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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo

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PROVVEDITORATO AGLI STUDI DI UDINE

UFFICIO H

Relazioni sui risultati conseguiti, dai tre corsi di Alta Qualificazione sulla base del modello predisposto dall’Osservatorio permanente per l’integrazione scolastica  delle persone  in situazione di handicap

Corsi di Alta Qualificazione


"Strategie  e tecniche di comunicazione per l’integrazione scolastica degli alunni in situazione di handicap"

DIR. CORSO Dott.ssa Chiara ZULIAN

DIREZIONE DIDATTICA STATALE DI SAN GIORGIO DI NOGARO Via Università Castrense - 33058 San Giorgio di Nogaro Tel./ Fax  0431/65088 - C.F. 81003750304 E-Mail: elementaresgn.sgn@insiel.net

 AA.SS. 1999/2000  -  2000/2001

RELAZIONE FINALE


"Formazione esperti territoriali per l'integrazione scolastica e sociale"

DIR. CORSO  Prof. Silvano BERNARDIS

ISTITUTO COMPRENSIVO DI AIELLO DEL FRIULI  Via Manzoni n° 12 33041 Aiello del Friuli (Udine) Tel.: 0431/99160 fax 0431/973511  http://space.tin.it/scuola/dfnbe e-mail aiellosm@tin.it

Nel corso dei mesi di MARZO e MAGGIO 2000 presso la Scuola Media di Cervignano si è svolto un Corso di Alta Qualificazione per docenti di Sostegno Specializzati.  Ciò che si vuol offrire con il presente elaborato è la sintesi di quanto si è prodotto in quell’occasione. Il leit-motiv del corso era costituito dal tentativo di predisporre progetti di un certo respiro che potessero essere destinati agli alunni in situazione di svantaggio.       Logica ha voluto che pertanto i corsisti si dividessero in gruppi e, dopo alcuni input iniziali forniti da relatori e conduttori (della O.P.P.I. di Milano), si organizzassero per definire e realizzare ciò che era negli intendimenti degli organizzatori.

Ne sono usciti conseguentemente cinque lavori (tanti quanti erano i gruppi) e precisamente:

 

INDICE dei Documenti

 “Progetto di inserimento / integrazione di un alunno in un’associazione del territorio”

Documento  (PDF) 126kb

Immagine - la tavola dei colori

 “La tavola dei colori (“Docente di sostegno come operatore territoriale”): costituisce un approfondimento relativo al settore extraterritoriale durante il periodo estivo;

Griglia Indicatori (PDF) 34kb

Qualità complessiva (PDF) 207kb

“Qualità dell’integrazione”: rappresenta il tentativo di raccogliere in una serie di schemi quali possano essere i fattori di qualità in grado di connotare un intervento su alunno in condizione di handicap;

Documento (PDF) 236kb

“Realizzazione di un punto di riferimento e informazione al servizio dei familiari di minori in situazione di handicap e dei docenti della scuola dell’obbligo”: trattasi – come si vede – dell’istituzione di uno sportello dedicato ai problemi dell’handicap.

Documento (PDF) 86kb

“Laboratorio espressivo teatrale”: trattasi di una proposta che è in grado di favorire la motivazione, l’integrazione e l’acquisizione di comportamento degli alunni, in particolare di quelli in situazione di difficoltà.


Strategie e tecniche di comunicazione per l’integrazione scolastica degli alunni non udenti

(O.M. n. 782 del 09.12.97) maggio-ottobre 2000)

DIR. CORSO dott.ssa Francesca VENTURINI

Direzione Didattica 2° Circolo Via Magrini n° 6 33100 UDINE tel.: 0432/504101 fax 0432/511778

RELAZIONE FINALE

Corsiste:
Barbara Macor
Francesca Munini

Sordità

(ingl. Deafness; ted. Taubheit; fr. Surdité)

 

Mancanza parziale (ipoacusia) o totale (anacusia) del senso dell'udito dovuta a cause congenite o acquisite. Se precoce, la sordità si accompagna al mutismo (sordomutismo). In questo caso, le possibilità di comunicazione sono affidate a tecniche di ammaestramento basate su principi ottici e tattili e all'acquisizione del linguaggio dei sordomuti che si affida a un impianto di segni e di simboli basato sulla mimica e sulla gestualità. Le persone sorde tendono a una personalità isolata, insicura, diffidente, sospettosa nei confronti degli altri dovuta alla sensazione di isolamento conseguente all'incapacità di udire che potenzia interpretazioni erronee.

 

LE CAUSE DI SORDITÀ’ NEI BAMBINI

 

Le cause di sordità infantile possono essere classificate in base a tre elementi:

epoca di insorgenza

cause della lesione

sede della lesione

 

In base all’epoca di insorgenza si riconoscono forme:

congenite: la sordità è già presente alla nascita ma non è necessariamente ereditaria;

acquisite: la sordità compare dopo la nascita.

 

In base alla causa, la sordità può essere classificata come:

endogena: forme ereditarie che si suddividono in dominanti, recessive, legate al sesso (cromosoma X),

esogene congenite: dovute a una infezione che la madre ha contratto durante la gravidanza:

- esogene acquisite: che si classificano a loro volta in base all’epoca di insorgenza in:

- prenatali infettive: virus, batteri, parassiti;

 

intossicazioni: endogene, esogene;

perinatali ittero, trauma da parto, ipossia;

postnatali infettive: batteriche, virali;

intossicazioni: endogene, esogene;

trauma cranico.

 

Rispetto alla sede della lesione, si differenziano forme:

. trasmissive: la lesione è localizzata a livello dell’orecchio esterno o medio;

. neurosensoriali: la lesione è a livello di orecchio interno o di nervo acustico.

 

Sordità ereditarie

 

La sordità ereditaria può essere definita come un difetto uditivo che compare in seno ad una stessa famiglia a condizione però che nessuna evidente causa acquisita possa spiegare da sola tutta la sordità. Si distinguono forme di sordità ereditaria semplice e sindromi ereditarie con sordità. Le sindromi sono quadri clinici complessi in cui l’alterazione genetica non si manifesta direttamente nella sfera uditiva ma causa alterazioni più o meno generalizzate che a loro volta influenzano il normale sviluppo dell’udito unitamente a quello di altri organi o apparati.

 

La sordità nelle forme sindromiche si associa a svariate manifestazioni agli apparati quali, ad esempio, malattie del sistema nervoso centrale, affezioni oculari e renali, malattie del sistema endocrino, affezioni cutanee, anomalie cromosomiche.

