento degli studiosi di altri paesi non è completo, non ha la possibilità di affrontare e di individuare i percorsi italiani, con ricerche divulgate anche all'estero. L'italiano non è parlato in molte parti del mondo, e le traduzioni sono, tendenzialmente, dai mondi anglosassone e, in parte, francofono al mondo italiano, e non viceversa. Vi è però la necessità di tenere conto delle linee di continuità, dicevamo, e su questo vogliamo porre l'attenzione.
La possibilità di spostare l'attenzione sull'apprendimento anziché sull'insegnamento, e quindi di cogliere la pluralità dei soggetti più dell'unicità insegnante; la coevoluzione, che permette di vivere anche il limite come risorsa; la valorizzazione della vita sociale, nei suoi aspetti che esigono competenze nella quotidianità. Ogni giorno dobbiamo lavarci, rifare il letto, ecc. in attività che non hanno una progressione lineare, ma una ricorsività propria delle attività di cura: con la cura dei tempi e degli spazi di tutti i giorni. Questa competenza viene tante volte trascurata o data per scontata: è come costruire in altezza (progressione cognitiva) senza avere una buona e larga base su cui poggiare. Per questo, l'integrazione può portare un beneficio a tutti: richiama l'attenzione di tutti sulle cure ricorsive. Inoltre, la coevoluzione e la partecipazione alla vita insieme, crea i presupposti per un migliore sviluppo nella vita attiva adulta. In un progetto europeo Leonardo, abbiamo potuto constatare quanto sia possibile in Italia avere un certo numero di "storie di vita" di donne e uomini trisomici presenti nel lavoro normale; mentre in altri due paesi europei presenti nello stesso progetto, questo è risultato molto problematico, e le "storie di vita" raccolte sono state poche. Le Università hanno presenze rilevanti di studenti disabili, come in passato non era neanche immaginabile. L'Università in cui lavoro - Bologna - ha un numero di studenti disabili che si aggira attorno ai 400. Ma in tutte le Università, e con una distribuzione che interessa tutti i corssi di studio, sono presenti studenti disabili in numeri che non possono passare inosservati. Per questo, ogni Università ha un "delagato" del Rettore, ovvero un docente, che assume il dovere di permettere lo svolgimento degli studi agli studenti disabili; e i servizi per il diritto allo studio devono assicurare che ogni studente disabile possa avere corrisposte le esigenze di base, indispensabili per la sua vita universitaria. Anche queste sono notizie che derivano dalla diffusione dell'integrazione e dai concetti che la accompagnano. Tutto bene, dunque? Il lavoro è ancora lungo, e i problemi sono tanti. Ma un modello è individuabile. Non separato dalle prospettive di altri paesi e soprattutto dalle "buone pratiche", che coinvolgono tutta l'Europa. Un modello per l'integrazione che a sua volta si integra. E che è appassionante, tale da dare un senso alle fatiche. Ervin Goffinan, sociologo, ha costituito un punto di riferimento importante per comprendere l'esclusione e per comprendere quelle strutture che flingevano da elementi di separazione tra la società esterna e l'interno delle istituzioni. Le istituzioni dell'esclusione che erano rappresentate dalle istituzioni totali ma anche da meccanismi amministrativi, e da piccole strutture che delineavano percorsi separati. Ed è proprio sui percorsi separati che si è posta l'attenzione da parte del mondo della scuola. Il fenomeno, poi, era anche esaminato dai nostri studiosi sociologi in rapporto a un'esclusione particolare che veniva a rappresentare quei grandi numeri già indicati legati alla migrazione interna. I due fenomeni hanno costituito un punto di riferimento per gli studi, di stretta e rigorosa marca sociologica, della comprensione dei fenomeni di esclusione microstrutturale. Non quindi solo quelli che avevano rappresentazioni di grande portata e di grande immagine come le grandi istituzioni ma anche le relazioni e l'organizzazione degli spazi che venivano a delineare la codifica di preclusioni e di stereotipi. Gianni Selleri (1978) rilevava come Goffman individua due gruppi in cui una persona handicappata accede pensando di trovare un sostegno e una comprensione. Il primo è legato allo stigma, ovvero è composto da coloro che hanno la stessa immagine, che sono handicappati nello stesso modo, si direbbe, e che diventano handicappati nello stesso modo - aggiungiamo sempre sulle orme di Goffman - proprio perché subiscono un unico modellamento. Il secondo gruppo èinvece rappresentato da persone normali che si offrono alla partecipazione della vita segreta dell'handicappato: sono i tecnici, i familiari, gli amici eccezionali, i volontari, e con questi un soggetto handicappato sembra non provare né vergogna, né sentirsi handicappato ma può illudersi di essere una persona normale, o normata. Selleri ha evidenziato gli aspetti negativi di queste microesclusioni che non hanno più bisogno delle grandi strutture dell'esclusione perché possono tranquillamente insinuarsi o collocarsi in un'apparente integrazione. E' quindi emerso, proprio nel campo sociologico ma con buone sintonie con gli studi psicologici, come la possibilità dell'esclusione non abbia bisogno di vistose manifestazioni ma possa appartenere a una normale quotidianità, e non abbia bisogno sempre di segnali aggressivi, vistosamente negativi, ma possa manifestarsi anche attraverso il pregiudizio positivo, la possibilità di far vivere alla persona handicappata eccezionali favori da parte di un contesto in qualche modo selettivo, selezionato, privilegiato. Queste riflessioni sono tanto più interessanti in quanto si può immaginare che le leggi compiano degli enormi passi avanti per assicurare una normativa adeguata alle prospettive inclusive ma non possono determinare gli atteggiamenti e le micro relazioni; queste devono essere piuttosto conquistate da altre convinzioni e da autenticità di rapporti. L'enfasi che a volte viene messa sugli aspetti della relazione rischia di provocare poi una sorta di pendolarismo, alternando periodi nei quali vi è una grande attenzione alle dinamiche di socializzazione con periodi che invece privilegiano l'apprendimento e quindi anche l'insegnamento. In realtà le due dimensioni hanno bisogno di essere unite in una reciprocità che potrebbe bene essere rappresentata dalla dizione 'apprendere per socializzare' e 'socializzare per apprendere', ovvero 'apprendere socializzando' e 'socializzare apprendendo'. E questa reciprocità è alla base della dimensione psicologica che fa venire avanti le strategie di apprendimento e l'attenzione al 'meta': le strategie metacognitive. Si allarga la capacità, da parte del corpo insegnante, degli educatori, delle educatrici, di avere una buona padronanza di questi termini anche per la disponibilità di un materiale di formazione, dì letture, di scambio che è non solo nelle librerie ma anche nelle reti informatiche. E questo è un elemento che sicuramente è dovuto alla ricerca nel campo della psicologia italiana e di altri paesi; è un altro punto in cui si possono trovare delle linee di continuità tra quello che chiamiamo il 'modello italiano' e i contributi di ricerca applicata, le esperienze, di molti altri paesi. E su questo occorre richiamare l'attenzione anche sugli aspetti importanti che nell'apprendimento ha l'imitazione, la possibilità di avere più modelli, quindi di vivere la presenza dei pari come un'occasione di acquisizione di una pluralità di modelli, ciascuno dei quali può essere un contributo, può portare un contributo per la costruzione del proprio modello di identificazione e quindi con la possibilità che accogliendo dagli altri vi sia uno sviluppo originale. Ma questo, a volte, è bloccato proprio dallo stereotipo