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Caritas Italiana Fondazione E. Zancan Cittadini invisibili
Rapporto 2002 su esclusione sociale
Perché parlare di 'donne'?
Ha senso parlare di disagio, povertà, esclusione sociale al femminile? La domanda potrebbe essere posta anche in un altro modo: il disagio, la povertà, l'esclusione sociale hanno una connotazione di genere? Vi sono cioè delle condizioni di disagio imputabili unicamente o prevalentemente al fatto di essere donne anziché uomini? Queste sono domande che, nel contesto di questo volume, mi sembra possano costituire un'ipotesi di lavoro che vale la pena indagare. Oggi è abbastanza acquisita resistenza di una specifica "condizione femminile", su cui ormai abbonda la letteratura. Ma ciò non significa necessariamente che tale condizione, per la sua specificità, possa essere elemento favorente stati di deprivazione, quindi caratterizzati da una valenza diversa - quantitativamente e/o qualitativamente - dal disagio che colpisce il genere maschile. Non può che trattarsi di un'ipotesi, per quanto oggi sempre più documentata, perché, ai grossi cambiamenti sociali che tutti in qualche modo percepiamo, allo sviluppo recente di studi sulla qualità della vita e sull'esclusione sociale in generale, non si accompagnano altrettanto ampie e specifiche ricerche empiriche, né elaborazioni delle scienze sociali focalizzate sull'analisi e comprensione complessiva delle peculiarità al femminile di questi processi. Vi sono tuttavia numerosi segnali che fanno pensare che l'essere donna, per lo meno a certe condizioni, esponga maggiormente, rispetto agli uomini, a rischi di disagio anche grave. Ma si tratta ancora più che altro di segnali, pur consistenti, perché la maggior parte degli studiosi (o meglio, delle studiose) sottolinea innanzitutto la scarsa visibilità, ad esempio della povertà, al femminile. 9 Le stesse statistiche ufficiali (dai censimenti, alla Indagine Multiscopo e le altre indagini dell'Istat, alle diverse indagini campionarie dell'Europanel, fino alle varie "fonti secondarie" di statistiche) forniscono dati alquanto generali se non generici. Vi è ancora grossa carenza di ricerche longitudinali (importanti, perché, a detta delle esperte, sembra che le situazioni di povertà delle donne siano molto legate anche ai cicli di vita), anche se emergono alcuni indicatori utili. Vanno anche aprendosi interessanti spazi di riflessione (e relative critiche alle modalità di indagine classiche che usano approcci "neutri", anziché "di genere", nello studio dei fenomeni sociali come la povertà o l'esclusione) che scaturiscono da elaborazioni più attente dei dati disponibili, da confronti con ricerche internazionali, dal crescere di ricerche empiriche ad hoc anche di tipo qualitativo.
9 “Quello che ci preme sottolineare è che l’aumento e la diversificazione dei rischi di povertà al femminile non comporta necessariamente una maggiore visibilità della stessa dato che, al contempo, agiscono importanti meccanismi di occultamento: la povertà che colpisce le donne rimane un fenomeno oscuro, difficilmente rilevabile e spesso ancora invisibile” Così afferma ELISABETTA RUSPINI in “ La libertà delle donne in Italia: la ricerca, i dati, le metodologie di analisi, giugno 2000, p. 6.
2. Alcuni indicatori di genere" che pongono interrogativi
È proprio la letteratura scientifica sulla condizione femminile a mettere in evidenza come la natura dei problemi di povertà, disagio, esclusione sociale delle donne sia diversa da quella degli uomini. È diversa perché diversi sono i fattori ipotizzati che concorrono direttamente a determinare gli stati di deprivazione. Sono stati studiati in particolare alcuni fattori che, non solo in Italia, contraddistinguono la condizione femminile e la espongono a particolari rischi: il tipo e il grado di dipendenza cui è sottoposta la donna. È un fattore importante del disagio sociale (sia come concausa che come conseguenza), perché tende a far perdere non solo e non tanto il possesso di beni, ma la possibilità di gestirli e controllarli; l'uso del tempo, sia come risorsa scarsamente disponibile per migliorare la qualità di vita, sia come succedersi di eventi - naturali e/o sociali - alcuni dei quali mettono maggiormente a rischio il benessere della donna; la disparità nella disponibilità di risorse socioeconomiche,specialmente nell'ambito del lavoro e della famiglia, che crea ancora forti asimmetrie tra donne e uomini.
Alcune considerazioni su ciascuno di questi fattori possono far luce sulla peculiarità, ma anche sulla complessità dello Studio del disagio sociale al femminile. Sembrano inoltre necessarie per collocare possibilmente senza troppe distorsioni il fenomeno nel contesto sociale e culturale che caratterizza il nostro paese, e che solo in parte lo accomuna a molti altri paesi.
3. La dipendenza economica e familiare
3.1 Dipendenze e discriminazioni nell'ambito occupazionale
Ritenere che oggi una caratteristica delle donne sia la dipendenza economica sembra in contraddizione con le conquiste recenti in tema di emancipazione. In effetti, in vari settori del sociale le donne hanno raggiunto grossi miglioramenti in termini di posizione e di protagonismo. E aumentato il tasso di occupazione femminile, sono aumentate le occupate in qualifiche elevate, le libere professioniste, le imprenditrici: tra il 1993 e il 1999 le dirigenti crescono di 5 punti percentuali, le impiegate di 2 punti e mezzo, le imprenditrici di 6 punti, soprattutto grazie all'ampliarsi del mercato del lavoro nel settore terziario. 10
Tab. 1 - Tassi di occupazione per classi di età e sesso. Anno 1999
Fonte: Istat