 

La sordità ereditaria può essere suddivisa in base alla modalità di trasmissione del gene

alterato in:

dominante,

recessiva,

legata al cromosoma X.

La diagnosi di sordità ereditaria non può essere posta né in base ad esami particolari del patrimonio cromosomico né in base a sintomi clinici isolati, ma solo dopo a una anamnesi accurata ed una completa valutazione clinica del soggetto.

Unanimemente, si ritiene che almeno il 50% delle sordità infantili siano sostenute da un fattore genetico.

 

L’ACQUISIZIONE DEL LINGUAGGIO E LE CONSEGUENZE DELLA SORDITA’

 

Il linguaggio verbale, prerogativa specifica della specie umana, si struttura durante i primi tre anni di vita. Superato questo periodo, il bambino risulta difficilmente permeabile all’acquisizione del linguaggio.

Affinché questo complesso meccanismo possa realizzarsi, è indispensabile un normale sviluppo del sistema nervoso centrale, un’adeguata stimolazione da parte dell’ambiente esterno, l’integrità del sistema uditivo, dell’apparato laringeo e della relativa via nervosa.

Lo sviluppo del cervello avviene rapidamente nel primo biennio, durante il quale esso triplica il proprio peso, mentre dai 2 ai 12 anni, quando il linguaggio è ormai ben strutturato, esso aumenta solo di una volta e mezzo.

La corteccia cerebrale presenta un rapidissimo incremento del numero di neuroni sino ai 2 anni per diminuire rapidamente da 2 ai 16 anni, epoca in cui si arresta del tutto.

Durante i primissimi anni di vita nel tessuto cerebrale aumenta sia la distanza tra i neuroni sia il numero di connessioni tra di essi, espressione di una riorganizzazione e specializzazione nei circuiti cerebrali conseguenti all'acquisizione di specifiche funzioni superiori. Questo insieme di fenomeni, definito plasticità cerebrale, si protrae al massimo fino ai 2-3 anni. Superato questo periodo, l’acquisizione spontanea del linguaggio diviene oltremodo difficoltosa se non impossibile.

 

Il pianto, già presente alla nascita, prima involontario poi intenzionale con la crescita, costituisce l’unico mezzo per comunicare uno stato di necessità .

Dopo la terza-quarta settimana dalla nascita, compare il sorriso, ma solo verso il settimo mese esso assume un carattere significativo rispetto a situazioni gradevoli. Il vocalizzo rappresenta l’inizio della produzione dei suoni, indipendente dal pianto, e compare verso il secondo mese. Non è da ritenersi il tentativo di un’espressione verbale bensì una fase di allenamento motorio delle strutture che produrranno il linguaggio.

Verso il quinto mese compare la lallazione costituita dalla ripetizioni delle consonanti m, b e p seguite dalla vocale a: il bimbo prova piacere nelle ripetizione di questi suoni che non hanno ancora una finalità verbale ma costituiscono un allenamento al controllo dell’emissione vocale attraverso l’udito.

 

E’ solo verso il primo anno di età che il bambino accentua l’imitazione volontaria di quanto ascolta, attraverso modificazioni e autocorrezioni, producendo le prime semplici parole inizialmente costituite da monosillabi. Intorno all’anno e mezzo, il vocabolario consta di circa 50 parole: da questo periodo fino ai due anni, il bambino inizia a costruire la frase di due parole. Tra il secondo ed il terzo anno la frase è in continua strutturazione, sebbene siano

presenti errori grammaticali.

 

Nel periodo compreso tra il terzo ed il quinto anno la frase si arricchisce con l’inserimento di articoli, preposizioni, avverbi, forme interrogative ed imperative. All’età di cinque anni si può affermare che il linguaggio sia ormai ben organizzato. Da questo periodo in poi, si assiste ad un arricchimento del vocabolario e delle possibilità espressive.

 

Nel bambino affetto da sordità grave, le tappe dello sviluppo del linguaggio sopra descritte non hanno luogo. Un elemento importante che i genitori devono osservare con attenzione è la mancata comparsa della lallazione. Questa grave carenza sensoriale, oltre alla mancata acquisizione del linguaggio, provoca anche alterazioni dello sviluppo psicomotorio e disturbi del comportamento.

 

Il rapporto con la madre, in caso di sordità, è inevitabilmente ridotto al solo tatto e alla vista: dover cogliere gli stati d’animo soltanto dall’atteggiamento emotivo-affettivo e dall’espressione del viso, senza il supporto dei contenuti forniti dal linguaggio provoca i presupposti per la strutturazione di una personalità caratterizzata da diffidenza, tendenza all’isolamento, aggressività, depressione. Ovviamente, intervenendo con precocità attraverso l’applicazione della protesi e con la riabilitazione, si possono limitare le alterazioni ricordate.

 

 

 

IL RUOLO DEL LOGOPEDISTA

 

L’educazione è la trasmissione di una cultura, delle conoscenze, dei valori, degli usi e

costumi di un popolo.

 

Il logopedista dovrebbe soltanto educare al linguaggio parlato, ma nella realtà il suo intervento è molto più ampio. La terapia della sordità profonda può durare infatti anche 10-12 anni e implica un allenamento specifico per apprendere la lingua vocale, dal momento che i sordi non la acquisiscono attraverso un processo spontaneo, ma devono apprendere la lettura labiale, imparare ad utilizzare il residuo acustico e a comunicare nella lingua parlata.

 

La funzione del logopedista è dunque proprio quella di guidare il bambino nell’ apprendimento della lingua orale e scritta, ma inevitabilmente durante gli anni della terapia egli diventa anche un punto di riferimento per il bambino e per la sua famiglia. Con il sordo si instaura un rapporto di "amore", ma al tempo stesso anche conflittuale, perché il terapista è la persona con cui il bambino comunica meglio, ma rappresenta anche la personificazione della sua sordità e delle difficoltà che da questa derivano.

L’educazione al linguaggio è dunque un percorso molto complesso con implicazioni non solo logopediche, ma anche affettive, psicologiche ed educative. I genitori devono essere inseriti in questo processo e il logopedista deve avere con loro un filo diretto, senza irrigidirsi di fronte alle scelte della famiglia, anche quando non sono condivise.Dovrà essere in grado di mediare, perché il successo della terapia sarà determinato proprio dal grado di fiducia e di collaborazione che si riesce ad instaurare.