che viene anche ad essere introiettato dal soggetto handicappato. Per questo, negli anni in cui si è sviluppata la prospettiva dell'integrazione, l'approccio psicologico ha messo molto in rilievo il valore della dinamica di reciprocità attraverso l'empatia. Vi sono due versanti con cui questo termine può essere collegato: uno più strettamente relazionale, e l'altro più legato allo sviluppo di quelle prospettive cognitive che hanno avuto in Vygotskij e in Lewin dei punti di riferimento importanti. Ancora una volta riteniamo che il modello italiano sia collegato "in rete" - come si usa dire - con molte fonti che vanno ben oltre i confini del nostro paese: costruzione di strategie di apprendimento che hanno bisogno non solo di una forza della scuola unica, a cui abbiamo già fatto riferimento segnalandone la grande importanza, ma anche la forza di affermazione della scuola dell'infanzia: della possibilità che l'accoglienza fra pari avvenga in un periodo della vita in cui le azioni imitative e gli scambi attraverso il gioco, le possibilità di esplorazioni delle proprie abilità e delle offerte dagli ambienti e dai contesti sono particolarmente importanti. Scrive Sergio Neri: "E' vero che la valorizzazione del ruolo dei coetanei è un fattore determinante dell'impresa scolastica, tanto che le attività nel piccolo gruppo e le tante forme di collaborazione sono, in questa scuola, particolannente coltivate, tanto da diventarne un elemento distintivo. E' vero pure che la lentezza (ma non la pigrizia, la sciatteria, il lasciar correre, il semplice intrattenimento) è una cifra dello scorrere del tempo e del modo di operare, consentendo così a ciascuno di provare e riprovare, di sbagliare senza sentirsi subito misurato e giudicato, di cercare la sua strategia per la soluzione del problema, di trovare piano piano il senso e la misura della sua azione e della sua crescita. Tutto questo corrisponde ad una scelta precisa, intenzionale e perseguita con metodo dalla scuola dell'infanzia, ma non al suo specifico legato all'età dei bambini o alla sua collocazione in una sorta di limbo prescolastico, in cui tutto è permesso perché non esistono vincoli programmatici o diplomi di cui rispondere. E' una scelta che nasce dall'aver polarizzato l'attenzione sull'apprendimento invece che sull'insegnamento, sul bambino invece che sull'insegnante, sulla strategia costruttiva e responsabilizzante rispetto a una ripetitiva, sulla necessità di mobilitare le risorse dei bambini, i rapporti di collaborazione e di cooperazione rispetto alle prestazioni individuali e parallele, sull'ambiente in cui si svolge la vita quotidiana e sulla promozione di interazioni attive, sulla dominanza della logica dell'inclusione rispetto a quella dell'esclusione, sulla strategia dell'intreccio rispetto a quella dei percorsi paralleli: ciascuno per sé e Dio per tutti. Tutto è dunque facile nella scuola dell'infanzia? La presenza di un bambino in situazione di handicap non desta problemi, non pone difficoltà, non esige un maggiore dispendio di fatica, intelligenza, risorse, mezzi? Questa modalità di fare educazione si identifica nella scuola materna e non può essere riutilizzata, riadattata e rimodellata nei successivi gradi scolastici senza per questo infantilizzare gli allievi? O non è forse questo un modo di fare scuola per tutti, un modo in cui tutti gli allievi stanno meglio, anche gli handicappati?" (5. Neri, 2002, pp. 19-20). Queste parole di Sergio Neri contengono elementi interessanti e importanti per capire il modello inclusivo italiano. La possibilità di spostare i 'attenzione sull 'apprendimento anziché sull 'insegnamento contiene la pluralità. E' evidente che l'apprendimento è di ciascuno dei soggetti che apprendono, e ciascuno ha un proprio stile di apprendimento. E' necessario quindi passare da una strategia dell'insegnamento - una, perché uno è l'insegnante - alle strategie degli apprendimenti o dell'apprendimento, perché ciascuno ha una propria strutturazione del percorso di apprendimento. Questo favorisce una possibilità di vedere nella presenza di un compagno o di una compagna in situazione di handicap una risorsa per la costruzione delle strategie di apprendimento. E' chiaro che impegna in una sfida che non è solo quella di una convivenza qualsiasi ma della convivenza finalizzata agli apprendimenti; e quindi con la necessità di trovare i mediatori, i sussidi, i materiali che permettano a quel bambino, a quella bambina, in situazione di handicap, di apprendere. E questo viene osservato certamente ma anche compreso con l'aiuto degli adulti dabparte dei compagni e delle compagne che realizzano quello che abbiamo letto in Lamberto Borghi: la possibilità di comprendere che la propria realizzazione è anche la realizzazione degli altri, non solo in termini vagamente sentimentali ma anche con la concretezza degli obiettivi di apprendimento. Lo sviluppo possibile dalla scuola dell'infanzia, auspicato da Sergio Neri, ha qualche rischio, perché non si ritiene possibile una evoluzione di questo stile quanto piuttosto una riproduzione dello stile; e quindi si immagina o con favore dettato dalla generosità, o con molto timore dettato dal senso del dovere di insegnare, che mentre tutti gli altri soggetti possono percorrere delle strade di apprendimento che evolvono, il soggetto, bambino o bambina in situazione di handicap, debba, per ragioni che sono connesse alla sua propria situazione, mantenere qu~lla modalità di affrontare gli apprendimenti che era propria della scuola dell'infanzia, anche se l'ha già lasciata, e forse da una pezzo. E allora vi sarebbe una divaricazione fra la propria modalità di vivere gli apprendimenti e gli sviluppi degli apprendimenti e delle modalità di svolgerli da parte degli altri nel gruppo classe dei coetanei, e in generale. Ora questo è il punto su cui anche si corre il rischio di riprodurre una situazione di sostegno che non ha una forma evolutiva. L'evoluzione in un contesto di socialità dovrebbe essere, e così la vogliamo interpretare, coevoluzione. Questo è un altro punto importante del modello italiano, o che chiamiamo tale, ossia la possibilità che vi sia coevoluzione nella comprensione, e quindi anche nello sviluppo cognitivo, della presenza di un deficit nella vita di un soggetto e di handicap per un contesto di contesti. E vi sia quindi la necessità e la possibilità di integrare nei percorsi disciplinari la conoscenza del deficit per accettarlo, e la conoscenza degli handicap per ridurli. La conoscenza, però, lo rende più capace di essere padroneggiato, e non rimane un elemento misterioso. Ora, dovrebbe essere evidente - ma non sempre lo è - che una tale linea coevolutiva presenta delle differenze a seconda dei deficit: un deficit visibile, perché è tale da ridurre ad esempio la mobilità di un soggetto, è affrontato in un certo modo, mentre un deficit invisibile o di carattere psichico o di carattere sensoriale ha bisogno di approcci differenziati. E' la pluralità; sono i percorsi plurali, all'interno di una scuola unica. Questo è uno degli elementi fondamentali che trasforma la riflessione pedagogica e didattica e permette di tentare di porre nel passato un'impostazione che chiamiamo didattismo. Nel modello del didattismo, diffuso senza che questo nome si sia fissato nella mente di chi lo pratica, l'iniziativa è assoluta da parte dell'adulto, per quanto riguarda l'organizzazione del programma, la progressione, le tecniche di studio, e ha la possibilità di essere ripetuto nello stesso modo, quali che siano i soggetti presenti nel gruppo classe. Vi è una separazione netta delle materie che non si collegano se non per caso nell'intreccio dei nuclei tematici, l'autorità è quella di chi insegna, e vi è un uso