Diritti, associazioni e politica
Quando
si parla di diritti connessi ad associazioni e politica non posso
evitare di intervenire. Marco Espa ha portato in campo
riflessioni importanti alle quali voglio aggiungere le mie.
E' legittimo rivendicare meriti tanto quanto sospettare di politici di
mestiere. Ritengo meno appropriato accostare il sospetto sui politici ad
uno eventuale sulle associazioni. Di tante cose possono essere accusate
le associazioni, di subalternità ai poteri forti, di conflitto di
interessi, di autoreferenzialità, ma non sospettate di appropriarsi di
meriti altrui al pari di un politico, non foss'altro che per una piccola
differenza: la ricerca del consenso. I dirigenti delle associazioni non
praticano collegi elettorali bensì assemblee e consigli direttivi. Vi
posso assicurare che la differenza è enorme nella libertà di pensiero e
di parola. Un deputato per fare dichiarazioni favorevoli oppure persino
supportare la strategia giudiziaria dell’avvocato Amoroso, deve fare i
conti con gli equilibri di partito/coalizione. Un dirigente associativo
risponde ad un mandato di tutela e di promozione dei diritti e basta.
Eventualmente gli si potrà imputare una strategia non condivisa o
errata.
Non è una difesa d'ufficio solo un fastidio per il troppo frequente
accostamento tra partiti e associazioni. Le differenze sono enormi: la
platea, i poteri, le risorse etc. Non voglio però fermarmi ad una rigida
linea di demarcazione tra associazioni e partiti.
Credo che le associazioni rappresentino uno dei modi di fare politica,
quello meno condizionato dal senso di appartenenza ad una parte che
gioca la partita del consenso elettorale (con ciò senza voler attribuire
alla competizione democratica un significato negativo). Nelle
associazioni c'è anzitutto voglia di partecipare e di non subire i
processi decisionali delle istituzioni. C'è consapevolezza di sè, del
proprio problema e una ferma volontà nell'affrontarlo e nel condividerlo
con altri. Le associazioni sono in primis luoghi "istituzionalizzati"
del mutuo aiuto e dell'advocacy. Certo, con le dovute eccezioni o
curvature affaristiche. E' quindi nell'opera di front line che si
esprime un'associazione e nella capacità di rappresentare agli
stakeholder (istituzioni, sindacati, associazioni professionali,
produttori di beni e servizi etc.) i bisogni percepiti nell'attività di
advocacy e mutuo aiuto. Non è molto diverso da ciò che fa una mailing
list con il suo leader, oppure un singolo cittadino che ha gli strumenti
e la capacità per farlo, come un avvocato.
Ecco un altro punto dell'originalità dell'associazionismo attuale: opera
anzitutto nell'ottica del rafforzamento delle capacità individuali
superando, ma non eliminando, l'identità monolitica di corpo sociale. E'
una questione di eguaglianza di opportunità, non di residualità sociale.
Persone con disabilità, non invalidi. Politiche di mainstreaming, non
scuole speciali e istituti mascherati da centri riabilitativi. Non hanno
bisogno né di uno Stato che si sostituisca attraverso un magistrato alle
loro legittime potestà, né tanto meno di associazioni che li tutelino di
fronte ad una commissione medica. Se così è, va affermato con forza che
gli individui si possono e si devono autodeterminare ed hanno quindi la
capacità di esprimere autonomamente la tutela di sé, della propria
condizione o di quella del proprio figlio.
Da ciò ne si deduce che ogni valida iniziativa merita rispetto da
qualunque parte provenga, e tutti parimenti ne traggono beneficio, le
persone, le famiglie, i gruppi informali e le associazioni. La logica è
quella della rete formalizzata solo nel caso delle associazioni. La rete
comporta reciprocità e non sterili affermazioni della propria
individualità rivendicando solo primogeniture già ampiamente
riconosciute: nel caso che un pezzo qualunque della rete assuma
un'iniziativa valida, le altre parti lo dovranno riconoscere senza
timori o invidie di sorta. Ciò è ancor più vero se il primo è un
individuo e la seconda un'associazione: per il primo è un successo
l'aver portato sulle proprie posizioni il movimento che ha basi
democratiche e conseguentemente tempi più lunghi di metabolizzazione,
per la seconda è sostanziale non cristallizzarsi ed evolversi insieme
alle persone delle quali si intende rappresentare i bisogni.
A
mio giudizio questa è una scuola di politica eccezionale. Il tema
pertanto va traslato su come contaminare la politica della "stanza dei
bottoni", quella che ha l'onere della decisione. Se diamo per scontata
l'impraticabilità della costituzione di una formazione politica autonoma
delle persone con disabilità e dei familiari, vi sono due possibilità:
lavorare su deputati e segreterie dei partiti, come ha fatto Marco Espa
con i deputati della Margherita sarda, oppure inserirsi direttamente nei
partiti. Sia nel primo, ma ancor più nel secondo caso, è ovvio è che ciò
comporta il rischio di farsi cooptare fino a entrare a far parte della
più bieca "macelleria politica".
Ad ogni modo, il primo caso non va confuso con la classica lobby di
stampo nordamericano. E' invece un rapporto dialettico nel quale il
primo passaggio è nel riconoscimento della identità associativa quale
espressione di bisogni senza fagocitazioni di alcun genere, ed il
secondo è nell'affrontare senza superficialità e senza preconcetti il
tema dei bisogni e dei diritti.
Più complesso è il caso della partecipazione diretta in una formazione
politica perché, a tutto quanto sin qui premesso, deve poter
corrispondere l'ambizione di una persona, disabile o familiare, a
esporsi più di quanto già non abbia fatto con una carica associativa, un
sito web / mailing list, oppure con un'azione giudiziaria di rilievo
pubblico. Si corrono alcuni pericoli: essere considerato come corpo
estraneo dalla formazione politica di appartenenza perchè le attività
corrispondono troppo spesso con quelle della realtà sociale di
riferimento, o, peggio, essere considerato un traditore dal mondo
associativo e sociale in genere. E' un filo sottile che ci vuol coraggio
a seguire.
Pietro Vittorio Barbieri
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