 

LA RIABILITAZIONE NELLE SORDITÀ DEI BAMBINI

 

La riabilitazione del bambino sordo è l’insieme degli interventi finalizzati al recupero del linguaggio e del comportamento. Poiché la sordità provoca una grave limitazione nel processo di acquisizione verbale, ne consegue anche un disarmonico sviluppo psicofisico. Il processo di apprendimento nel bambino normale si avvale di schemi basati sulla comunicazione, lo spazio ed il tempo, elementi che nel sordo risultano deformati.

 

Percepire la figura materna solo attraverso la vista ed il tatto, cogliere gli stati d’animo e l’atteggiamento emotivo-affettivo solamente dall’espressione del volto, limita la maturazione psichica e rende difficoltoso il processo cognitivo. Queste limitazioni sensoriali creano ostacoli nella strutturazione della personalità.

 

L’intervento riabilitativo logopedico è basato su un rapporto di fiducia e collaborazione con il bambino ed i genitori, è quindi determinante un periodo di osservazione del piccolo paziente prima dell’intervento specifico. Uno dei principali compiti del logopedista consiste nel far superare ai genitori, eventualmente con la supervisione di uno psicologo, le inevitabili reazioni negative conseguenti alla diagnosi di sordità del bambino.

Attraverso una giusta consapevolezza delle possibilità di recupero si può creare un’atmosfera serena, e quindi di collaborazione tra i vari componenti della famiglia, condizione indispensabile per la riuscita della riabilitazione. L’intervento specifico inizia nel momento dell’adattamento della protesi acustica alla particolare sordità del paziente. In base alla precocità della diagnosi, la riabilitazione può essere distinta in educazione e rieducazione.

Quando la diagnosi e l’applicazione della protesi vengono effettuate entro i 16-18 mesi, si parla di educazione: in questo periodo vi è la certezza che i meccanismi di acquisizione del linguaggio non hanno ancora subito significative compromissioni a meno che non siano presenti patologie di ordine neuro-psichiatrico (psicosi, autismo, schizofrenia, insufficienza mentale). Il lavoro del logopedista, affiancato dalla madre, si basa su una forte stimolazione sonora e verbale del bambino per attivare la strutturazione del linguaggio. E’ indispensabile che la madre sia costantemente informata dal logopedista circa il programma rieducativo per ottenere una concreta collaborazione.

 

La terapia rieducativa tiene conto dell’evoluzione del linguaggio cercando di ricreare le tappe del suo normale apprendimento: con la continua stimolazione il bambino è in grado di capire che ogni oggetto e ogni situazione ha una specifica denominazione. La prima fase educativa, basata sul lavoro di associazione di significati sonori e verbali, è parallela alla presentazione di suoni onomatopeici e di situazioni della vita familiare, per facilitarne l’imitazione.

Con il passare del tempo i suoni costituiti da fonemi vengono sostituiti da parole e l’articolazione si perfeziona, con conseguente miglioramento del linguaggio. Verso i 2 anni di età, l’intervento psicomotorio diventa complementare a quello logopedico, e questo è utile per superare le difficoltà di ordine motorio che spesso si associano alla sordità.

 

Per il recupero del bambino sordo viene utilizzata anche la musicoterapia, metodica riabilitativa con finalità diverse dall’insegnamento convenzionale della musica. Questo tipo di terapia si può iniziare intorno ai 2 anni di età, o anche prima, facilitando la percezione dei suoni e inducendo la consapevolezza del ritmo. Con questa innovativa metodica si ottengono risultati spesso sorprendenti ed insperati, che portano il sordo ad un’analisi raffinata del suono.

 

La rieducazione, invece, si pratica quando il bambino non ha acquisito il linguaggio o lo ha strutturato parzialmente con schemi espressivi e comportamentali alterati, a causa di una diagnosi effettuata oltre i 3 anni di età. L’intervento del logopedista deve tenere ovviamente conto del grado di perdita uditiva. Nel caso di sordità media vengono corrette le dislalie audiogene e il timbro della voce; nelle sordità gravi e soprattutto profonde si cerca di ottenere una distinzione tra suoni e rumori ambientali. I principi della rieducazione si basano sull’allenamento acustico, sull’impostazione dei vari fonemi, sull’acquisizione di parole e frasi contenenti i fonemi che vengono via via impostati, sull’esecuzione di esercizi per lo sviluppo della comprensione del linguaggio.

Con la rieducazione si interviene quando ormai il soggetto non ha più quella plasticità cerebrale indispensabile all’apprendimento naturale del linguaggio. I risultati sono quindi meno significativi rispetto all’intervento educativo, attuabile grazie alla diagnosi precoce della sordità.

L’intervento logopedico non si limita solamente all’acquisizione del linguaggio ma continua nel tempo, facilitando l’inserimento del bambino prima nella scuola materna e successivamente attraverso l’iter scolastico.

E’ sempre il logopedista, ormai perfettamente a conoscenza di limiti e capacità del piccolo, ad affiancare gli insegnanti per ottenere il migliore inserimento nel mondo degli udenti, indispensabile presupposto per affrontare il lavoro e tutte le esperienze della vita.

 

 

METODI RIABILITATIVI

 

I metodi moralisti

 

Nell’ambito della scelta oralista, si sono sviluppate nel tempo metodiche differenti che però hanno in comune la caratteristica di escludere, nell’educazione al linguaggio parlato e scritto, qualsiasi uso dei segni. Esse puntano da una parte all’allenamento acustico, per aiutare il sordo ad utilizzare al massimo i suoi residui uditivi, dall‘altra al potenziamento della lettura labiale su cui si basa la comunicazione. Tra i massimi rappresentanti italiani dell’oralismo si trovano Massimo Del Bo e Adriana Cippone De Filippis, che nel loro libro La sordità infantile grave (1974, 1990 ristampa), focalizzano l’intervento logopedico in alcuni punti essenziali, quali:

 

- la diagnosi precoce;

- l’esatta valutazione del deficit;

- l’immediata protesizzazione:

- la collaborazione della famiglia nell’intervento logopedico:

- l’integrazione nelle scuole normali.