quasi unico, come tecnica di studio, della memoria che è riproduttiva. Così le tecniche di controllo e di valutazione risultano essenzialmente fondate sulla riproduzione mnemonica della trasmissione dell' insegnamento. Queste caratteristiche possono essere attenuate, possono essere rese più difficili nella loro applicazione dalla riottosità dei soggetti e in genere, se questo è il modello che gli insegnanti seguono, la riottosità non mette in causa tanto il modello quanto gli alunni. Questo modello ha anche una caratteristica importante che è il naturalismo: viene ritenuto il modo - non un modo - di insegnare e il modo di apprendere. Le polemiche che vi sono state, e non solo nel nostro paese ma in altri paesi circa la pedagogizzazione dell'insegnamento, del clima scolastico, a volte hanno creato degli equivoci, ad esempio il grossolano equivoco di ritenere che in tale pedagogizzazione vi fosse la cancellazione delle discipline, delle materie. Non è cosi: è una grossolana lettura della problematica che rompe lo schema del didattismo e crea l'attenzione agli apprendimenti, e una delle ragioni per cui questo è accaduto è anche l'integrazione di soggetti in situazione di handicap. Vi possono essere due letture di questa rottura. Una che è decisamente negativa: nel naturalismo non si inseriscono i soggetti in situazione di handicap, creano delle difficoltà e -grossolanamente diciamo - la colpa è loro, non dovrebbero essere dove sono. Ma l'altra lettura, che ci sembra la più frequente, e quella di adottare - grazie alla presenza del soggetto o di soggetti in situazione di handicap - delle prospettive costruttive nel campo delle conoscenze, e quindi di capire che i problemi posti da un soggetto in situazione di handicap altro non sono che i problemi latenti o in qualche modo mascherati che pongono anche gli altri; e il vero nocciolo è quello di passare dalla illusoria omogeneità di chi apprende alla pluralità dei soggetti che apprendono, e quindi a una costruzione di didattiche disciplinari capaci di affrontare la pluralità e di viverla come risorsa. Questa è la ragione importante della coevoluzione; non possiamo immaginare l'utilità di una forte scuola dell'infanzia se non in rapporto a una coevoluzione che è anche degli strumenti didattici e che pone agli insegnanti tutti, e non con delega ad insegnanti particolari (specializzati per il sostegno, incaricati di un sostegno o altro ancora) la necessità di affrontare la propria personalità con maggiori competenze, maggior rigore. Questo stesso problema si pone ai formatori, e sappiamo quanto è stato tormentato, e tuttora è tormentato, l'iter formativo degli insegnanti in generale e degli insegnanti specializzati per il sostegno all'interno di questo quadro generale. Dobbiamo lamentare una difficoltà ulteriore, che è poco comprensibile e poco tenuta presente da chi si occupa di scuola perché riguarda il quadro universitario. E potrà sembrare, in questa riflessione, un elemento un po' forzato. Ci riferiamo al fatto che i raggruppamenti disciplinari per i concorsi non permettono di avere una buona omogeneità per le competenze. Per una brevissima stagione il raggruppamento che riguarda le pedagogie speciali ha avuto una sua identità, immediatamente ricancellata per tornare ad essere un elemento apparentemente omogeneo, ma in realtà molto disomogeneo, in un raggruppamento che comprende didattica e pedagogia speciale, con la possibilità che vi siano concorsi in cui le competenze di pedagogia speciale nella stessa commissione siano o minoranza o non vi siano - può anche capitare questo - e che vi siano quindi delle possibilità di riconoscere livelli di competenze senza avere gli strumenti per tale accertamento. Nella confusione la pedagogia speciale può rimanere una materia marginale e tale da permettere una confusa accettazione di competenze che riguardano differenze non legate alle situazioni di handicap. E' tale, ad esempio, la considerazione che rientri nella pedagogia speciale la differenza di genere, la differenza culturale, l'intercultura, la multicultura, le differenze di ritmi di apprendimento - e questa potrebbe già essere più vicina - ma le differenze in generale. E addirittura vi è chi pensa alla pedagogia speciale avendo un percorso di studi e di ricerche che riguarda, ad esempio, le difficoltà legate alla criminalità minorile. Temi sicuramente importanti ma che nulla hanno a che vedere - se non per elementi di analogia che ci sono in tutte le discipline - con la tematica precisa della differenza legata alle situazioni di handicap. Questo è un punto debole perché non permette di garantire formatori efficaci. Bisogna assumere delle responsabilità in questo e avere il coraggio di rivolgersi a chi ha delle competenze dettate dall'esperienza. Qui entriamo in un settore molto delicato perché èevidente che non basta l'esperienza ma questa esige anche una riorganizzazione e riformulazione tale da garantire la possibilità di fornire formazione e non semplicemente fornire se stessi e la propria esperienza agli altri. Questa è una parentesi d'obbligo in questa riflessione perché ci fa capire come il modello italiano, per quanto abbia dei punti di riferimento molto diffusi, e quindi ha qualche elemento di solidità, abbia bisogno ancora di molte attenzioni per il suo consolidamento e pcr il suo pieno sviluppo. Mentre preparavamo queste riflessioni abbiamo avuto la notizia della morte di Gadamer, il filosofo dell'ermeneutica, che ha come affermazione di base per lo sviluppo della sua filosofia questo assunto: l'individuo è linguaggio, l'essere è linguaggio. Presentiamo questa figura come i~n punto emblematico della nostra prospettiva. Vorremmo, nello stesso tempo, intendere che Gadamer aiuta una riflessione che va completata: non basterebbe essere dei conoscitori approfonditi della filosofia di Gadamer; bisogna vederne lo sviluppo applicativo, e quindi capire quanto è importante considerare chi è in situazione di handicap con la possibilità di aiutare allo sviluppo del linguaggio perché è aiutare ad essere. Significa esplorare i campi percettivi, comprendere quali strumenti di sviluppo di un'evoluzione linguistica possa essere permesso a un soggetto, favorito a un soggetto, valorizzato in un soggetto, e come vi sia una profonda, radicale differenza tra comunicazione e linguaggio, perché nel linguaggio si vive una presenza all'interno di una comunità, e quindi vi è la possibilità di avere una struttura simbolica evocativa e di previsione, di ipotesi, che lavora nella mente di un individuo per permettere una codifica, cosa che la comunicazione non rende possibile se non in termini molto, molto limitati. Vuol dire sottrarre all'assistenzialismo chi non accede al linguaggio. Lo sforzo quindi è quello di tradurre Gadamer, se vogliamo avere un referente nella filosofia e avere in quel referente anche un fondamento epistemologico che deve avere degli sviluppi operativi e capaci di organizzare. E' necessario tener conto che i termini 'organizzazione' e 'competenze' sono preziosi nel modello italiano dell'integrazione. Abbiamo più volte sottolineato come tale modello italiano non ha una struttura chiusa ma è collegato come una rete neurale alle ricerche che sono nel mondo. Abbiamo bisogno di mantenere questa curiosità nei confronti di quello che accade al di fuori delle nostre mura, al di fuori della nostra cerchia, perché grazie a questa curiosità eviteremo di presentare il nostro come "il" modello e avremo la possibilità di integrarlo agli altri e di costruire una prospettiva integrativa o inclusiva più vasta, più forte, e certamente più problematica, capendo che la problematicità è la stessa ricchezza di ciò che abbiamo vissuto e che vorremmo continuare a vivere.
