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Folgorato sulla via di Comenio
Lunedì sera, università popolare, corso di inglese per principianti. E’ la mia quarta lezione. Tocca a me dire "Hello, Brigitte, qual è il tuo telephon number?" Sapete, quelle prime frasette che si imparano e che qui non oso scrivere tutta in inglese. Sarà perché sono stanco, fatto sta che invece dico "Hello, Brigitte, qual è il tuo nome?". Risata generale di tutti i miei compagni di classe (una bidella, pensionati, artigiani, un contadino, un architetto, ecc…). Risata generale. Da parte mia, rido con loro (così pare si debba fare) ma insieme provo disappunto, pudore strappato, quasi un trauma. Fortunatamente la mia insegnante Silvia reagisce bene: ride anche lei, ma è un riso indulgente. Sbagliando si impara, dice, e perché voi non vi sbagliate mai? Ma soprattutto fa la magia: interpreta l’errore e lo considera un risultato: ho almeno imparato come si chiede il nome a una persona –dice- e non lo dimenticherò più. Magica Silvia! Sa che adulti stanchi, la sera, possono anche sbagliare. Fortunatamente qui non riceviamo voti, né certificati, forse ci piace di più condividere un’esperienza comunitaria di apprendimento (e di comune sbagliamento) che di imparare a chiedere in modo british da Harrod’s l’afternoon the. Veniamo volontariamente, la mamma non ci obbliga. Eppure, e forse per questo, il trauma rimane: quello della propria stima, lenito bene da Silvia. E da adesso in poi, prima di dire un’altra frase in inglese ci penso settanta sette volte sette. A meno che Silvia….. Facessi il meccanico o il geometra sarebbe forse stato solo un piccolo trauma, freudianamente un lapsus. Ma per me, uomo di scuola, è invece una folgorazione. Penso subito alle migliaia di ragazzini e ragazzine che questa mattina, presi dalla distrazione, dalla superficialità, dalla noia o da altri accidenti, abbiano avuto in faccia dai compagni risate simili. Penso anche alle tante insegnanti non-Silvie distratte, nervose, superficiali che sottovalutano quel piccolo trauma e tirano avanti, magari aggiungendo all’amaro della risata dei pari la cinica ironia degli adulti (cose del tipo: "sei un testone", parole tante volte sentite nelle aule). Tornato a casa cerco consolazione nel mio vecchio e caro Comenio e nel primo libro di lettura per bambini al mondo, l’Orbis sensualium pictus, lascio parlarmi le sue parole dell’incipit: "Vieni, ragazzo, impara a conoscere" "Che cosa vuol dire conoscere?" "Capire bene, agire bene, saper dire bene tutto ciò che è necessario" "Chi me lo insegnerà?" "Io, con l’aiuto di Dio" "In che modo?" "Ti condurrò dappertutto, ti mostrerò ogni cosa, ti indicherò ogni cosa" "Eccomi pronto, guidami nel nome di Dio" "Prima di tutto devi imparare i suoni semplici di cui si compone la parola umana, quei suoni che gli animali sanno articolare, la tua lingua sa imitare, la tua mano sa scrivere. Poi entreremo nel mondo e contempleremo ogni cosa". Folgorato sulla via di Comenio da un pensiero antico, che mi viene fin dal primo lontano giorno in cui, ormai più di trent’anni fa, ho avuto nelle mie mani una classe, una quarta elementare.