 

Il Metodo Verbo-Tonale è stato ideato, negli anni ‘50, da un professore di Linguistica dell’Università di Zagabria, Petar Guberina. Nel Metodo Verbo Tonale viene dato maggior risalto alla parola, cioè all’uso che l’individuo fa della lingua. Quindi, la lingua è una struttura che ha dei parametri, che la costituiscono, quali intensità, tensione, pausa (intonazione, ritmo, tensione), tempo, frequenza. Tali parametri vengono trasmessi e ricevuti non solo con l’apparato fonoacustico, ma con tutto il corpo, per questo il Metodo Verbo Tonale si avvale di un’impostazione pedagogica che prevede lezioni di gruppo, -in cui si lavora sul ritmo corporeo, sul ritmo musicale, con la drammatizzazione e gli audiovisivi,- e di lezioni individuali.

 

Il metodo misto

 

Nel metodo misto o bimodale si utilizza l’italiano segnato: la parola vocale è accompagnata dal segno corrispondente, pur lasciando inalterata la struttura della lingua verbale.

Nell’Italiano Segnato (I.S.) il bambino viene esposto ad un’unica lingua, l’italiano, trasmesso però contemporaneamente in due modalità: i segni e le parole. I segni seguono in tutto e per tutto sia la struttura dell’italiano che l’ordine delle parole nella frase; quando non esiste un segno corrispondente per una parola (ad esempio nel caso degli articoli, di alcune preposizioni, del plurale dei nomi, …), questi vocaboli o queste flessioni del nome vengono omesse oppure rese in modo diverso nel momento in cui si segna (ad esempio la preposizione a è inglobata direttamente nel segno "regalare").

Se invece si vuole esprimere tutte le parole di una frase, nello stesso ordine della lingua parlata, si può ricorrere all’Italiano Segnato Esatto (I.S.E) utilizzando, proprio per le parti mancanti nella Lingua dei segni gli evidenziatori, cioè dei segni creati apposta, in modo artificiale.

 

In Italia la metodologia bimodale è nata nel 1980 dalla collaborazione di un gruppo di logopediste. Bimodale significa doppia modalità e infatti nella Metodologia Bimodale vengono

utilizzate la modalità acustico-verbale, perché si parla, e la modalità visivo-gestuale, perché si segna, ma un’unica lingua: la lingua vocale. Ma l’aspetto peculiare della Metodologia Bimodale non è solo nel fatto che il logopedista parla e segna contemporaneamente, ma è anche nella scelta dei contenuti trasmessi, a cui viene data la massima importanza. Tali contenuti si basano sulle ricerche riguardanti l’acquisizione e lo sviluppo del linguaggio nel bambino udente e si fondano su una teoria linguistica che tiene conto di tutti gli aspetti del linguaggio (fonologico, morfosintattico, semantico, pragmatico) e dei suoi diversi contesti: parlato e scritto.

Viene data inoltre priorità alla comprensione del linguaggio, rispetto alla produzione.

In una Metodologia Bimodale vengono curati tutti gli aspetti del linguaggio, perché il

logopedista lavora sempre su tre livelli:

- stimolazione fonoacustica

- lettura labiale

- sviluppo cognitivo-linguistico.

 

L’aspetto della Metodologia Bimodale, che suscita maggiormente interesse, curiosità e polemiche, è il supporto gestuale utilizzato durante alcuni momenti della terapia. Tale supporto viene definito forma di un contenuto, a sottolineare che comunque la sostanza di questa metodologia è fornita dai contenuti trasmessi; c’è la convinzione, infatti, che l’uso di un supporto gestuale sia determinante per trasmettere informazioni più ricche, per una comunicazione affettivamente più naturale e per dare al bambino, quando ancora non ha strumenti vocali adeguati, la possibilità di fare richieste complesse, di trasmettere emozioni e stati d’animo, di comunicare esperienze, in sintesi di avere una comunicazione adeguata alla sua età.

La Metodologia Bimodale utilizza, come supporto gestuale, a volte l’Italiano Segnato (I.S.), a volte l’Italiano Segnato Esatto (I.S.E.), in relazione al contesto comunicativo. Quando l’obiettivo è fortemente cognitivo e comunicativo, nel senso che si vuole rendere più efficace la comunicazione e il passaggio delle conoscenze, si usa l’Italiano Segnato; quando invece l’obiettivo è di tipo grammaticale, nel senso che si vuole lavorare in modo più specifico sugli aspetti morfosintattici dell’italiano, si utilizza l’Italiano Segnato Esatto.

L’Italiano Segnato Esatto, infatti, è uno strumento didattico utilizzato solo dal logopedista, non si chiede agli insegnanti di utilizzarlo a scuola, dove l’obiettivo è la trasmissione dei contenuti, perché l’I.S.E. appesantisce la comunicazione. L’Italiano Segnato Esatto è, quindi, un sistema gestuale che segue, parola per parola, la lingua vocale. In esso viene utilizzato il lessico della lingua dei segni italiana, integrato con la dattilologia (o alfabeto manuale) o con gli evidenziatori, cioè quelle forme visive ideate per quegli aspetti dell’italiano parlato, che nella LIS non hanno un segno corrispondente o vengono espressi in modo diverso (articoli, alcuni pronomi, accordo articolo-nomeaggettivo- verbo, alcune preposizioni, coniugazione verbale). La Metodologia Bimodale italiana prevede una precedente formazione nella lingua dei segni.

 

LIS:

 

Lingua italiana dei segni

 

Sin dall’antichità, i sordi hanno utilizzato le mani per comunicare, come testimonia Platone ma l’utilizzazione dei segni a supporto di un intervento educativo è documentata soltanto dalla fine del Cinquecento, quando Pedro Ponce de Leon rieduca tre fratelli sordi, due maschi e una femmina, figli di una nobile famiglia castigliana, servendosi per l’appunto di una sorta di alfabeto manuale. Con il convegno di Milano del 1880, si sceglie di utilizzare solo ed esclusivamente il metodo orale nell’educazione dei sordi. Per quasi cento anni, dal convegno di Milano del 1880 fino alla fine degli anni Settanta quando iniziano i primi studi sui segni, in Italia l’educazione dei sordi va avanti in una situazione che ufficialmente è oralista, anche se poi, di fatto, almeno negli istituti è bilingue, perché non solo i sordi negli istituti e nei circoli continuano a comunicare tra loro in segni, ma gli stessi educatori udenti li utilizzano nella vita di convitto.