REPORT Andrea
Canevaro PEDAGOGICAL,
PSYCHOLOGICAL AND SOCIOLOGICAL ASPECTS OF
THE ITALIAN MODEL A
methodological preamble SEMINAR Mainstreaming in Education 14
JUNE 5TH
PLENARY MEETING PEDAGOGICAL,
PSYCHOLOGICAL, AND SOCIOLOGICAL ASPECTS OF THE ITALIAN MODEL A
methodological preamble by
Andrea Canevaro Introduction During
this talk I will try and put together a few elements of the history
of the building of an Italian model for integration. In doing so I
shall use a few pages, thus partly adopting a method that could be
defined anthological. Let us take up a few quotations by authors who
have contributed significantly to the development of a model, the
one we are living at present, and let us re-propose the model, and
to a certain extent, defend, and enhance it. This gives us the
opportunity to take up traces of a recent past, which are lost at
times, either because of other superimposed passages or because they
are forgotten, and are never consulted.
1.
The
way we were Between 1960 and
1970, In
a few pages by Aldo Zelioli published in 1977, we find an analysis
of the data on classes and on the number of places in special
classes. The background is the 1963-64 scholastic year. In Zelioli’s
words: “in the year in which we started to feel the effect of
budget laws on the financing of psycho-socio-pedagogical teams and
of hygienic-sanitary and didactic care for handicapped pupils, they
[the places in special classes] were 2247”. Further on Zelioli
states that these places “were increased steadily in subsequent
years: 3394 in 1965-66, 4743 in 1968-69, 5876 in 1970-71, reaching a
peak of 6790 in 1973-74, and back to 6692 in 1974-75. The
non-official data for 1975-76 record a slight drop, but, as we shall
see, it is not a true picture of what was really happening in those
years”. Let
us quote Zelioli further: “Let us now examine a few data relating
to the differential classes
in primary schools: in the scholastic year 1963-64 the places were
1133, there is an immense increase in this sector in the following
years: 1831 places in 1965-66, 5106 places in 1968-69, and 6199
places in 1970-71, that year it was surpassed the number in special
classes which had always been greater. After that we see a heavy
drop: in 1974-75 we find 3376 places, but the number is actually
smaller because of the gradual change from differential to ordinary
classes in sections where we find part-time sectorial actions on
pupils with particular deficits, or by effect of the use of teachers
in catch-up or support classes for subjects in difficulty. From an
examination of the above data, we can say that towards the end of
the 1970-71 scholastic year we get a true
picture of the existing situation in the sector of special and
differential teaching in the primary school area. From then onwards
the picture is false, as the official data do not depict the real
situation; on the contrary the statistics diverts us from an exact
judgement on the situation. Why
is the picture false? Because of an ongoing non-programmed process
of demolition of the special schools and the indiscriminate
inclusion of handicapped pupils in common schools, which the
official bodies were not in a position to cope with. Add to this a
reluctance by the provincial directors of education to reduce
the personnel in special schools, thus dissipating the special
teachers, who are on great demand. Add also the inevitable
resistance of trade unions when teaching posts are dimensioned, even
by simply moving them. Add, finally, an extremely uncertain
legislative situation, which allows very different behaviours in a
field that in itself is difficult to frame within precise contexts. The
actions caused by the protest against special institutions and the
movement for the integration of pupils in ordinary school structures
are extralegal events that escape statistical recording. And even
when recorded, they are not comparable because they do not derive
from programmed administrative actions but from spontaneous settling
reactions that can only subsequently be studied, rationalised, and
measured with objective criteria. For
the time being, if we want to know something, we must leave out the
statistics and try and work on field to see what is happening in the
different areas and institutions. In
the early ‘70’s, the wave of protest against special schools,
defined as discriminating and segregating, more or less invested all
the provinces of our country with effects that differed according to
the different socio-cultural conditions and existing school
structures. The
most inflamed controversies between the upholders of the integration
of the “different” pupils in ordinary schools and those of the
need to keep special schools at least for the most severe subjects,
seemed appeased all over the country. Nevertheless, there remains a
state of disinformation on the real problems of special education
that certainly does not help to solve them. The “integration” / “segregation” dilemma has very simplistically
led to another dilemma: shall
we abolish or maintain the special schools? This is a false dilemma because the many reasons in favour of the
greatest possible integration of handicapped persons in ordinary
schools do not necessarily lead to the demolition of special schools
and in the past they have positively experienced the refinement of
the techniques of tailored treatment that should be brought to
schools of today that are so open to integration” (A. Zelioli,
1977, pp.105-107). The
text we have extensively quoted from contains many elements that
suggest a model in continuous evolution, which has to take into
account pressure from the grass roots and extremely efficient
organisational and legislative needs – which Aldo Zelioli himself
interpreted in those years, and of which he is today a precious
witness. Aldo Zelioli, who criticised the positions taken on –
extralegal, and therefore escaping the possibility of an
institutional estimate – was himself at that time the inspector
that looked hopefully and trustfully on the possibility of creating
a system of integration in ordinary schools. They
were the years of great internal population mobility; when entire
new peripheral cities were built, and this mobility brought children
from the south to the north, from the country to cities, which led
to many important open issues – for example – learning Italian
and learning to write. The cultural context of these children was
therefore different from that in which their parents grew up, lived,
and were contextualised. Certainly, in this sense, the learning
difficulties were many, but their consequence, even through
administrative mechanisms, was the establishment of differential
classes and special classes that spread like wildfire. The two
situations, “differential classes” and “special classes”,
however, belonged to a “separate” construction which was largely
criticised. In
those years, another technical official of the Ministry of Education,
Antonio Augenti, had the opportunity of detecting the inadequacy of
the measures that were taken and the multiplication of the
differential classes and special schools, a multiplication that “was
considered the blemish of a school policy that tends towards
marginalisation and segregation” (A. Augenti, 1977, p. 21). The
special classes were perceived collectively as a blemish, as an
element not to be proud of, and
Antonio Augenti, higher executive, counsellor of the Ministry
of Education, pointed this out with conviction, believing steps
should be taken to overcome what was being defined “segregation”.