Tuttavia, una lettura più dettagliata dell'occupazione lavorativa femminile fa scorgere da un lato il permanere di una situazione di notevole svantaggio rispetto agli uomini, dall'altro una più forte dipendenza dai mutamenti e dalle fluttuazioni del mercato del lavoro. Difatti, benché l'occupazione femminile sia aumentata negli ultimi anni, nel 1999 il tasso di occupazione femminile ammontava a poco più della metà di quello maschile (42% rispetto al 75,3%), mentre in Europa saliva a più del 70% rispetto a quello maschile. Di contro, la disoccupazione femminile in Italia superava dell'80% quella maschile, mentre in Europa in media superava solo del 36% quella maschile. 11 Rispetto poi alle garanzie e alla stabilità del lavoro, è noto come in caso di crisi economica le donne siano le prime a perdere il posto di lavoro, specialmente se collocate ai livelli lavorativi più bassi; allo stesso tempo, la percentuale di donne collocate a livelli bassi è consistente. In effetti, se si esaminano i dati del censimento del 1991 elaborati da uno specialista dell'Irer, Giuseppe Barile, si riscontra che le donne sono in maggioranza in alcuni ambiti lavorativi specifici, tra cui l'insegnamento, i servizi personali e alle famiglie e i cosiddetti "impieghi non qualificati" nei servizi sanitari, turistici, di pulizia, ecc...12 C'è da aggiungere poi la nota difficoltà per le donne, soprattutto delle fasce centrali di età e a livelli medio bassi di collocazione, di rientrare nel mondo del lavoro, magari quando non hanno più il pressante impegno di accudire a figli piccoli. Ma ancora, bisogna considerare che l'occupazione della donna ha caratteristiche strutturali molto diverse dall' occupazione maschile. Mentre quest'ultima prevede sostanzialmente diverse possibilità di lavoro in corrispondenza dei diversi titoli di studio, l'occupazione femminile con titoli di studio bassi è fortemente penalizzata, tant'è che la grande maggioranza di casalinghe senza lavoro esterno è sempre più rappresentata da donne con titoli di studio basso. Il quadro si fa più drammatico se si considera quanto le donne siano impiegate nel sommerso, nel lavoro nero, anche a domicilio: ovviamente non è possibile conoscerne in dettaglio l'entità e le caratteristiche di tale fenomeno, ma sono alquanto eloquenti le notizie che di tanto in tanto trapelano da indagini di studiosi o inchieste di giornalisti, anche in zone affluenti d'Italia, come il Nordest. 13 Ma un altro dato va ad aumentare la contraddittorietà di questa situazione (e che ha il sapore della beffa): le discriminazioni osservate nel mondo del lavoro contrastano con l'investimento e la riuscita delle donne negli studi, che, negli ultimi anni, sono cresciuti più che proporzionalmente rispetto ai maschi. È infatti fortemente aumentata la propensione delle donne a proseguire gli studi superiori: nel 1997/9S, su 100 ragazze della stessa età, quelle iscritte all'Università sono risultate il 47% del totale, mentre tra i ragazzi tale percentuale è pari al 37% (nel 1950/51 le studentesse universitarie erano meno del 3% delle 19-23enni, rispetto all'S,5% dei coetanei). Inoltre, il rendimento femminile èdi fatto superiore a quello maschile. 14 In definitiva si può affermare che le donne, a parità di condizioni degli uomini (o addirittura a migliori condizioni se si guarda al titolo di studio), subiscono una maggiore dipendenza economica, essenzialmente a causa dell'organizzazione e delle trasformazioni nel mercato del lavoro, e delle peculiarità femminili (per esempio la maternità, oppure perché "si accontentano") che "autorizzano" il mercato a discriminare le donne.
Tab. 2 - Tassi di scolarità per sesso e livello scolastico. Anni 195051/1997-98.
Fonte: Istat * Le variazioni percentuali sono calcolate rispetto ai tassi di scolarità dell'anno scolastico indicato nella riga precedente.
10 ZIULIANI, A.. “Trasformazioni del vivere: il lavoratore delle donne”, intervento al convegno Lavorare e vivere con pari opportunità, Napoli 28 – 29 gennaio 2000. 11 Ivi, p. 2 12 VALENTINI, C., Le donne fanno paura, Il Saggiatore, Milano 1997, p. 151. 13 E’ interessante l’excursus che fa Chiara Valentini in op. cit., p. 147 e sgg. 14 ZULIANI, A. op. cit., p. 1
3.2 La dipendenza nella dimensione familiare
La situazione si fa ancor più complessa se ci si sposta dalla realtà del lavoro a quella della vita familiare, e al rapporto tra le due realtà che le stesse donne si trovano a gestire. Che la donna oggi, nonostante l'emancipazione, sia fortemente dipendente dalla famiglia, è da più parti affermato e dimostrato. Senza addentrarsi in analisi della famiglia oggi (cfr. capitolo di P. Milani in questo stesso volume), si può innanzitutto affermare che la dipendenza economica nel lavoro va ad accentuare (anziché attenuare!) la dipendenza della donna nell'ambito familiare, a causa della particolare strutturazione della famiglia italiana. Nello specifico, la crescente partecipazione delle donne al mercato del lavoro non ha cambiato in modo appropriato la distribuzione dei compiti familiari né l'approccio culturale ai ruoli di genere. Il lavoro familiare rimane ancora attribuito alla responsabilità femminile, indipendentemente dalla presenza di un impegno extra-domestico. 15 In altri termini, è vero che da un lato la famiglia "protegge" la donna nel caso di espulsione, o non accesso, o sotto-remunerazione nel mondo del lavoro; ma allo stesso tempo è questa una protezione che la donna paga con un'altra dipendenza, quella dal marito-capofamiglia. Ed il lavoro domestico e di cura dei membri della famiglia (compreso il partner), che continua a gravare in massima parte sulla donna, contribuisce a salvaguardare più l'autonomia, il lavoro, la professionalità del capo famiglia, che rimane il titolare del reddito familiare; ma non contribuisce ad aumentare il benessere femminile, inteso non tanto in termini monetari, ma come qualità di vita, possesso di beni, stato di salute, vita sociale, tempo libero, ecc. È in questo meccanismo che si innesta la spirale precari età lavorativa-dipendenza familiare-maggiore precari età lavorativa. Difatti, nei casi in cui la disoccupazione o la precari età lavorativa della donna la costringa ad una maggiore dipendenza economica e psicologica dal capo famiglia (quindi meno vita sociale, meno tempo libero, ecc.), sarà ancor più difficile cercare e trovare lavoro, ricadendo così in una più forte dipendenza familiare. Gli stessi sistemi di welfare, strutturati su un modello "tradizionale" di famiglia, tendono ad incoraggiare e quindi a legittimare questa dipendenza delle donne dalla famiglia, in quanto oltre ad essere basati sul reddito familiare (che, appunto, può essere distribuito in modo molto ineguale tra i membri), condizionano gli aiuti alla possibilità che le donne forniscano alla famiglia i servizi di care necessari. In questo senso i processi di dipendenza femminile si traducono anche in dipendenza dal welfare, in quanto la carenza di servizi per la donna da un lato (ad esempio la carenza di asili nido...), e i criteri di distribuzione degli aiuti dall'altro, tendono a scoraggiare di fatto l'autonomia economica, professionale, lavorativa della donna come prezzo per la salvaguardia della stabilità familiare. È evidente che questa situazione espone grandemente la donna a rischio di povertà nel momento in cui il capo famiglia, il percettore di reddito, viene a mancare: tanto maggiore è il livello di dipendenza, tanto maggiore sarà il grado di vulnerabilità. 16