 

La lingua dei segni invece, proprio per la sua facilità, consente alla mamma e a tutta la famiglia udente di comunicare immediatamente con il bambino, di consolarlo quando si fa male, di dissuaderlo dolcemente dai capricci, di insegnargli a stare lontano dai pericoli, di educarlo gradualmente alle regole della società in cui si vive. Gli studi italiani (Volterra 1981, 1987; Caselli a al. 1994) hanno evidenziato che la LIS è a tutti gli effetti una vera e propria lingua con una sua grammatica e una sua sintassi, così come lo sono l’American Sign Language (ASL), la Langue des Signes Francaise (LSF), il British Sign Language (BSL) e le lingue dei segni delle altre nazioni.

 

Utilizzando le classificazioni già usate per analizzare le altre lingue dei segni straniere sono stati rintracciati nella LIS quattro parametri formazionali:

 

- il luogo dello spazio in cui viene eseguito il segno

- la configurazione delle mani nell’eseguirlo

- l’orientamento del palmo o delle dita delle mani

- il movimento della mano nell’eseguire il segno.

 

I segni, infatti, diventano anche uno strumento per imparare meglio l’italiano parlato e scritto, con una maggiore rapidità nell’arricchimento lessicale che, in molti casi, può poggiare direttamente sul segno, di cui si conosce già il significato.

 

L’educazione bilingue

 

Un’altra delle strade percorribili all’interno dell’educazione dei sordi alla lingua vocale è dunque l’educazione bilingue, ovvero l’esposizione contemporanea del bambino alla lingua vocale e alla lingua dei segni. I fautori del bilinguismo partono dalla considerazione che le persone sorde acquisiscono con molta facilità la lingua dei segni, a differenza di quanto accade con la lingua vocale. Questa lingua viaggia infatti su una modalità visivo-gestuale e, quindi, su un canale integro.

 

Quale futuro per l’educazione dei sordi?

 

Il futuro dell’educazione dei sordi sta nella pluralità delle metodologie percorribili, in modo che tutti i sordi e, non solo una piccola élite, abbiano garantita la possibilità di comunicare con tutti e soprattutto di comunicare con gli udenti perché questa è la società in cui vivono.

Abbiano, inoltre, la possibilità di accedere alle conoscenze e alla cultura, che spesso sono veicolate attraverso la lingua scritta, in modo da utilizzare al massimo le loro potenzialità intellettive, che nella maggior parte dei casi sono integre.

 

BAMBINO SORDO A SCUOLA

 

Le difficoltà dell’area socio-affettiva

 

La sordità è stata definita un handicap nascosto proprio perché le problematiche, che sottintende, non sono facilmente e immediatamente percepibili dagli udenti, siano essi docenti o compagni di classe. Quando, infatti, un bambino sordo arriva a scuola, l’insegnante individua quasi subito una serie di difficoltà riguardanti sia l’area socio-affettiva che quella cognitiva, ma non sempre è in grado di metterle in relazione con il deficit e quindi di agire adeguatamente per aiutare il bambino a superare l’handicap.

 

I docenti, ma anche i compagni di classe, spesso rimproverano al bambino sordo:

 

- di essere isolato rispetto al resto della classe;

- di non stare attento, proprio lui che ne ha così bisogno;

- di avere atteggiamenti aggressivi o di rifiuto, spesso nei confronti dell’insegnante di sostegno;

- di non fare i compiti a casa e di non portare il materiale scolastico richiesto.

 

Isolamento

 

E’ vero che il bambino sordo tende a isolarsi rispetto ai compagni, ma è altrettanto vero che questo avviene a causa delle difficoltà comunicative. Non si deve, infatti, mai dimenticare che la sordità è un deficit sensoriale che, se è da solo, lascia integre le facoltà intellettive. I problemi dunque riguardano la comunicazione ed esistono alcune strategie comunicative che gli udenti devono conoscere per poter comunicare più facilmente con il bambino sordo:

 

- mettersi sempre di fronte a lui quando si parla;

- accertarsi di avere il viso e la bocca ben illuminati (mai mettersi contro luce);

- parlare in modo chiaro e semplice, senza usare frasi lunghe e con troppe subordinate;

- smettere di parlare quando si è girati a scrivere alla lavagna;

- parlare a turno, uno per volta, e segnalare con la mano quando qualcuno interrompe e interviene nella conversazione;

- toccare leggermente sul braccio il bambino per richiamare la sua attenzione, mai all’improvviso e alle spalle;

- farlo partecipe di tutto quello che avviene in classe e che a lui può sfuggire.

(Ad esempio, è bene avvisarlo quando il bidello entra, mentre lui è chino sul quaderno a scrivere; oppure spiegargli cosa succede, quando qualcuno dal fondo della classe lancia una battuta e tutti scoppiano a ridere). Un gioco di simulazione, che si può proporre per meglio far comprendere alla classe le difficoltà delle persone sorde, è quella di porsi tutti in cerchio per raccontare, a turno e senza voce, quello che si è fatto il pomeriggio precedente. Immediatamente vengono fuori i problemi:

 

- non tutti articoliamo le parole allo stesso modo (i sordi dicono che le labbra sono come i polpastrelli delle dita: non ce ne sono due uguali);

- non tutti abbiamo la stessa capacità di leggere sulle labbra;

- la lettura labiale è molto faticosa perché richiede un’attenzione visiva costante;

- se più persone parlano contemporaneamente è impossibile seguire la conversazione;

- se parlando usiamo la gestualità spontanea, la comunicazione diventa più chiara ed efficace;

- quando non comprendiamo quello che gli altri dicono, diventiamo nervosi, diffidenti e anche permalosi (sono le caratteristiche della personalità che negli stereotipi vengono imputate ai sordi).

 

Attenzione

 

Il secondo rimprovero è che il bambino sordo non sta abbastanza attento in classe, ma si deve sempre ricordare che la lettura labiale è faticosissima. Allora, il docente cercherà di rendere la sua lezione il più possibile visiva, accordandosi preventivamente con il collega di sostegno in modo da reperire foto, diapositive, grafici e schemi che possano facilitare la comprensione. (Ad esempio, ad una lezione di storia, dove si parla di suppellettili, graffiti, palafitte è chiaro che, avendo alcune immagini, tutto diventa più semplice).

L’insegnante, quando spiega, non solo cercherà di seguire le regole comunicative di cui si è accennato prima, ma scriverà alla lavagna una scaletta della sua lezione, in modo da poter indicare anche visivamente il passaggio da un punto all’altro dell’argomento. Il problema vero è che la scuola italiana, quasi sempre, si basa su due pilastri: la lezione frontale e l’interrogazione; ambedue utilizzano la modalità verbale e quindi vedono perdente il bambino sordo. Se è presente un allievo sordo in classe non si può ipotizzare cinque ore di lezione frontale, ma si deve imparare a fare scuola in modo diverso e si scoprirà che quello che funziona con i sordi, va benissimo per gli udenti.