But Aldo Zelioli, one of the supporters of integration, believed
that the opposition between special classes and integration was not
a real problem, as the skills of the “special” teachers had to
be integrated within the framework of ordinary classes. And
this led to a model that had to be adjusted repeatedly, and that
Zelioli himself had contributed to form, with the interpretation of
a special support, and therefore of a specialistic support within
the normal classes, and not the elimination of the special structure
itself: rather its dissemination in order to reach the subject in a
context of socialisation, with the possibility of being in an
ordinary class and maintaining the response to one’s needs with
precision and with technically prepared personnel. Aldo
Zelioli’s pages contain a concentrate of all the elements that led
to building a happy though difficult model. One should note for
example the resistance and difficulties accepting innovations with
the right spirit, with the possibility of seeing them also as a
different was of enhancing roles compared to what had been the
practice till then. These elements allow to build but also to
mediate to different needs. And here those disciplines, those
scientific dimensions that were also included in the phrase “socio-psycho-pedagogical
institutes” come into play; and the phrase may also become a
dissemination of sociological, psychological, and pedagogical
elements.
2.
The
change of conceptual framework The knowledge of
disabled persons in an ordinary context leads to change in
parameters and reference concepts. These are not new elements, and
have deep roots (e.g.: the story of the “sauvage” and of Itard
at the beginning of the 19th century…). In certain
aspects, first empirically and later partly conceptually, there is
an anticipation of the diagnostic approach that emerges today in the
ICS. In other words, from the international diagnostic indications
that mark the passage from a static, individual judgement, in
quantitative terms (e.g.: the “quantity” of intelligence of a
subject), to a judgement based on the possibility of achieving “adaptive
operation”. Diagnosis is not a final sentence without an appeal,
but a process in which the diagnosis is a passage and not a final
destination. This change has a
number of important consequences. We wish to point out two of these:
-
the possibility that the prospect of integration, or “inclusive”
prospect, should create attention to adaptive and cognitive
strategies, with benefits for many difficulties (dysgraphia,
dyslexia, HLD, etc.) now better known; and for other problem
situations that may be identified behind the learning difficulties.
Without confusing disability and hardship, or disability and
cultural differences, it may come in handy to understand a
methodological process based on cognitive strategies, and not on one
single model.
-
The
possibility of living continuously in situations defined “severe”
or “very severe” and situations of disability and normality.
What could happen if a boy or a girl in conditions of immobility,
without any communication tools, and with no control of the
sphincter, lives in an ordinary school with peers? The peers could
learn a lot more and better. Undoubtedly: it depends on the didactic
action. It is possible to learn how our organism can work, what
tools it uses to communicate with the context, how it can express
“yes” and “no”, or how it can control its interactions with
the environment, and many other important functions that a living
organism accomplishes, each in its own way, and each with original
needs for help. It has been proved that the benefits are reciprocal:
a motionless child receives a ball in a game modified to include him;
the thrower controls the force, the receiver is stimulated. Better
still, that child receives an aid to communicate; and his
schoolmates develop knowledge in the different disciplinary sectors
on cerebral lesions, and therefore on neurophysiology, on the forms
of help, etc.
-
It
is a mutual reinforcement of cognitive skills. At
a certain point the conceptual framework partly changed and partly
did not; in some ways it could be said that important changes occur
in research, and become a concrete reference point in the
organisation when elements of change oblige us to consider a
different way of perceiving a handicapped, disabled person. The
change may be summarised in these terms: the passage from a concept
of disability as a quantitative measurable datum in statistical
terms, and therefore an element that will accompany the person in a
lifetime; to a concept that rather considers adaptive
operations, and therefore the necessity of thinking always in
relation to a context, or better to the different contexts. The
time when we can better specify the possibility of rendering
education a passage between the subject and his characteristics on
the one hand and the environment on the other, with the possibility
of creating mediations between the subject and the environment and
mutual adaptations to reduce the handicaps. We
can trace this back to the mythical founder of education for the
handicapped: Itard and the story of the “savage” boy. Itard
clashes with Pinel, the luminary of psychiatry in those days – the
end of the 18th century and the beginning of the 19th
– a charismatic person in some ways, capable of operating an
important change, the change of an epoch: that psychiatric inmates
should not be chained. In spite of this open vision to progress,
when Pinel examines the sauvage, he considers him ineducable. His diagnosis is definitory
but not absolute, in the sense that he is not closed in his
conviction not to allow his young pupil Itard to develop his own
hypothesis about the educability of the boy, and therefore the
possibility that there may be mutual
adaptations, terms that were not used in those days but that are
used today. In
time it became possible that such an event could favour a greater
possibility of education, a greater extension of the term “education”
itself. And we find this debate, or rather this contrast, in a long
process that takes us from the time of the Enlightenment until today,
with times in which static diagnostic indications seem clear, times
when a certain school of medicine – not certainly the medicine – seems to prevail, and other times when it is the
educators that seem to prevail. We cannot but remember that history
contains tragic events such as exterminations, that human beings
have been considered “rotten products”, who must either live for
a short time with no costs, or be killed. These are pages that
should never be forgotten, and should make it even more important to
choose the prospect of integration. We
should have a certain interest in the development of local
organisations – though this entails the risks of localistic
closeness – with many important figures, that
can be identified clearly if we look at the microhistories. This is
exactly what happened in a long contradictory period, which extends
to our times. The history of education contains “adventures” –
if they may be called so – that refer to the human and scientific
sensitivities and skills foreseen and foreseeable in a very precise
context: in the city, in the country, where the references can no
longer be the absolutes of the high academic levels of medicine; it
is they that know the resources of the boys and girls they meet, and
the local resources, they that know how to form them and mould them. And
this proceeds and goes beyond acts of government. It comes from
continuous, underground, long-travelling flows. The names may also
be traced back to Maria Montessori, Sante De Santis, but also less
known figures such as Iolanda Cervellati and Maria Teresa Rovigatti:
great personages that supply the local ability to face the problems
set by disability. Our
country went through twenty years of fascist government, and
therefore the years of an epochal turning point between 1939 and
1945. Those were times when operational contacts, not only of
analysis, were made with didactics and active education, with the
new education, or if we prefer to use the term in its original
language, the éducation
nouvelle. This was the time when the most interesting
presuppositions, and the most important, were being made for the
model for integration; both from the organisational and the
conceptual point of view – two inseparable elements. From an
organisational point of view, 1962 is considered an important year,
the year in which middle schools were unified, but we need reflect
on this very important constitutive element. Once more we shall use
a method that is partly anthological – partly: because an
anthology would be long and would go beyond this reflection
interlaced and be with very important figures. Let
us read a page from one of the pedagogic authors that was
certainly an important reference in the development of what we have
here called the Italian model. I mean
Lamberto Borghi. “School
is called upon to continue this double intent of maternal education,
to guide the young with awareness and keep in mind their degree of
development, so that they may become capable of acting and thinking
independently and always being intimate with others, that is of
thinking and acting in unison with them and of considering the
promotion of development in others as the end of their own
development. Now, if on the one hand the training process of the
individual to attitudes of thought, freedom, and sociability, is
infinite, in our “one world” also the number of persons that
that individual must help in the same training process and with whom
he is called to share is also infinite, not excluding anyone from
his perfected skill and will to understand and love. Freedom,
sociability, and universality are therefore among the aspects of the
same educational process, they are three aspects of the same
training, of the same educational process, of the same shaping of
human personality” (L. Borghi, 2001, p. 144). This
page – which has been published recently but dates back in time
– lights up the concepts on which educational integration is based.