15 ZULIANI, A. op. cit., p. 4. 16 RUSPINI, E., op., cit., p. 4.
4. L'uso del tempo
4.1 la "doppia presenza"
Il persistere, nonostante i mutamenti avvenuti nel senso dell'emancipazione, di quella che è stata chiamata la "doppia presenza", caratterizza la maggior parte della vita delle donne. Esse si trovano a dover gestire, oltre al lavoro extra domestico, anche il lavoro familiare che non viene affatto alleggerito: gli impegni ed i tempi intra ed extra familiari sono spesso di difficile conciliazione. Dati interessanti sul tema dei tempi della donna emergono dal rapporto dell'ONU sullo sviluppo umano per la Conferenza di Pechino del 1995 (di cui peraltro sono state diffuse in Italia notizie molto scarse), oltre che da ulteriori studi realizzati su dati Istat. 17 Secondo questi contributi, la lavoratrice madre occupata ha mediamente un carico di lavoro di 13 ore e mezza al giorno, di cui 7 ore e un quarto dedicate al lavoro familiare. Invece, l'uomo occupa per la casa ed i figli circa l ora di tempo al giorno, e questo tempo non varia a seconda della presenza o meno di figli. È poi significativo osservare che, nel caso in cui l'uomo non ci sia più, il tempo di lavoro familiare della donna scende a 5 ore al giorno: sembra davvero che mentre l'uomo trae vantaggio dalla presenza di una partner, la donna si "avvantaggia" dall'assenza di un partner. 18 C'è anche da notare che le donne italiane sono quelle che in assoluto, rispetto ai paesi industrializzati, lavorano di più: le ore giornaliere totali superano del 28% quelle degli uomini, mentre negli altri paesi occidentali le donne lavorano complessivamente il 13% di più degli uomini. Si tratta davvero di un fenomeno di ampia portata se si pensa al costante aumento del numero di coppie in cui tutti e due i coniugi lavorano: l'indagine Multiscopo "Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell'infanzia", svolta nel 1998 , mette in evidenza che dal 1993-94 al 1998, tra le coppie più giovani (con donne fino a 34 anni), quelle in cui tutti e due i partner lavorano raggiungono il 70,9% nel Nordest, il 67,5% nel Nordovest, il 50,5% nel Centro. È invece diminuita la quota di coppie con donna casalinga: da 31,9% a 27,1% in soli 4 anni.
Tab. 3 - Coppie per condizione dei partner e classe di età della donna. Anno 1998 (per 100 coppie con donna della stessa classe di età)
Fonte: Istat
Le ricerche dimostrano inoltre che il tempo meno "comprimibile" è proprio quello del lavoro familiare. Quando ad esempio nasce un figlio, la donna attinge ulteriori tempi al lavoro (a volte compromettendo possibilità di carriera), al tempo libero, al tempo fisiologico (mangiare e dormire). Al contrario, per l'uomo il tempo è usato in modo estremamente più rigido: quello che rimane dal lavoro raramente viene utilizzato a vantaggio della famiglia, più facilmente va a vantaggio del tempo libero, anche se a tal proposito sembra che nelle giovani generazioni maschili stia avvenendo un'inversione di tendenza. Va anche sottolineato che il tempo del lavoro familiare va assumendo caratteristiche sempre più ampie e complesse, sia per il permanere più a lungo dei figli in famiglia, sia perché il moltiplicarsi dei bisogni prodotto dalla modernizzazione, va ad intrecciare, soprattutto per la donna, il suo ruolo tradizionale di "responsabile" del ménage familiare con la necessità di maggiori prestazioni e rapporti. Il risultato è quello di un sovraccarico di stress psichico e organizzativo per la donna. Nel quotidiano sforzo di conciliare tempi esterni e tempi interni alla vita familiare la donna lavoratrice madre si trova pressoché sola, non accompagnata da un contemporaneo evolversi nei modelli culturali, nelle politiche del lavoro e della famiglia, nei sistemi di welfare. La situazione riportata appare più drammatica in Italia che altrove. Oggi si parla infatti di "tripla presenza", laddove va ampliandosi sempre più !'impegno della donna per la cura degli anziani. Si è calcolato che, mentre nei primi decenni del ventesimo secolo la donna italiana dedicava 19 anni della sua vita ad allevare i figli e 9 a curare genitori e suoceri, alla fine del ventesimo secolo il rapporto si è invertito: il lavoro di cura degli anziani assorbe 18 anni della vita, e quello per i figli si è ridotto a 17 anni.
17 Ci riferiamo al volumetto del 1994 Tempi diversi, a cura di Laura Sabbadini e Rossella Palomba, basato su un'indagine multiscopo dell'ISTAT. C. Valentini, in Le donne fanno paura, op. cit., nota 4, p. 66 precisa: "Il lavoro delle due studiose era basato su un'indagine multiscopo dell'ISTAT, la prima inchiesta italiana sull'argomento condotta su scala nazionale e basata su un campione di quasi ventimila famiglie. Il volume, edito dal Dipartimento per l'informazione e l'editoria della Presidenza del consiglio, più volte esaurito e ristampato, non ha avuto una normale diffusione commerciale."
18 VALENTINI, c., op. cit., p. 57
4.2 Le conseguenze della scarsità del fattore tempo Il problema del tempo attraversa la realtà femminile anche rispetto ai cosiddetti cicli di vita della famiglia. Proprio per quanto detto finora, può accadere che una serie di problemi legati agli eventi che segnano il ciclo vitale delle famiglie e delle donne (perdita del lavoro, nascita di un figlio, allargamento della famiglia, pensionamento, rottura della famiglia, malattie, ecc.), espongano più le donne che gli uomini a rischi di disagio; esse di fatti giocano un ruolo cruciale nel mobilitare risorse interne alla famiglia quando nascono problemi, nell'attingere a tempi e spazi ancora possibili arrivando a sottrarre tempi, spazi e consumi personali. Non a caso le ricerche rilevano che le donne risultano più esposte al rischio di deprivazione all'inizio e alla fine del ciclo di vita adulta, cioè quando sono giovani (probabilmente con figli minori a carico - conseguentemente penalizzate sotto l'aspetto professionale - o vittime di una rottura familiare) o anziane. 19 Il tempo è una risorsa preziosa: consente rapporti, consente di dedicarsi ad una professione, consente spazi di libertà per sé... È una componente importante del benessere. Al contrario, la scarsità di tempo oltre un certo limite, impone di "rubare" tempi al lavoro per curare i figli, di "rubare" tempo alla famiglia per non interrompere la carriera lavorativa o professionale, di "rubare" tempo al lavoro e al resto della famiglia se vi è un membro ammalato o in difficoltà... Lo stesso fenomeno della doppia e tripla presenza è essenzialmente una questione di tempo: le donne imparano a gestire con flessibilità ed inventiva la complessità della compresenza di numerosi ruoli, anche se tutto ciò le espone maggiormente a rischi di deprivazione psicologica e sociale. Generalmente il problema del tempo come fattore di rischio di povertà non viene utilizzato come indicatore nelle tradizionali ricerche sulla povertà in Italia, e questo tra l'altro è uno dei motivi della scarsa visibilità della povertà femminile. Soltanto ampliando il concetto tradizionale di povertà a fattori di deprivazione extra-monetari (relazioni, svago, auto realizzazione professionale, autonomia, disponibilità di tempo, ecc.), è possibile approdare a misure più realistiche del fenomeno, evidenziando quell'insieme di pre-condizioni che spiegano l'emergere di sacche - o di periodi più o meno prolungati - di povertà, di esclusione sociale, di disagio anche grave, cui risultano essere molto più esposte le donne che gli uomini.