Del resto, il mondo della ricerca, con numerosi studi italiani e stranieri, ha aperto nuove prospettive nell’educazione dei sordi mediante le tecnologie (computer e sottotitoli) e la Lingua dei segni, la modalità comunicativa utilizzata dalla comunità dei sordi.

 

Aggressività

 

Anche alcuni atteggiamenti aggressivi o di rifiuto del bambino derivano spesso dall’incapacità del docente di adeguare la propria didattica alla reale situazione di partenza dell’alunno stesso. Molte volte si chiede all’allievo sordo troppo oppure troppo poco. Nel primo caso, si possono innescare reazioni aggressive, perché il bambino non è mai in grado di fare il compito, che è troppo al di sopra della sua preparazione di base, oppure è formulato in un italiano difficile e quindi incomprensibile e lui, sentendosi frustrato, reagisce negativamente.

Nel secondo caso, si perde un’occasione, difficilmente recuperabile, di proporre nuove conoscenze in un intervento educativo, in cui il tempo sembra sempre pochissimo, e ad un bambino a cui le informazioni arrivano limitate a causa del deficit.

 

Mancato rispetto regole

 

Allo stesso modo, è sempre il docente che deve evitare situazioni di privilegio, per l’alunno sordo, nei compiti a casa. L’insegnante deve sempre accertarsi che l’allievo abbia scritto bene sul diario l’assegnazione dei compiti (magari demandando il controllo al compagno di banco), ma poi deve esigerli, così come fa con tutti gli altri allievi: le regole devono essere uguali per tutti Da quanto detto finora, emerge chiaramente il ruolo essenziale che hanno, nella programmazione didattica, la rilevazione della situazione di partenza e le strategie didattiche.

 

BAMBINO SORDO A SCUOLA

 

Le difficoltà dell’area cognitiva

 

Si sono esaminate le difficoltà che un bambino sordo può avere nel comportamento, in relazione alla sfera socio-affettiva, ora verranno analizzate alcune problematiche dell’area cognitiva, facendo sempre riferimento ad alunni con sordità grave o profonda, nati sordi o divenuti tali nei primi tre anni di vita.

L’insegnante che ha in classe uno di questi bambini, si rende immediatamente conto che quest’allievo non ha una competenza linguistica, nell’italiano parlato e scritto, adeguata alla sua età, proprio perché le persone sorde non acquisiscono spontaneamente la lingua vocale (mentre questo avviene con la Lingua dei segni), ma la apprendono mediante un intervento logopedico che può durare anche 10/12 anni.

Nella scuola materna è più semplice operare, nonostante l’inadeguatezza linguistica del bambino sordo perché nella comunicazione, anche dei bambini udenti, ha un ruolo essenziale la gestualità spontanea e le esigenze comunicative sono meno raffinate. Le problematiche invece diventano più ampie nella scuola elementare, soprattutto nel 2° ciclo, quando comincia lo studio delle materie orali e si richiede una produzione scritta più corretta sul piano formale e più ricca nel contenuto.

 

Prima di affrontare queste tematiche è bene, però, ribadire che la sordità è un deficit sensoriale che lascia integre le facoltà intellettive, per cui il successo scolastico di un alunno sordo è strettamente correlato alla capacità dei docenti curricolari e di sostegno di proporre gli argomenti con una didattica specializzata, che utilizzi al massimo il canale visivo (o ancora meglio visivo-gestuale, se l’insegnante conosce la Lingua dei segni ed il bambino è segnante). Una didattica specifica che può essere di tipo tradizionale, ma dovrebbe anche tenere conto delle indicazioni che vengono dal mondo della ricerca: nuove tecnologie (computer e sottotitoli) e Lingua dei segni.

 

In genere, i docenti rimproverano al bambino sordo:

 

- di non essere in grado di leggere da solo il libro di testo;

- di non saper rielaborare i contenuti studiati, esprimendoli in modo chiaro, corretto e consequenziale e quindi, in ultima analisi, di non essere capace di prepararsi bene ad un’interrogazione;

- di non saper produrre testi scritti adeguati nel contenuto e nella forma, in relazione alla classe frequentata.

 

La capacità di leggere e comprendere un testo richiede da parte del lettore una buona competenza linguistica a livello lessicale e morfosintattico, unita alla capacità di fare inferenze. Le persone sorde incontrano generalmente difficoltà in tutti e tre questi aspetti. La minore padronanza di alcuni elementi morfosintattici (pronomi, preposizioni, concordanze, … - frasi relative, frasi passive, uso del discorso indiretto, …) dovuta al deficit , è presente in tutti i sordi, in modo più o meno accentuato in relazione alla loro personalità, al tipo e grado di sordità, all’iter riabilitativo e scolastico, all’ambiente.

 

Poiché la prima operazione che il lettore fa, è proprio di tipo linguistico - perché, per comprendere il testo, egli deve possedere una competenza linguistica nei pronomi, nella costruzione semantica, nei nessi distanziati…-, è chiaro che le difficoltà morfosintattiche influiscono negativamente sulla comprensione.

 

Altri problemi derivano dal lessico, in quanto le persone sorde possiedono un vocabolario limitato in Italiano, che è invece una lingua particolarmente ricca di sinonimi, e una certa rigidità lessicale perché sfuggono loro alcune espressioni linguistiche come i modi di dire, le metafore, le allegorie. (Se, ad esempio, è relativamente semplice spiegare il significato di espressioni come ingoiare un rospo, avere le tasche piene perché la metafora sottintesa è visiva, è più complicato dare il significato e far acquisire espressioni come gatta morta, oppure andare in bianco; e comunque tutti questi modi di dire vanno spiegati chiaramente e con molteplici esemplificazioni perché manca, al bambino sordo, l’ausilio della ripetitività sonora).

 

Possono essere d’aiuto anche le capacità intuitive, per desumere, dal contesto frasale, il significato della parola non conosciuta, analogamente a quanto facciamo noi quando leggiamo un brano in una lingua straniera, che non padroneggiamo bene. Ma non sempre

questo è possibile.