It is a need to consider ethical aspects and at the same time live
them as an educational commitment, both for adults who have the
responsibility of educating and teaching, and for the child, who
grows in the responsibility of reaching targets and allowing others
to achieve them, without any exception. This statement of Borghi’s
is very important, especially because Borghi, like many other
pedagogists that were active on the Italian pedagogical scene in
those years, was not targeting his reflections only on handicapped
subjects, but he was thinking of all the boys and girls, and it was
a reasoning in which non
inclusion was a point of force. And this was active education,
the new school, which had deep roots in the first part of the
century and in many parts of the world. It
demanded the respect of the subject in his originality and diversity.
It demanded the consideration of the statute of the children, which was
considered an important point that was to be saved from the risk of
parents nostalgic of their own childhood or from the other risk of
adults demanding imitation of their own way of life. The
statute of the children was seen, and still is, as a statute in the
plurality of the subjects, in their originality. Moreover, it
demanded that the rhythm of infancy, of those that grow, and the
needs of breathing and of rhythms, should be accompanied by
significant rituals, capable of linking with the imaginary, with the
symbol, and capable of scanning the day, the organisation, time, and
space. It demanded, and still does, that the new should organise
itself, should link with a political space – the polis – and be
open to becoming; and the necessity of the educational experience
leads and involves to a double distancing: the specific scientific
distancing and the more widely cultural distancing that should allow
the possibility of breathing with respect to growing subjects. These
are the important elements of a construction that contains in these
concepts the presuppositions of what will later become integration,
and considering what it is, can also be defined the Italian model.
And the consequences are organisational. It is always necessary to consider that the organisation is complex and
that in the vastness of school activities of the capillary
organisation of a school, there are multi-coloured elements, that
are impossible and will not even be possible in the future to
consider in only one way, but it is important, and fundamental in
the prospect of integration that there should be a school. The achievement of a unified middle school, and therefore a unitary basic
course for all, was a very important
element, behind the start up of the experience of integration. this
should not be forgotten, and three scientific dimensions, which we
examine though in a synthetic non analytic form, converge on this:
the sociological dimension, the psychological dimension, and the
pedagogical dimension. There is a convergence of elements that tend
to locate different possibilities for the development of the
prospects of integration in a unitary course.
But
talking of an Italian model, we cannot but avoid referring to a
model that received the important contributions of scholars from
other countries. These scholars recognised in the Italian model the
achievement of their ideas – but certainly not exclusively. For
this reason we believe there could be a misunderstanding when we
speak of the “Italian model”, if this is isolated from a context
of studies, research, and achievements also in other countries. The
great risk we run is to believe that only our country has achieved
certain things. There is a line of continuity, and we wish to
indicate it as a road that links the achievements of the Italian
model with studies and achievements of other countries. Think of normalization
in the
3.
The
strong points of the model The possibility of
moving our attention on learning rather than on teaching, and
therefore that of grasping the plurality of the subjects rather than
the unicity of the teacher; coevolution, which allows to live the
limit as a resource; the enhancement of social life, in its aspects
that demand skills in everyday activities. Every day we must wash,
make our bed, etc., activities that do not have a linear progression,
but a recursive character typical of care activities: with the care
of the times and spaces of everyday. This skill is very often
neglected or taken for granted: it is like building in height
(cognitive progression) without having a good and wide enough base
to rest on. For this reason, integration may bring a benefit to
everyone: it calls the attention of everyone to recursive care. Moreover, coevolution
and participation to life together, creates the pre-requisites for a
better development in active adult life. In a European project,
Leonardo, we have been able to establish that it is easy to find a
certain number of “life stories” of trisomic women and men in
our normal work in Italy; while in the other European countries,
partners to the project, this result is more difficult, and very few
“life stories” were gathered. The number of
disabled students attending universities today is much larger that
one would even have imagined in the past. At the University where I
work – This too is a piece
of news that comes from the spreading of integration and its
concepts. Is it all well, then?