Apologia della didattica Forse pochi sanno –e pochi ci crederanno- al fatto che io, pur facendone parte, abbia frequentato pochissimo la cosiddetta "Commissione De Mauro dei 200" per i curricoli della scuola di base. La ragione stava nel fatto che lì dominavano professori e cattedratici, sgomitanti tra loro, dediti a declinare in scale astrattamente armoniche la propria "santa disciplina" secondo canoni che poco avevano a che fare con la conoscenza, né con l’io bambino che voleva entrare nel mondo. Furoreggiava invece quell’astratta deposizione dall’alto del pianeta platonico del disciplinismo secondo la teoria del salame: dicesi curricolo il suo taglio in tante fettine. La discussione stava tutta in quante, di quale grossezza, quante per giorno mangiarne. Naturalmente (quasi) tutti eguali, professori destri e sinistri. Oggi l’unica cosa cambiata è che ne rimane solo uno a fare il salumiere, gli altri sono passati a far girelle. Feci un unico intervento, ovviamente smarrito: "Tagliate le fette di salame come volete, a me dell’ingegneria delle vostre discipline importa poco. Ciò che a me interessa, ciò che a me pare importante per la scuola italiana non è cosa si insegna, ma come si impara". E poi, addio nella primavera romana che andava tiepida verso le elezioni. Avevo due amici matti, con i quali ce n’eravamo andati in montagna (a spese nostre) a scrivere qualcosa sulla filogenesi della vita individuale che incontra l’ontogenesi del mondo. La nostra pazza teoria era che l’essere umano naturalmente parla, fa conti, misura, ha il senso del tempo e così via. Compito della scuola non era tanto il pignolo dividere fette di salame, ma l’incontro tra il mondo genetico interiore e il mondo del mondo di chi è venuto prima di chi impara. Appunto quel "guidarsi reciprocamente", per capire bene, agire bene, saper dire bene. Perché l’insegnare sia condurre dappertutto, mostrare ogni cosa, indicare ogni cosa a tutti e a tutte, nessuno escluso, con l’aiuto di Dio. L’insegnante errante per l’alunno errante nel comune mondo. Naturalmente era meglio che restassimo in montagna. Roma infatti ci respinse sbigottita da tanta "pedagogia" e da tanta "puerologia". Un mio amico se ne è andato in pensione, l’altro è rimasto in montagna, dove fa sempre più freddo. Vivo nella mia periferica amata provincia, e vado spesso felicemente nelle aule a sentire odore di gesso, grembiuli, mense, grida di bambini, recite e tabelloni. Girare per le scuole fa solo bene, vedere i bambini come imparano (e come non imparano) mi fa ripetere l’antico dialogo di Comenio. Nella regione dove abito, un assessore sta preparando una proposta regionale sui cicli scolastici. C’è della politica ma anche un po’ di pedagogia. L’ipotesi punta (dopo la scuola media) più sul biennio integrato e meno sul duale. Cose che possono sembrare pura ingegneria, ma c’è anche un po’ di anima. L’idea è che così va meglio a tutti, agli intelligenti e agli svogliati. Oggetto, questo, che se depurato dai pregiudizi, meriterebbe pensieri realistici e saggi. Vado al convegno di presentazione, la sala è quasi girotondina, eppure appena parlano i professores barbudos rispuntano fuori di nuovo le discipline: quali, quante, quando, gli orari, cose così. Spunta fuori il solito buon salesiano che pro domo sua fa l’apologia della pedagogia della salvezza dei ragazzi che noi scartiamo (imparino almeno un lavoro! almeno un lavoro!). In realtà, rimane sullo sfondo la domanda delle domande: ma i ragazzi sbagliano sempre loro? E’ sempre colpa della mamma? O della pubertà imbecille come pensa Lodoli? Un preside dice che da quando c’è il Nos il suo istituto professionale ha abbassato le performances di tutti (dice proprio così, come se la scuola fosse la prova delle veline per andare a Striscia). Mi viene di parlare e dico due cose. La prima che sogno il giorno in cui il fighetto del classico proverà a fare un bignè con la