Il terzo tipo di problematiche è di tipo enciclopedico ed è collegato alla capacità di fare inferenze, cioè di attingere a quell’enciclopedia del lettore in cui, ognuno di noi, raccoglie e classifica le informazioni e le conoscenze del mondo. Le inferenze sono anche di tipo lessicale e morfosintattico, ma soprattutto quelle enciclopediche. (Esempio. In una ricerca condotta con ragazzi sordi della scuola superiore, una delle domande, per verificare la comprensione di un brano di narrativa, chiedeva dove si svolgesse la storia. Nel testo la località non veniva mai esplicitata, l’unica indicazione veniva data dalla frase "Al tempo dello zar Pietro...". Per rispondere positivamente, il lettore doveva sapere che, solo in Russia, il re veniva chiamato zar. Poiché le persone sorde hanno meno informazioni, a causa del deficit, hanno più difficoltà nel fare inferenze).

 

Il lavoro dell’insegnante

 

Per prima cosa, l’insegnante deve cercare di rafforzare le strutture morfosintattiche ogni volta che se ne presenta l’occasione, ad esempio, durante una lettura o la correzione di uno scritto. Si tratta cioè di aprire una parentesi, esplicitando chiaramente la regola perché il bambino sordo ne ha bisogno. (Infatti, mentre un udente non direbbe mai io ando perché glielo impedisce comunque la sua memoria acustica, l’alunno sordo, per non sbagliare, deve aver appreso dal logopedista o dall’insegnante che il verbo andare fa eccezione). Il problema maggiore è quello di riuscire a dare le regole nell’ambito di contesti comunicativi reali e non in maniera avulsa, facendo fare all’allievo ripetuti esercizi di grammatica, di cui poco resterebbe.

La stessa cosa va fatta per il lessico, affrontando, anche qui ogni volta che se ne presenta l’occasione, i diversi significati che le parole o le espressioni linguistiche possono assumere. (ad esempio a sacco: sacco di patate, un sacco di cose, mettere nel sacco, il sacco di Roma… )

 

Il lavoro più difficile resta quello sulle inferenze, su cui la scuola in genere lavora poco.

L’abilità dell’insegnante è nel dare al bambino alcuni suggerimenti, durante i suoi tentativi di intuire il significato del vocabolo sconosciuto, ma non troppi, affinché un po’ alla volta egli possa abituarsi a fare da solo le inferenze. Il secondo punto riguarda le interrogazioni. E’ bene mettere subito in evidenza che le difficoltà dei sordi sono complesse, non solo per quanto si è detto rispetto alla lettura e comprensione del testo, ma si deve tenere conto che questo bambino, oltre a riorganizzare e ripetere in modo logico e consequenziale quanto ha studiato (come fanno gli udenti) deve anche esercitare un forte autocontrollo sugli aspetti morfosintattici, ricordandosi di mettere l’articolo davanti al nome, di non ripetere il soggetto, ma di usare il pronome, di fare attenzione alla concordanza tra i vari elementi della frase, di non dimenticare le preposizioni… Allora, l’insegnante provvederà come prove di verifica non solo le interrogazioni, ma anche i questionari scritti, meglio se a scelta multipla, in cui le domande siano attentamente formulate in un italiano semplice e chiaro.

In altri termini, terrà separati i due momenti: quello della valutazione della competenza linguistica , da quello della verifica dell’apprendimento delle conoscenze, facendo in modo che in quest’ultimo caso, l’italiano non rappresenti un ostacolo (se il bambino sbaglia risposta, si deve essere sicuri che l’ha sbagliata perché non sapeva rispondere e non perché non ha capito la domanda).

Il terzo punto, come stimolare e migliorare la produzione scritta, è il più complesso; anche gli udenti incontrano grandi difficoltà in questa abilità, perché la vita quotidiana offre sempre meno occasioni di scrivere.

E’ importante quindi spiegare al bambino sordo che, per lui, la scrittura può rappresentare un’alternativa alla lettura labiale quando questa risulta difficile, in modo da dargli una forte motivazione nell’affrontare un compito che è senz’altro arduo. L’insegnante seguirà gli stessi percorsi metodologici, che utilizza con gli udenti, ma avrà l’accortezza di appoggiare sempre il suo intervento didattico sulle immagini, che possono fare da supporto alla comprensione.

Esiste del materiale visivo, che in genere usano le logopediste, che può andare bene

anche per la scuola materna o il primo ciclo della scuola elementare.

Nel secondo ciclo possono essere d’aiuto le schede-guida alla composizione scritta, in modo che l’organizzazione del testo sia agevolata dalla consequenzialità delle domande e l’insieme delle risposte dia forma alla composizione. Il docente prenderà spunto dalle difficoltà del bambino, per arricchire il lessico e la morfosintassi, cercando però di valorizzare sempre i suoi interventi e di gratificarlo quando riesce a fare un compito.

L’insegnante, una volta compreso il perché di certe difficoltà, è in grado da solo di adeguare la propria didattica, utilizzando le competenze metodologiche, che già possiede e gli vengono dall’esperienza, alle necessità dell’alunno sordo, utilizzando al massimo il canale visivo, che è integro. Scoprirà con grande sorpresa che quasi sempre quello, che va bene per l’alunno sordo, va benissimo anche per gli allievi udenti che hanno difficoltà scolastiche.

 

LA PROGRAMMAZIONE DIDATTICA

 

Obiettivi primari

 

Far acquisire un’espressività mimico-facciale in relazione alle sensazioni nelle diverse situazioni.

Abituare ad esprimere sensazioni attraverso le diverse espressioni del volto.

Guidare a trasformare le immagini in parole e frasi brevi.

Sollecitare l’interazione face to face.

Mettersi in relazione con i coetanei.

Favorire un adeguato rapporto con gli adulti.

Abituare a contribuire in modo attivo ai lavori di gruppo.

 

Metodologia

 

Senza dubbio, i criteri metodologici più idonei ad accrescere la capacità espressiva saranno le drammatizzazioni, la proiezione di vignette, il canto corale, lo sport di gruppo e l’attività grafico-pittorica manuale. Tutte le iniziative dovranno essere organizzate come "gioco". Così l’alunno riuscirà ad esprimersi meglio acquisendo nozioni mentre gioca e non sarà condizionato da fattori emotivi di una lezione normale. Un gioco stimolante, per far acquisire l’espressività mimico-facciale, è quello di far mimare sensazioni di gioia, dolore, tensione ed i compagni devono indovinare. Con l’aiuto dell’attività mimico-gestuale si potrà passare alla raffigurazione di situazioni più complesse, in cui potrà essere coinvolto anche il linguaggio del corpo. Poi, per trasformare la mimica in parole la rappresentazione mimico-facciale e gestuale verrà eseguita da un compagno e l’alunno dovrà indovinare e dire il concetto a parole. Tutto ciò dovrà essere rinforzato da assensi, carezze e sorrisi che gli diano sicurezza.