There is still a lot to do, and there are still many problems to be
solved. But a model can be identified. Not separate from the
prospects of other countries and especially from the “good
practices” that involve the whole of Ervin
Goffman, sociologist, has been an important point of reference in
understanding exclusion and the structures that were acting as
separating barriers between the society outside and the institutions
inside. The institutions of exclusion that were represented by total
institutions but also by administrative mechanisms and small
structures that outlined separate processes And
it is precisely on these separate processes that the attention has
been placed by the world of education. The phenomenon was also
examined by our sociologists in relation to a particular exclusion
that represented the large numbers related to internal migration, as
indicated. The two phenomena were an important point of reference
for strictly sociological studies aimed at understanding the
phenomena of microstructural exclusion. Not only those that had
important representations and of a grand image, such as the
institutions, but also the relations and the organisation of spaces
which outlined the coding of preclusions and stereotypes. Gianni
Selleri (1978) pointed out that Goffman identified two groups that a
handicapped person approaches in a hope to find support and
understanding. One is related to the stigma,
in other words it is made up of those that have the same image, the
same handicap, one would say, and become handicapped in the same way
– following in Goffman’s footsteps we would add – precisely
because they undergo one and the same modelling. The other group is
represented by normal persons
that offer to take part in the handicapped person’s secret life:
the technicians, members of the family, exceptional friends, and
volunteers. People with whom the handicapped person does not seem to
feel ashamed or even handicapped, but can be under the illusion of
being a normal, or normalised, person. Selleri pointed out the negative aspects of
these microexclusions that no longer need large structures of
exclusion because they can easily insinuate or place themselves in
an apparent integration. It
emerged therefore, precisely in the sociological field but with good
tuning with psychological studies, that the possibility of exclusion
does not need large manifestations but may belong to normal everyday
life, and it does not always need aggressive signals, but may also
manifest itself through positive prejudice, the possibility of
extending exceptional favours to a handicapped person by a somewhat
selective, selected, privileged context. These reflections are even
more interesting if we imagine that the law makes enormous steps
forward to guarantee an adequate body of legislation for inclusive
prospects, but it does not bring about attitudes and micro
relations; rather these must be conquered by other convictions and
by an authenticity of relations. The
emphasis that is at times laid on the aspects of the relation is
likely to cause a sort of pendular oscillation, alternating periods
with great attention to the dynamics of socialisation with periods
that favour learning and therefore also teaching. In fact the two
dimensions need to be mutually united in a way that could well be
represented by the expression “learning in order to socialise”
and “socialising in order to learn, in other words “learning
while socialising” and socialising while learning”. And this
reciprocity is at the basis of the psychological dimension that
brings out the learning strategies and the attention to the meta:
the metacognitive strategies The
skill of the teaching staff and of the educators to master these
terms is extended even through the availability of training and
exchange material that is not only to be found in bookshops but also
in IT networks. And this is an element that is certainly due to
research in the field of Italian psychology and of that of other
countries; it is another point in which lines of continuity can be
found between what we call the “Italian model” and the
contributions of applied research, and experiences, of many other
countries. And we need to concentrate our attention also on the
importance of imitation in learning, of the possibility of having
several models, therefore of living the presence of peers as an
occasion to acquire a plurality of models, each of which can be a
contribution, can bring a contribution to build one’s own model of
identification, and therefore the possibility that by receiving from
others there might be an original development in oneself. But at
times this is blocked precisely by the stereotype that is also
introjected by the handicapped subject. For
this reason, in the years in which the prospect of integration
developed, the psychological approach pointed out the value of the
dynamics of reciprocity through empathy. There are two sides that can be related to this term: one
is strictly relational, the other more tied to the development of
those cognitive prospects whose main references can be found in
Vygotskij and in Lewin. Once more we believe that the Italian model
is linked “in a network” – as people say today – with many
sources that go far beyond the boundaries of our country: building
of learning strategies that need not only the force of the one
school we have already referred to by pointing out its great
importance, but also the force of assertion of infant school: of the
possibility that reception among peers should occur in a period of
life in which imitative actions and exchange through play, the
possibilities of exploring one’s own skills and of those offered
by the environments and contexts are particularly important. Sergio
Neri writes: “It is true that the enhancement of the role of peers
is a determining factor in the school enterprise, to such an extent
that the activities in the small group and the many forms of
collaboration in this school are so particularly cultivated that
they have become a distinguishing element. It is also true that
slowness (but not laziness, untidiness, letting things take their
course, simple amusement) is a cipher of the passage of time and of
the mode of operation, thus allowing each to try and try again, to
err without being measured and judged, to look for one’s strategy
to solve the problem, gradually to find the sense and measure of one’s
action and growth. All
this corresponds to a precise choice, intentional and pursued with
method from infant school, but not to its peculiar character related
to the children’s age or to its setting in a sort of
pre-scholastic limbo, where everything is allowed because there are
no syllabus obligations or diplomas to sit for. It is a choice that
comes from having polarised one’s attention on learning rather
than on teaching, on the child rather than on the teacher, on the
constructive and awareness-raising strategy rather than on
repetition, on the necessity to mobilise the resources of the
children, their relations of collaboration and co-operation rather
than individual and parallel performance, on the environment of
everyday life and on the promotion of active interactions, on the
dominance of the logic of inclusion rather than on that of exclusion,
on the strategy of interlacement rather than on one of parallel
routes: let each do his own part, the rest will follow. Is
it all easy then in infant school? Does the presence of a child in a
situation of handicap not create problems, difficulties,
does it not require a greater waste of energy, intelligence,
resources, and means? Does this education modality not identify with
infant school and can it not be reused, readapted, and remodelled in
subsequent school grades without infantizing the pupils? Or is not this a way of dispensing education for all, a way in which all pupils feel better, including the handicapped? (S. Neri, 2002, pp. 19-20). These
words by Sergio Neri contain interesting and important elements to
help understand the Italian inclusive model. The
possibility of moving attention on learning rather than teaching
contains plurality. It is obvious that learning belongs to each
of the subjects that learn, and each has his own style of learning.
It is therefore necessary to pass from a strategy of teaching –
only one, because the teacher is one – to strategies of learning
experiences or of learning in general, because each one has a
different structuring of the process of learning. This favours a
possibility of considering the presence of a schoolmate in a
situation of handicap as a resource to build learning strategies. It
is clear that it engages us in a challenge that is not only of any
form of cohabitation but of cohabitation targeted to learning
experiences; and therefore with the need of finding mediators,
subsidies, materials that should allow that child in a situation of
handicap to learn. And this is certainly observed but also
understood with the help of adults by the schoolmates who accomplish
what we have read in Lamberto Borghi: the possibility of
understanding that one’s accomplishment is also the accomplishment
of others, not only in vaguely sentimental terms but also with the
concreteness of the objectives of learning. The
possible development of infant school, as forecast by Sergio Neri,
entailed a few risks, since an evolution of this style or of a
reproduction of it was not considered possible; and therefore either
out of favour dictated by generosity, or out of fear dictated by a
sense of the duty of teaching, we imagine that while all the other
subjects may go through the processes of learning in evolution, the
subject, the boy or girl in a situation of handicap, must for
reasons related to his own condition, maintain that way of dealing
with learning experiences that was typical of infant school, even
though he has already finished infant school, and perhaps a good
while ago. And therefore there would be a gap between one’s own
modality of living the learning experiences and their developments
and the modalities of carrying them out by the others in the class
group of peers, and in general. Now this is the point on which we run the risk of reproducing a situation
of support that does not have an evolutionary form. Evolution in a
context of sociality should be coevolution,
and this is the way we wish to interpret it. This is another
important point about the Italian model, or what we call Italian
model, in other words the possibility that there should be
coevolution in the comprehension, and therefore also in cognitive
development, of the presence of a deficit in the life of a subject
and of handicaps for a context of contexts. And that there should be
the need and possibility of integrating in disciplinary processes
the knowledge of the deficit in order to accept it, and the
knowledge of handicaps, in order to reduce them. But its knowledge
makes it easier to master, and it becomes no longer mysterious. Now,
it should be evident – but it is not always so – that such a
coevolutionary line presents differences that depend on the deficits:
a visible deficit, that is large enough to reduce the subject’s
mobility for example, is faced in a certain way, while an invisible
deficit, or a psychic or sensory deficit needs differentiated
approaches. This
is plurality; plural processes, within one school. This is one of
the basic elements that transforms pedagogic and didactic reflection
and allows to try and place in the past an approach we call didacticism.