19 RUSPINI, E., cit., p. 23.
5. Disparità delle opportunità
5.1 La percezione soggettiva della disparità C'è da chiedersi se le caratteristiche descritte finora relative alla condizione femminile trovino le stesse donne in qualche misura conniventi. La risposta non è facile, non ultimo perché anche qui scarseggiano le ricerche. Si è indagato ad esempio su come sentono, come vivono le donne alcuni aspetti della loro situazione. In particolare, se si considera il grado di soddisfazione per il lavoro extra-domestico delle donne fra i 20 e i 34 anni, sposate e con figli, risulta che il 45% è molto soddisfatto; mentre fra le casalinghe con lo stesso carico familiare la soddisfazione scende al 39%.20 Se ne ricava !'informazione che la conquista del lavoro è indubbiamente vissuta dalle donne come una cosa molto importante e soddisfacente. Ma, allo stesso tempo, per quanto riguarda invece la soddisfazione rispetto al tempo libero, il rapporto si inverte: è sensibilmente più alta la quantità di donne insoddisfatte tra le lavoratrici (il 53%) rispetto alle casalinghe (il 46%). In altri termini, le stesse donne avvertono il peso della "doppia presenza", ma sembrano impossibilitate a fare diversamente. Chiara Valentini, dopo aver esaminato una ricerca condotta da Franca Bimbi nel 1990 su un campione di genitori emiliani, arriva ad affermare che esiste una specie di "senso di ineluttabilità" con cui in Italia vengono vissuti i ruoli maschili e femminili, a tutti i livelli sociali. Vi è come una sorta di "tacita accettazione", da parte tanto femminile che maschile, di una situazione che tiene insieme, pur a costi molto alti, strutture familiari tradizionali e innovazioni della modernità. Le bambine continuano ad essere socializzate ai ruoli domestici molto più dei maschi, anche se i dati ci dicono che le bambine leggono spontaneamente più dei maschi e al contrario di loro preferiscono i libri ai fumetti. Ascoltano più musica e poi pensano di più. 21 Si potrebbe perfino aggiungere che anche la conquistata parità fra i coniugi sul piano culturale vada spesa più a far funzionare meglio la famiglia, o al massimo a gestire più oculatamente la "doppia presenza", che non per un'autorealizzazione sociale e professionale della donna: colpisce difatti che, secondo dati Istat, nel periodo 1993-1998, le coppie giovani hanno visto un incremento sia della quota di donne più istruite del partner (dal 23,6 al 26,5% per le donne da 25 a 34 anni), sia di quelle con pari istruzione (dal 53,3 al 54,3% per le donne della stessa età). Viene da pensare che, diversamente da quanto succedeva nei decenni scorsi, quando i movimenti e le associazioni delle donne rivendicavano un protagonismo che poteva crescere man mano che cresceva la loro stessa consapevolezza e la loro forza di convincimento, oggi tutto ciò non è più sufficiente. In altre parole, non possono essere le donne da sole a premere per la costruzione di migliori equilibri, in quanto il problema delle disuguaglianze di genere è un problema dell'intera collettività, che deve impegnarsi nella riduzione delle asimmetrie. 22
Tab. 4 - Coppie per titolo di studio dei partner e classe di età della donna. Anno 1998 (per 100 coppie con donna della stessa classe di età)
Fonte:Istat
20 ZULIANI, A., op. cit., p.5 21 VALENTINI, c., op. cit.., p.62 22 ZULIANI, A., op. cit., p. 5.
5.2 Alcuni dati sulla disparità delle risorse
Proprio per questo motivo, sono sempre più numerosi gli studi incentrati sull'effettiva disponibilità di risorse per gli uomini e per le donne. Un primo dato "strutturale" che colpisce, e che all'epoca era stato sottaciuto dalla stampa, emerge dal citato rapporto dell'ONU a Pechino nel 1995. È stato quantificato il contributo economico delle donne che deriva da quel "lavoro invisibile" che è il lavoro domestico, a fronte della remunerazione che le stesse donne ne ricevono. A livello mondiale il lavoro domestico produceva 11.000 miliardi di dollari, e costituiva i 2/3 dell'intero lavoro femminile. In Italia, nello stesso periodo di riferimento dell'indagine ONU, esso costituiva 1'80% dell'intero lavoro delle italiane, mentre la quota di lavoro retribuito era circa il 20% di tutto il loro lavoro. Normalmente le statistiche non rilevano in questi termini il lavoro domestico, proprio perché "invisibile", ma il dossier di Pechino mette il dito sulla piaga della ineguale distribuzione del lavoro remunerato tra i sessi. Altre ricerche mettono in evidenza la disparità di opportunità lavorative. Il fenomeno non si materializza più nel senso di un "divieto di accesso" alle donne in settori lavorativi tradizionalmente maschili (le donne hanno accesso anche alla polizia, alla magistratura, ecc.), quanto piuttosto in una forma di "segregazione occupazionale". Quasi per una legge non scritta, le donne vengono ancora occupate in grande prevalenza in settori tradizionalmente femminili (per esempio nell'industria tessile, nei lavori di servizio...), mentre negli altri settori tendono ad essere relegate nei lavori più ripetitivi e subordinati. La "scalata" ai vertici delle responsabilità nel mondo del lavoro rimane per le donne quasi preclusa, ed eventualmente conquistata a costi altissimi. Infatti, i dati dimostrano che nelle situazioni di crisi economica e di aumento della disoccupazione, le prime ad essere colpite sono proprio le donne. E importante sottolineare che non si tratta di una discriminazione che esclude formalmente la donna da certi luoghi, ma di qualcosa di più sottile e meno immediatamente visibile, descrivibile nei termini di una forma di subalternità della donna all'interno di ciascun luogo lavorativo, una specie di ghettizzazione delle donne. 