Tenendo conto che la comunicazione spontanea ed emozionale rappresenta l’elemento trainante del progetto educativo, gli obiettivi didattico-pedagogici dovrebbero essere incentrati sulla:

 

- stimolazione ed ampliamento della capacità di comunicazione verbale.

- stimolazione delle attività immaginative a carattere creativo.

- abitudine ad un tipo di lettura con interpretazione del messaggio (chi, dove, come, quando).

 

BAMBINO SORDO A SCUOLA

 

L'assistente alla comunicazione in un contesto di bilinguismo

 

Anche in Italia, sia pure con decenni di ritardo rispetto a quanto è già avvenuto negli Usa e in altre nazioni europee, si sta diffondendo, per il bambino sordo, un modello di educazione bilingue. Il termine educazione bilingue sta ad indicare la conoscenza di due lingue: l'italiano e la lingua dei segni. (LIS)

In altre parole, cioè, si considera indispensabile che il bambino sordo impari l'italiano parlato e scritto mediante la terapia logopedica, che può durare anche 10/12 anni, perché viaggia su una modalità acustico-vocale e quindi utilizza un canale deficitario, ma al tempo stesso, sin da piccolissimo, venga esposto alla lingua dei segni, che viene acquisita spontaneamente e con facilità perché viaggia su una modalità visivo-gestuale e quindi utilizza un canale integro. Il problema si pone per le famiglie udenti, perché i sordi figli di sordi acquisiscono la LIS direttamente dai genitori, come prima lingua.

 

Questa scelta educativa, che si va sempre più diffondendo tra le famiglie udenti di livello culturale medio-alto, trova le sue radici nella convinzione che il bambino sordo deve essere messo in condizione di comunicare subito e in modo completo con la madre, la famiglia e il mondo esterno, per evitare che al deficit uditivo si possano aggiungere un ritardo dell'apprendimento e problemi di tipo psicologico.

Domande-chiave:

 

1. come fanno i genitori ad imparare la lingua dei segni?

2. come e quando il bambino deve essere esposto alla lingua dei segni?

3. come la scuola può intervenire in questo modello educativo?

 

Alla prima domanda è semplice rispondere perché sia L'Ente Nazionale Sordomuti sia altre associazioni di sordi organizzano corsi di lingua dei segni, a vari livelli, e quasi sempre un genitore può trovare in un raggio di chilometri ragionevole un luogo, dove imparare i segni.

Al secondo quesito si può dare risposta, facendo riferimento agli studi che esistono in generale sul bilinguismo e in particolare sul bilinguismo dei sordi. Affinché il bambino acquisisca la LIS in modo spontaneo, non è sufficiente che i genitori conoscano i segni, perché comunque per loro la LIS non è la prima lingua. E' necessario che il bambino sia esposto alla comunicazione segnica con adulti e bambini sordi e soprattutto in contesti diversi. Diventa quindi essenziale la figura di un educatore/assistente alla comunicazione, che

la legge sui diritti degli handicappati (L.104/92 art 13) già prevede. Oltre alla presenza di questa figura, che si preferisce chiamare educatore quando è sordo e assistente alla comunicazione quando è udente, è necessario però che il bambino frequenti la comunità dei sordi, dove troverà molteplici e diversi contesti comunicativi.

L'educatore/assistente alla comunicazione può lavorare anche in famiglia più frequentemente e a scuola. Affrontando il terzo quesito, la presenza di questa figura, pagata dagli Enti locali, aiuta il bambino a costruire la propria identità e ad accettare il proprio deficit, in modo da evitare che nell'adolescenza, come troppo spesso accade, il ragazzo entri in crisi di fronte a domande esistenziali, quali: perché sono sordo? Perché questo è successo proprio a me?

 

Come sarà la mia vita futura?

 

E' necessario costruire e rafforzare l'identità sin da quando il bambino è piccolissimo, se si vuole evitare l'esasperazione di certe problematiche. In genere, l'educatore lavora a scuola dalle 12 alle 15 ore settimanali ed il suo compito è quello di affiancare le maestre, a cui resta il ruolo di insegnare, facilitando la comunicazione, arricchendo la lingua dei segni e, al tempo stesso, rafforzando con il confronto tra le due lingue le strutture morfosintattiche dell'italiano, con un ampliamento del lessico del bambino. Al docente resta, quindi, il compito di programmare e svolgere l'attività didattica, mentre l'educatore collabora attivamente alle lezioni. Nella realtà succede, poi, che in alcuni casi le diverse figure sono contemporaneamente in classe, magari quando si fanno lavori di gruppo; in altri casi, l'educatore resta in classe, mentre il docente di sostegno prepara e adatta visivamente il materiale didattico per l'alunno sordo; in altri ancora avviene che le due figure siano presenti in classe in momenti diversi, coprendo così un monte-ore più ampio.

Le diverse scelte dipendono in gran parte dalla capacità delle persone di lavorare in équipe e di sfruttare al massimo le competenze professionale di ogni figura. Nonostante questa figura si stia diffondendo in tutta Italia a macchia d'olio, tuttavia manca ancora un profilo professionale, perché la legge 104/92 si limita a prevederne la presenza, senza dare indicazioni precise né sui requisiti né sull'inquadramento giuridico ed economico.

Da tempo l'Ente Nazionale Sordomuti ha sollecitato il Dipartimento degli Affari Sociali a definire il profilo professionale, seguendo anche le indicazioni suggerite dal Dipartimento Scuola dell'Ens. (Nel Dipartimento Scuola dell'Ens lavorano esperti sordi, che da quasi dieci anni operano come educatori con bambini sordi ed esperti udenti), che ha tenuto conto delle

esperienze in corso ormai da anni. Inoltre, l'Ens sta cercando di organizzare alcuni corsi di formazione professionale che diano a queste persone anche adeguate competenze psicopedagogiche e didattiche. Come spesso avviene nel nostro Paese, lo Stato è in ritardo rispetto alle situazioni reali e alle richieste dei cittadini.


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