In the model of didacticism, which spread without the name being
fixed in the mind of those who practice it, the initiative by the
adult is absolute, as regards the organisation of the syllabus, the
progression, the study techniques, and it can be repeated in the
same way, whatever the subjects present in the class group. There is
a sharp separation in the studied subjects which are only connected
by chance in the weave of thematic groups, the authority is of those
that teach, and as a study technique there is almost a unique use of
memory which is reproductive. Thus the control and evaluation
techniques are essentially founded on the mnemonic reproduction of
the transmission of teaching. These
characteristics may be mitigated, or made even more difficult in
their application by the unruliness of the pupils, and generally
speaking, if this is the model followed by the teachers, unruliness
brings the matter to bear on the pupils rather than on the model.
This model has another important characteristic,
that is naturalism: it is considered the way – not one way – of teaching and the way of learning. There have been
controversies and not only in our country but in other countries as
well, about the pedagogism of teaching, of the scholastic condition,
and at times they have created misunderstandings, for example the
crude misunderstanding of believing that this pedagogism meant the
cancellation of disciplines, of studied subjects. But it is not so:
it is a superficial interpretation of the problems that breaks the
scheme of didacticism and creates attention to learning experiences,
and one of the reasons why this has happened is also the integration
of pupils in situations of handicap. There
can be two interpretations of this failure. One is decidedly
negative: in naturalism pupils in situations of handicap are not
included, they create difficulties and – let’s say generally –
the fault is theirs, they should not be
where they are. But the other interpretation, which we find is the
most common, is that of adopting – thanks to the presence of the
subject or of subjects in situations of handicap – constructive
prospects in the field of knowledge, and therefore of understanding
that the problems of subjects in a situation of handicap are only
latent, or in some way masked, problems that are also the problems
of other persons; and the real core of the matter is that of passing
from the illusory homogeneity of the learner to the plurality of the
learning subjects, and therefore to a construction of disciplinary
didactics capable of facing plurality and living
it as a resource. This
is the important reason of coevolution; we cannot imagine the
utility of a strong infant school unless it is related with a
coevolution that also involves didactic tools and lays down to all
teachers, and not delegated to special teachers (specialised in
support, appointed as support teachers or other forms still) the
necessity of facing their own personality with greater skills,
greater severity. This same problem is faced by the trainers, and we
know how difficult the training course for teachers in general has
been, and still is, as well as of those specialised in support
within this general framework. We
need to complain about a further difficulty, which is not well
understood and not adequately kept in mind in school management,
inasmuch as it refers to the University world. And in this
reflection this element may appear a little forced. We refer to the
fact that the subject groupings for competitions are not such as to
give good skill homogeneity. For a very short time the grouping on
special pedagogies had its own identity, which was immediately
cancelled to return to being an apparently homogeneous element, but
in reality it was very inhomogeneous, in a grouping that included
didactics and special pedagogy, with a possibility of having
competitions in which special pedagogy skills are either a minority
or non-existent - also this could happen - in the same examining
board, and that therefore it should be possible to acknowledge skill
levels without even having the tools to do so. In the confusion
special pedagogy may remain a marginal subject and such to allow the
confused acceptance of skills that refer to differences unrelated to
situations of handicap. And such, for example, is the consideration
that special pedagogy should include gender differences, cultural
difference, interculture, multiculture, differences in learning
rhythms – and this could already be nearer – but also
differences in general. And some might even think of special
pedagogy, from the viewpoint of study and research, for example, in
difficulties related to juvenile delinquency. Undoubtedly
these are important subjects, but they are unrelated to the precise
subject of the difference due to situations of handicap, unless by
elements of analogy that are found in all
disciplines. This is a weak point because it does not guarantee
effective trainers. We need to take on our responsibilities in this
and have the courage to address those that have skills dictated by
experience. Here we enter a very delicate sector because it is
evident that experience is not enough, but this also requires such a
reorganisation and reformulation as to guarantee the possibility of
supplying training and not simply supplying oneself and one’s
experience to others. And we have to include such a comment in this
reflection, because it shows that though the Italian model has very
widespread points of reference, and therefore some elements of
solidity, it still needs a lot of attention to consolidate and
develop fully. While
we were preparing these thoughts, we heard news of the death of
Gadamer, the professor of hermeneutics, whose basic statement for
the development of his philosophy was the following: the individual
is language, being is language. We present this figure as an
emblematic point of our outlook. At the same time we intend to say
that Gadamer helps a reflection that should be completed: it is not
enough to have a deep knowledge of Gadamer’s philosophy; we need
to see its development in practical applications, and therefore
understand how important it is to consider those in a situation of
handicap with the possibility of helping them develop their language
because it is tantamount to helping them to be. It means to explore
the perceptive fields, understanding what tools of development of a
language evolution a subject may be allowed, favoured, may be
enhanced in a subject, and that there is a profound radical
difference between communication and language, because in language
we live a presence in a community, and therefore it is possible to
have an evocative symbolic, forecasting structure, a hypothesis that
should work in the mind of an individual to allow coding, which
communication makes possible only in extremely limited terms. It
means subtracting from assistance those that have no access to
language. The
effort therefore is to translate Gadamer, if we wish to have a
referent in philosophy, and to have an epistemological foundation in
that referent that should have operational developments capable of
organising. We
need to bear in mind that the terms “organisation” and “skills”
are precious in the Italian model of integration. We have often
pointed out that this Italian model does not have a closed structure
but is related as in a neural network to the ongoing research in the
world. We need to maintain this curiosity towards what happens
beyond the confines of our country, outside our circle, because
thanks to this curiosity we shall avoid presenting ours as “the”
model and we will be able to integrate it with others and build an
integrating outlook or an inclusive one that should be vaster,
stronger, and certainly more problematic, in the understanding that
problematicity is the richness of what we have experienced so far
and that we would like to go on experiencing it. ----------------- REFERENCES ZELIOLI A., Il problema degli handicappati nella legislazione italiana, in R. ZAVALLONI, edited by, Il problema degli handicappati, Edizioni Istituto Psico-pedagogico Pio XII, Cesena, 1977. AUGENTI A., La questione scolastica dei ragazzi handicappati, Le Monnier, Florence, 1977. MORAVIA S., Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron – Pedagogia e psichiatria nei testi di J. Itard, P.H. Pinel e dell’Anonimo della Décade, Laterza, Bari, 1972. GOFFMAN E., Asylums,
Einaudi, Turin, 1968. IDEM, Stigma, Laterza, Bari, 1970. SELLERI G., Per una psico-sociologia dell’handicap, in “Quaderni della riabilitazione”, newsletter AIAS, Roma, dicembre 1978. NERI S., Guardare vicino e lontano, Fabbri Editori, Milan, 2002. |
La pagina
- Educazione&Scuola©