23 Paradossalmente, tale fenomeno è andato aumentando proprio da quando è cresciuta l'occupazione femminile. Ne è una riprova innanzi tutto il fatto che generalmente, a parità di collocazione lavorativa, le donne hanno uno stipendio inferiore a quello degli uomini. Ad esempio nel settore tessile (prettamente femminile) lo stipendio medio è inferiore del 25% rispetto a quello dei metalmeccanici. Dai dati dell'Archivio lavoratori dipendenti dell'INPS del 1994, si riscontra che le impiegate percepiscono in media uno stipendio inferiore del 30% rispetto agli impiegati maschi, e che nei livelli più bassi del terziario privato si arriva al 60% del salario maschile. Si potrebbe dire che, rispetto agli Stati Uniti, dove le donne percepiscono in media il 40% in meno degli uomini, la situazione europea - e ancor più italiana - è molto migliore, anche se fin dagli anni ottanta, e ancor più lungo gli anni novanta, anche in Italia il gap è andato fortemente aumentando, al punto che è stato dimostrato che nella grande maggioranza dei casi le differenze retributive aumentano all'aumentare degli stipendio.24 Si tratta di un fenomeno esteso a livello mondiale, ampiamente illustrato nella conferenza di Pechino. Era allora emerso che in Italia il reddito da lavoro percepito dalle donne era il 22% del totale; gli uomini percepivano il restante 78% (a fronte di un'occupazione femminile che ad esempio nel 1998 rappresentava il 37,3% rispetto al totale degli occupati). Diverse sono le interpretazioni di questo fenomeno di discriminazione: alcune studiose, come Chiara Saraceno, sostengono che si tratta d/un retaggio storico che vedeva il lavoro femminile come qualcosa di aggiuntivo. Secondo altre interpretazioni, lo stipendio femminile viene considerato solo marginale rispetto al principale compito di sostentamento della famiglia che spetta al capofamiglia maschio. In ogni caso, la realtà è che proprio coloro che sono gravate dalla "doppia" (se non "tripla") presenza, vengono ulteriormente penalizzate da una minore remunerazione dal lavoro extra-domestico. Anche in campo pensionistico sussistono analoghe discriminazioni. Da un'indagine svolta nel 1996 a Roma e provincia sul Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti emerge una realtà pesante. Se infatti la pensione media maschile è di circa l milione e 380mila lire al mese, quella femminile è solo di 784mila lire, come a dire poco più della metà. 25 Nell' economia di questo lavoro si può solo accennare ad un'altra grave disparità che riguarda le donne nell'ambito della politica. Dopo l'impennata della quota di elette donne nelle votazioni del 1994 (arrivata al 15% delle elette alla Camera), la percentuale è andata velocemente decrescendo (teniamo presente che le elettrici sono circa il 52% del totale!), e permangono oggi forti discriminazioni a vari livelli nei confronti delle donne che "fanno politica". 26 In sintesi, nel nostro paese la parità non si può dire né mancata ma neanche raggiunta: è senz'altro raggiunta per quanto riguarda il superamento della discriminazione nella scuola, è abbastanza (a volte scarsamente) raggiunta nell'accesso al mercato del lavoro, è affermata ma molto scarsamente raggiunta nella carriera fino agli alti livelli, compresa la politica, non è raggiunta nella retribuzione e tanto meno nella distribuzione fra i sessi dei compiti di cura familiare. Come si vedrà più avanti, perfino la nuova norma che consente anche all'uomo di assentarsi dal lavoro per accudire i bambini piccoli, risulta essere tra le più inapplicate. Forse l'aspetto più drammatico è che questa situazione, che all' estero continua ad essere aspramente dibattuta, in Italia è perfino poco conosciuta. In un clima tutto italiano di contraddizioni, di grosse conquiste nel campo della proclamazione di diritti e insieme di inerzie istituzionali e culturali nel realizzarli, si colloca la legge n. 125/91 "Azioni positive per la realizzazione della parità uomo-donna sul lavoro" , ritenuta tra le più avanzate in Europa. È questa, tra l'altro, la legge che ha istituito i Comitati Pari Opportunità in varie province e regioni italiane, coordinati dal Comitato presso il Ministero del Lavoro. Ma la mancata dotazione degli strumenti necessari per farla funzionare (procedure, finanziamenti...), oltre che le molte resistenze (si pensi all'opposizione della Confindustria), l'hanno resa una delle tante leggi inattuate del nostro ordinamento. 27 E tuttavia, là dove funziona, si è tradotta in una presenza significativa (lo vedremo a proposito delle molestie nei luoghi di lavoro) che potrebbe preludere a migliori prospettive.
23 VALENTINI, c., in op. cit. p. 93, cita una frase significativa di S. Welby: "[...] il patriarcato odierno non esclude le donne da certi luoghi, ma piuttosto le rende subordinate in ciascuno di essi" (WELBY, S., "Theorizing Patriarchy", in Sociology, nn. 213/214, 1989).
24 Cfr. ALTIERI, G., " Redditi da lavoro delle donne: lontano dalla parità", in Polis, n. 6/92, citato in C. Valentini, op. cit., p. 108.
25 V ALENTINI, c., op. cit., p. 110.
26 Per un quadro d'insieme delle difficoltà e contraddizioni in questo ambito cfr. VALENTINI, c., op. cit., in particolare il cap. lO.
27 Anche qui il contributo di VALENTINI, C. (op. cit., p. 112) ci è utile. Osserva che, mentre ad esempio strutture tipo l'Antitrust o il Garante per l'editoria sono ricche di staff e di finanziamenti, “Organismo che dovrebbe vigilare sulle ingiustizie di genere è al lumicino, installato in due stanzette del ministero del Lavoro con non più di due o tre segretarie. Fare la commissaria, sia al centro che in periferia, vuoi dire imbarcarsi in una specie di lavoro volontario, senza nemmeno il rimborso delle spese di viaggio e senza il diritto all'aspettativa rispetto alla propria attività principale."
5.3 Disparità e propensione alla natalità
Un ultimo cenno va fatto, sempre a proposito di pari - o meno - disponibilità di opportunità socioeconomiche tra i sessi, alla questione odierna della denatalità. Benché siano varie e diverse le interpretazioni relative al calo delle nascite in Italia, non si può negare che tale fenomeno sia iniziato a metà degli anni settanta, proprio in coincidenza con l'entrata delle donne nel mondo del lavoro. Al di là delle posizioni ideologiche (alcune arrivano ad attribuire il fenomeno a "frivolezza" o a "smania di emancipazione" della donna), le statistiche mettono in luce aspetti del fenomeno che fanno riflettere. Ad esempio, dagli studi sui tempi delle donne (precedentemente citati) emerge che solo le donne senza figli riescono ad avere un tempo libero paragona bile a quello maschile; mentre anche in Spagna, che è uno dei paesi europei a più bassa natalità, il lavoro domestico delle donne, sia occupate che non, è altissimo, in Svezia, che ha il tasso di occupazione femminile più alto del mondo, e in cui i ruoli fra i due sessi sono molto più paritari e il lavoro domestico è equamente diviso, il tasso di natalità è in crescita da oltre dieci anni, ed ha già raggiunto i 2,02 bambini per donna (contro 1'1,3 in Italia nel 1987, che porterà nel 1993 al primo saldo negativo tra nascite e morti).