crema chantilly copiando quello che ha fatto un ragazzo Down nel vicino istituto alberghiero, così l’integrazione diventa una bella esperienza per entrare nel mondo sapendo le cose necessarie; per la seconda, a proposito della solita querelle sui ragazzi che faticano, cito una frase di Don Milani (il mio Comenio secondo): "..Solo i figlioli degli altri qualche volta paiono cretini. I nostri no. Standogli accanto ci si accorge che non sono. E neppure svogliati. O per lo meno sentiamo che sarà un momento, che gli passerà, che ci deve essere un rimedio. Allora è più onesto dire che tutti i ragazzi nascono uguali e se in seguito non lo sono più, è colpa nostra e dobbiamo rimediare". Appunto: rimediare, perché è solo un momento. Come il mio errore nella mia classe di inglese. Io intanto contemplo Sara. Ha ormai sei mesi, e mi è un poco parente. Sorride, ci sorride, perché noi sorridiamo a lei. Sa già un po’ come andare nel mondo. Mugola primi versi, quando piange sa cosa vuole, prende le cose con tutte e due la manine. Vedo la sua filogenesi che si fa ontogenesi perché Sara sa già, vedo che è già cominciata per lei la conoscenza del mondo. E’ Sara che mi insegna il mondo, devo io adeguarmi a lei, non mi posso stancare e lasciarla a frignare nel box. Io devo capirla. Devo guidarla. Devo rimediare, se serve. Con l’aiuto di Dio. Da nove mesi non parlo più di cicli scolastici e riforme di organizzazione, perché folgorato sulla via di Comenio. Ho cinquant’anni e non ho interesse per le ingegnerie senz’anima dei disciplinisti. A me intriga capire come si fa a guidare e riparare –se ci sono guasti- provando a insegnare per capire bene, agire bene, saper dire bene tutto (e forse solo) ciò che è necessario. Che c’entra tutto questo con i discorsi su cicli, portafogli, anticipi, prevalente, scuola di base o media, curricoli o discipline? Non ne sono favorevole o contrario, ne sono quasi del tutto estraneo! Questo non vuol dire che non partecipo alla cronaca del presente. Vorrei però andare più in là di una discussione ingrippata, che forse contiene altro che la pedagogia (forse questioni economiche?), con il coraggio di una visione che vada oltre alle ingegnerie ideologiche, per riproporre la sostanza del cambiamento che considero necessario. Non che la discussione sui cicli scolastici non sia utile, per carità. Il fatto è che è una discussione ingannevole, perché non va all’essenziale. Pensate alla storia del Porfolio, nata male per me già dal nomignolo bancario, come se sulla valutazione non avessimo già dilagato e nascessimo ex novo. La bontà del nostro sistema scolastico non sta su quale mese si entra in prima o quante volte si ripetono le guerre puniche, ma su come si impara. E il come si impara si chiama didattica. Parola rara oggi, ma non molto apprezzata neppure prima. Confusa con "metodo", o peggio "tecnica", insomma lo strumentismo di cui si parla sempre in coda, mai all’inizio. La qualità didattica viene prima, molto prima, dei cicli, qualsiasi sia la proposta politica. Naturalmente una o l’altra favoriscono o deprimono la buona didattica, ma prima c’è altro! Perché non dirci onestamente che siamo settecentomila dilettanti? Che la didattica non la si impara mai, la si scambia poco, non ha statuto scientifico perché non fa denari? Che l’insegnare conta (nel nostro paese) per la disciplina che insegni e non per la bravura che hai nell’insegnarla a tutti? Perché prima di dare la colpa a loro che non imparano non guardiamo i nostri limiti? E come possiamo fare a migliorarli? Con una nuova ingegneria di cicli? Non basta, anzi può portare fuori strada. Con nuovi curricoli? Forse, ma non lasciamo la scuola ai disciplinisti! E’ l’insegnare bene il segreto del futuro della scuola italiana, non tanto il cosa, il quando, il dove. E non è neppure l’insegnare in tanti, come troppe volte abbiamo fatto per nascondere i nostri limiti. C’è un problema? Un