Tab. 5 - Bilancio demografico anno 2000 e popolazione residente per sesso al31 Dicembre 2000
Fonte:Istat
Sembra in ultima analisi che la dipendenza, la scarsità di tempo, la disparità di opportunità si intreccino inestricabilmente nella vita delle donne, secondo logiche sostanzialmente analoghe sia dentro che fuori della famiglia. Le funzioni di mediazione tra risorse disponibili cui quest'ultima assolve grazie soprattutto al contributo della donna, non evitano la riproduzione di disuguaglianze (anzi, a volte le accentuano) che vanno a gravare più sulla donna. Esiste nella famiglia italiana più che altrove, una diseguale distribuzione delle risorse, di cui, tra l'altro, è molto difficile misurare l'entità, in quanto le statistiche ufficiali trascurano ciò che avviene a livello individuale nelle unità familiari. In questo modo, la povertà e il disagio femminile diventano anche invisibili, salvo verificarne poi gli effetti nelle cifre delle statistiche sulla povertà. È come se successivamente alle conquiste emancipa tori e delle donne maturate a partire dagli anni Settanta (in campo di nuovo diritto di famiglia, istituzione dei consultori familiari, maggior protagonismo e autonomia di scelta in vari campi) non si abbia avuto la forza di innescare meccanismi di cambiamento culturale generale. Per concludere, credo risulti chiaro come la sperequazione di opportunità socio economiche crei le pre-condizioni per processi di depauperazione anche grave per le donne; processi che si risolvono sia in comportamenti di allarme sociale, quali la denatalità, sia in maggiori rischi per le donne di cadere in situazioni di disagio anche gravi in caso di rottura del nucleo familiare, di pensionamento, di disoccupazione, ecc.
6. Tanti tipi di donne in difficoltà
6.1 Premessa concettuale e di metodo
Finora si è cercato di rilevare i principali fattori che creano condizioni soggettive e oggettive tali da esporre le donne a vari tipi di rischi. Si può anche pensare che l'ampiezza e la multiformità dei problemi connessi alla condizione femminile possano produrre forme diversificate di sofferenza, anche diverse da quelli che sono i canoni noti e tradizionali che definiscono le situazioni di miseria o di povertà. Si è anche affermato che l'esposizione a certi rischi di disagio è maggiore per le donne rispetto agli uomini, anche se non siamo stati in grado di quantificare l'effettivo disagio, né dimostrato quanto e a quali condizioni il disagio sia maggiore o più grave per le donne. Capacità delle statistiche ufficiali non consente grandi approfondimenti su quella che viene chiamata "povertà al femminile", nel senso che essa non è riducibile alla verifica della quantità di donne definite povere, o alla percentuale di donne che si rivolgono ai servizi, ma necessita, per essere compresa, di indagini capaci di svelare la natura di genere del fenomeno. In altri termini, occorre contestualizzare le forme di disagio femminile in rapporto ai fattori di cui abbiamo parlato, che chiamano in causa la realtà delle famiglie, delle istituzioni, del mercato, della cultura in cui il disagio femminile si sviluppa e prende forma, perché è a questo livello che si colloca la radice di quei processi di disuguaglianza che possono anche produrre povertà. Sono comunque significativi gli sforzi finora condotti in proposito da alcune studiose che, sia rielaborando dati statistici disponibili in modo aggregato, sia conducendo limitate indagini mirate, consentono di cominciare a delineare percorsi di depauperamento e situazioni di difficoltà specifici delle donne. Il materiale perciò di cui disponiamo si presta a tracciare alcune caratteristiche quantitative e qualitative di donne in difficoltà, anche se incomplete o parziali, ma sicuramente indicative della fisionomia del disagio sociale oggi. Inoltre, per tener fede alla multiformità del disagio femminile, sembra più agevole - solo per motivi di chiarezza dell'analisi - distinguere gli esiti di "povertà" delle donne da altri esiti della disuguaglianza, quali la violenza e le molestie alle donne, la solitudine, l'esclusione sociale, ecc. Si possono così delineare una serie di "ideaI-tipi" di donne, definiti in base alla prevalenza di certi situazioni di difficoltà e di contesto, ben sapendo che vi sono spesso dei fattori che accomunano i diversi tipi considerati. Si prenderanno in considerazione le seguenti "figure" di donne: la donna povera, la madre sola, la donna violata, la donna prostituita. 6.2 La donna povera 6.2.1 Quale povertà, e come rilevarla? Il profilo che si vorrebbe delineare di "donna povera" è forse il più composito tra quelli scelti, nel senso che comprende tanti tipi di situazioni: può trattarsi della donna in famiglia oppure sola, sposata o separata/divorziata o vedova o nubile, giovane o anziana, con o senza figli. Si può ipotizzare che ciascuna di queste diverse condizioni sia accompagnata da forme diverse di povertà, che quindi si cercherà di mettere in rilievo. Certamente è prioritario definire che cosa intendiamo qui per "povertà". L'abbondante letteratura anche italiana in tema di povertà mette molto in evidenza le difficoltà di definizione di questo concetto, specialmente quando esso debba essere tradotto in variabili per poterne misurare l'entità, la natura, le forme, ecc. È oggi abbastanza acquisito che la povertà non si esaurisce nella carenza di risorse economico-monetarie necessarie a soddisfare i bisogni ritenuti fondamentali, in quanto altre risorse non monetarie contribuiscono in modo significativo al benessere delle persone e delle famiglie. Basti pensare a concetti come "qualità della vita", qualità dell'abitare, dell'alimentazione, ecc., al possesso di beni di consumo o strumentali, alla disponibilità di servizi, allo stato di salute, al livello di istruzione, all'accesso ad attività e relazioni sociali, alla disponibilità di tempo libero e per sé, ecc. Se il solo utilizzo di variabili monetarie può creare problemi di misurazione realistica del fenomeno, ancor più problematico può diventare l'uso di indicatori non monetari, quantitativi e qualitativi, che siano sufficientemente validi e attendibili. Sotto questo profilo, le ricerche classiche offrono scarse possibilità di rilevare la fisionomia della povertà femminile, al punto che in alcune situazioni tali studi tendono ad occultare la presenza del fenomeno. Ad esempio, di norma il reddito calcolato è quello familiare; sono invece rarissimi, se non assenti in Italia, gli studi sulla povertà che assumono come livello di analisi gli individui (anziché le famiglie), indagando anche come sono distribuiti l'acquisizione, l'accesso, l'utilizzo delle risorse all'interno della famiglia, mentre, ad esempio, è noto come siano spesso le donne a proteggere i membri della famiglia dai rischi di povertà, rinunciando a soddisfare molti dei propri bisogni (e così rischiando di diventare povere in famiglie che non sono povere). Inoltre, tra le dimensioni che normalmente non vengono prese in considerazione nelle ricerche sulla povertà, la variabile "tempo" è cruciale per le donne. Per quelle maggiormente gravate da carichi familiari e che stanno alla base della piramide sociale, non c'è nemmeno il tempo ad esempio per il lavoro; o comunque la completa mancanza di tempo per sé o per avere rapporti sociali, può a lungo andare provocare disagi anche gravi sul piano psicofisico. Un'ultima annotazione di carattere metodologico, che contribuisce a rendere poco conoscibile il fenomeno della povertà al femminile, riguarda la carenza di indagini che affrontino in modo dinamico la povertà. I processi di depauperamento difatti colpiscono particolarmente le donne in determinati momenti o eventi del ciclo familiare (per esempio più all'inizio e alla fine), o in coincidenza di crisi economiche o di rotture familiari. È importante infine sottolineare che la portata di questi limiti metodologici e di ricerca scientifica non ha effetti solo sul piano conoscitivo, ma impedisce l'attivazione di politiche di risposta sociale aderenti alla realtà ed efficaci per combattere la povertà.
6.2.2 I dati disponibili Come più volte sottolineato, le ricerche ufficiali non penetrano la fisionomia della povertà al femminile. Presentano tuttavia dei dati più di "scenario", in cui la povertà è disegnata avendo come unità di analisi la famiglia con alcune elaborazioni statistiche che fanno intravedere la variabile femminile, dati che comunque sono significativi per collocare il fenomeno. Ciò che appena si intravede dai dati ufficiali è che la maggior incidenza, in generale, di famiglie povere con determinate caratteristiche (numerosità, disoccupazione, monogenitorialità, ecc.), vede spesso protagoniste le donne. In effetti, esaminando i dati dell'Indagine Multiscopo "Famiglia, soggetti sociali e condizioni dell'infanzia" del 1998, si ricavano dei dati interessanti per quanto riguarda la povertà delle donne. Ad esempio, 1'84% di tutti i nuclei monogenitoriali è costituito dalla sola madre, anche se non sappiamo quanti tra questi nuclei siano poveri. Altrettanto si può dire per le persone che vivono sole, e soprattutto anziane, oggi in aumento (il 56% delle persone sole in Italia è costituita da anziani, e di questi il 66% è costituito da donne). Le donne anziane sole con più di 65 anni rappresentano il 37% delle donne della stessa classe di età, contro 1'11 % tra gli anziani maschi; e, poiché il 79% di queste donne possiede al massimo la licenza elementare, il 47% risulta ritirata dal lavoro e il 24% sono casalinghe, è evidente la maggior esposizione di queste donne al rischio di povertà. Naturalmente, la maggiore speranza di vita delle donne rispetto a quella degli uomini e il conseguente sovradimensionamento di anziane sole potrebbe spiegare la maggiore incidenza delle donne nella quota di persone sole povere. Inoltre, dato che le donne più difficilmente degli uomini ricostituiscono una famiglia dopo la separazione o il divorzio (sia perché più frequentemente i figli vengono affidati alle madri, e quindi hanno più difficoltà a vivere con un nuovo partner, sia perché l'età relativamente avanzata in cui si divorzia sfavorisce maggiormente le donne), le donne separate e divorziate sono a più alto rischio di povertà dei separati e divorziati.
6.2.3 "Dentro" il fenomeno: qualche spiegazione Gli studi a disposizione fanno emergere un profilo di povertà delle donne che, letto con un approccio dinamico, si caratterizza non tanto come condizione permanente, ma come una serie di percorsi ad intervalli temporali, diversi dalla povertà maschile, nel senso che sono percorsi più prolungati e più frequenti di quelli degli uomini (anche da qui la maggiore vulnerabilità delle donne). Ad esempio, da una ricerca condotta da Francesca Zayczyk con il Dipartimento di Sociologia dell'Università di Milano, risulta che nel Nord Italia le famiglie povere con a capo una donna sono il doppio di quelle con un capo famiglia uomo. Inoltre, il dato forse più significativo è che vivere sola, per una donna, comporta un rischio di povertà doppio rispetto a quello di un uomo.28 Nel Meridione d'Italia, invece, sarebbero più esposte al rischio di povertà le casalinghe, essendo più bassa l'occupazione lavorativa femminile, maggiore !'impegno delle donne nella cura familiare e maggiore la dipendenza dal marito. Emergono inoltre dalle ricerche una serie di caratterizzazioni legate a specifiche situazioni o eventi, rispetto ai quali le donne risultano molto più povere - o a rischio di povertà - degli uomini. Si tratta in particolare di madri sole (cfr. prossimo paragrafo), donne anziane sole non completamente autosufficienti, donne disoccupate, donne casalinghe in famiglie con un solo percettore di reddito, donne in famiglie con grandi problemi.
28 VALENTINI, C., op.. cit., p. 109-110
6.2.4 Le anziane sole Come già detto, le caratteristiche demografiche del nostro paese ed i mutamenti avvenuti negli ultimi anni hanno comportato un grosso aumento di anziane sole, specialmente vedove (per la minore speranza di vita degli uomini), molte delle quali possono vivere anche dignitosamente per l'estendersi della copertura previdenziale. Tra le donne anziane, sono quindi maggiormente a rischio di povertà quelle molto anziane, titolari di pensione sociale o di reversibilità o di pensioni minime (le donne sono titolari di circa 1'80% delle pensioni sociali e di reversibilità). Nel 1996 è stato rilevato, sul Fondo pensioni dei lavoratori dipendenti, che a Roma e provincia la pensione media delle donne era circa metà di quella degli uomini (784.000 lire, contro 1 milione e 380.000 lire); ugualmente per le pensioni sociali o di reversibilità: 576.000 lire per le donne, 811.000 lire per gli uomini. È chiaro che in questi casi si tratta di povertà ormai conclamata. 29 L'esiguità delle pensioni delle donne va anche letta come conseguenza di quanto illustrato nei primi paragrafi di questo scritto: le varie difficoltà di accesso e di carriera nel mondo del lavoro, le interruzioni dovute ai carichi familiari, le retribuzioni inferiori a quelle degli uomini, non possono che preludere, più facilmente che per gli uomini, a percorsi di impoverimento. Potrebbe essere "consolante" osservare come le donne anziane di oggi non hanno lavorato o non hanno potuto beneficiare appieno delle possibilità di acquisire titoli di studio superiori. D'altra parte però continuiamo a constatare che troppo spesso oggi il livello occupazionale femminile non corrisponde al livello di scolarità acquisito, e comunque non è dato sapere cosa succederà fra qualche decennio, quando l'invecchiamento sarà maggiore, sul fronte delle modificazioni familiari, del sistema di welfare e pensionistico. La situazione delle donne anziane povere diventa alquanto pesante per l'incidenza di molti altri fattori che minano la loro qualità di vita. Per le anziane sole sono in genere negativi tutti gli indicatori della qualità dell'abitazione: per il 6,5% delle anziane l'abitazione versa in cattive condizioni, ma per le anziane sole si sale al 9%; il 17,4% delle anziane sole non ha il telefono, proprio quando sarebbe più indispensabile che per altri. Con l'aumentare dell' età aumentano le malattie cronico-degenerative, ma soprattutto crescono le disabilità che, come è noto, riducendo le capacità funzionali, tendono sempre più a ridurre l'autonomia, la vita di relazione, aggravano il senso di solitudine. La disabilità, ad esempio, secondo l'Istat, colpisce in generale la popolazione anziana per il 9% nell'età 65-74 anni, ma cresce al 21 % nell'età 75-79 anni, e al 47% oltre gli 80 anni. Ed è stato anche calcolato che le condizioni di salute e di autosufficienza sono peggiori in presenza di livelli di istruzione più bassi. Ma all'interno della categoria "anziane sole" vi sono alcuni gruppi ancora più a rischio: normalmente sono le nubili e le separate/ divorziate, quelle insomma che non hanno mai avuto, o non hanno da molto tempo, un soggetto economicamente forte che le tuteli. Queste donne hanno più spesso delle altre redditi modesti, vivono più spesso in affitto, in case molto piccole e senza servizi interni, dando più spesso valutazioni negative delle proprie condizioni economiche. 