insegnante in più! Questa è stata spesso la soluzione corporativa italiana degli ultimi quarant’anni. Il numero conta, ovviamente, ma un insegnante "più maestro" quando? Sia chiaro: non ho alcuna nostalgia del maestro unico, credo anzi che la pluralità sia un patrimonio pedagogico irrinunciabile. Qui mi interessa altro, mi interessa cosa vuol dire "bravo maestro". Secondo me, si deve mettere al centro la didattica anche perché non bastano più le tante o poche conquiste professionali di questi anni. Il fatto nuovo, che impone ancora di più un rilancio della didattica come cuore strutturale della scuola, è che sono profondamente mutati i modi, i tempi e i luoghi dell’apprendere. Nell’epoca della penuria alfabetica (la nostra infanzia) i numeri in colore e il ciclostile erano modernità. Ma oggi con la televisione sempre accesa, Internet, il dominio del pensiero simultaneo, le nuove diseguaglianze cognitive, le nuove opportunità assieme alle nuove stupidità, la velocità e il vacumm immaginario, l’epoca dell’obesità cognitiva dei bambini ci chiede una didattica più attenta, paradossalmente non nutriente ma disintossicante, capace di dominare la modernità globalizzata senza schiavitù tecnicistiche, con una nuova attenzione alle menti che apprendono, agli strumenti, agli ambienti, per una ontogenesi più solida, pena il neo analfabetismo della stupidità, che prenderà –come sempre- di più i più poveri. C’è una nuova sfida, che il fotocopiatore sta rovinando, per una scuola più criticamente capace di critica del mondo e di creatività. Solo questo meriterebbe un decennio di impegno pieno. Si capisce, quindi, perchè mi ha sempre molto di più appassionato l’autonomia scolastica che la questione dei cicli. Perché almeno l’autonomia voleva scompaginare le classi, i tabelloni orari, le stanche ritualità delle lezioni direttive, insomma rendere possibile l’incontro creativo e flessibile tra le mente che insegna e la mente che impara. L’autonomia era la freschezza della didattica come viaggio in due nel mondo e nella contemplazione del mondo, con l’aiuto di Dio.
Se c’è un destino della scuola Se qualcuno ha ancora interesse a seguirmi, vorrei parlarvi di Martino e del suo impegno a leggere e a scrivere. Martino è Down, porta gli occhiali, gioca a pallone e tifa il Ravenna in serie D. Martino spesso sbaglia, ma le sue maestre, come la Silvia, non si arrendono e non ci ridono sopra. Per me il destino della scuola, almeno di quella che io so fare e dire, è che ognuno che insegna pensi alla riparazione che ci chiede Don Milani. Abbiamo un solo modo: insegnando meglio, non arrendendoci mai, credendo che il nostro piacere è trovare la strada giusta, provando e riprovando. La sfida oggi è migliorare le nostre performances (ancora quelle!) didattiche, che non sono legate tanto ad una o ad un’altra tecnologia, o ad uno o l’altro modello di ciclo, ma all’incontro felice tra la sua filogenesi e la nostra ontogenesi, per entrare nel mondo insieme. Alcune parole mi vengono per suggerire una piccola mappa di strane discipline. Disciplina per il maestro, non per l’alunno, piani di insegnamento prima che di studio.
Parole strane, che formano un triangolo tra la mente che impara, la mente che insegna, gli oggetti del mondo. Questo triplice incontro era per noi tre matti in montagna la parola curricolo. Studiare e provare come insegnare meglio, questa è per me la vera sfida del futuro. Le menti che imparano hanno bisogno dalla scuola di questo: che pensiamo a loro, non ad altro. Le menti che imparano chiedono alla scuola italiana attenzione, soprattutto quando siamo noi i distratti e crediamo che le cose per noi semplici debbano per forza essere semplici anche per loro. Soprattutto di quei "loro" che ci paiono cretini. Perché è la giustizia che fa giusto il mondo, la libertà che lo fa libero, la fraternità fraterno.
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