30 Confrontando queste con le vedove, a parità di assenza di titolo di studio, risulta che non ha il telefono il 43,7% (contro il 24,4% delle vedove); non ha riscaldamento il 32,4% (contro il 13,7% delle vedove). Un altro "vantaggio" delle vedove risiede nella pensione di reversibilità che, anche se mediamente di importo minore rispetto alla pensione di anzianità o di vecchiaia, è comunque superiore di quella ottenuta dalle donne, a parità di collocazione sociale, mediante il proprio lavoro. Un ultimo cenno va fatto alle conseguenze più frequenti della situazione di solitudine al femminile. Laddove esiste la presenza e la disponibilità di familiari e parenti, i costi - non solo economici - dell'accudimento si ripercuotono nelle famiglie provocando ulteriori problemi. E in questi casi di solito è nuovamente chiamata in causa la donna, divisa tra figli, casa, marito, lavoro, e genitori o suoceri anziani, e sarà una donna sempre più anziana, quasi a perpetuare quella catena che è di solidarietà ma anche di accumulo e perpetuazione di stati di disagio. 31 Ma anche tra le donne lavoratrici sono presenti rischi di povertà, anche se su questo aspetto sono pochissime le informazioni disponibili. Alcuni studi dimostrano come siano più a rischio le donne del Sud, sia a causa della maggiore disoccupazione giovanile e adulta, sia per la maggior frequenza di famiglie numerose, sia anche per una minor protezione da parte del sistema di welfare. Difatti, nel 1990 al Sud le coppie con marito occupato e moglie casalinga rappresentavano il 44% di tutte le coppie, mentre al Centro-Nord erano pari al 32%. E le giovani coppie meridionali (15-24 anni) con marito e moglie occupati erano il 12%, mentre al Centro-Nord erano quasi la metà delle coppie (46%). 32 Ciò significa che il maggior rischio di disoccupazione dei maschi al Sud, spesso unici percettori di reddito familiare, espone automaticamente a rischio di povertà !'intero nucleo, quindi anche le mogli casalinghe, e ancor più in caso di rottura del matrimonio. Ciò è sicuramente aggravato da una più radicata cultura di dipendenza femminile dalla famiglia e dal "capofamiglia", tant'è che, viceversa, al Nord è molto più alta la percentuale di donne non sposate. D'altra parte, le probabilità di trovare lavoro per le donne del Sud, in particolare con basso livello di scolarizzazione, sono molto inferiori di quelle delle donne del Nord: al Sud infatti è più difficile l'accesso nel cosiddetto "terziario povero", perché rimane occupato dagli uomini, diversamente dal Nord, dove per i maschi questi posti di lavoro sono solo di transito in vista di migliori opportunità
29 VALENTINI, C. op. cit., 110.
30 FACCHINI, A., Pluralità e mutamento delle condizioni economiche degli anziani, in Le povertà nel Veneto del benessere, Atti Convegno del 19 febbraio 2000, Venezia, a cura della Fondazione Corazzin (non pubblicati), p. 18.
31 Il Rapporto annuale La situazione del paese 1999 dell'Istat disegna la 'nonna tipo'; "è nata nel 1934, cioè ha più di 65 anni, ha ancora un genitore molto anziano, mentre la figlia o la nuora, al lavoro in un caso su due, hanno bisogno di lei per la cura e l'affidamento dei figli." (GRUPPO MELE, Annuario..., op. cit., p. 662).
32 ISTAT, Indagine Multiscopo sulle famiglie. Anni 1987-91. Aspetti sulla condizione femminile: istruzione, lavoro e famiglia, Roma 1994.
6.2.5 Quando si intrecciano povertà-salute-emarginazione Anche se le donne vivono di più, le specifiche patologie cui sono più soggette costituiscono spesso sia causa che conseguenza di stati di deprivazione anche economica. Varie ricerche mettono in evidenza come il combinarsi di situazioni familiari difficili, di precarietà economica, o di stati di solitudine o di grande stress, coincidono spesso, nelle donne, con patologie depressive. La depressione, molto più frequente nelle donne che negli uomini, non trova esauriente spiegazione nel diverso metabolismo femminile, mentre si accompagna molto spesso a situazioni contrassegnate da un ruolo della donna di tipo "tradizionale" (moglie casalinga e madre, con marito che non aiuta in casa) e con basso livello di istruzione. La depressione è spesso l'esito di vite molto stressanti e di situazioni prolungate pesanti (figli in difficoltà, solitudine nella cura dei figli, presenza anche di anziani, disabili, malati in famiglia, traumi subiti nell'infanzia). C'è anche da aggiungere che alcune malattie degenerative, quali l'artrosi, l'artrite, l'osteoporosi, colpiscono maggiormente le donne, riducendo anche pesantemente la mobilità, la funzionalità, la possibilità di relazioni sociali, aggravando gli stati di povertà. Per entrambi i sessi, quando la povertà si intreccia con eventi personali e/o sociali molto problematici (disoccupazione, perdita dell'abitazione, tossicodipendenza-alcolismo, solitudine, mancanza di reti familiari di protezione, necessità di accudire figli disabili senza supporti del welfare, ecc.), si innesca con facilità quello che è stato chiamato "il circolo vizioso della povertà" Tuttavia, mentre per gli uomini il percorso è del tipo: perdita dell'occupazione ~ possibile caduta in stati di dipendenza (droga o alcool) ~ perdita dell'abitazione, per la donna prevalgono come fattori scatenanti situazioni relazionali e familiari (vedovanza, separazione, divorzio), di malattie degenerative, di malattie psichiche. Da qui è facile l'entrata nel circuito dell'emarginazione, che invece, per gli uomini, pare più legata, oltre che alla disoccupazione, al ricorso alla droga, ad esperienze carcerarie (Cfr. le osservazioni di Walter Nanni sul fenomeno dell'accattonaggio, in questo stesso volume). Sembra a questo proposito importante sottolineare che, se l'emarginazione è oggi correlata con il dissolversi delle reti di vicinato, di solidarietà familiari, per le donne questo è un problema minore che per gli uomini. Le donne difatti riescono maggiormente a tenere in piedi qualche legame familiare, a mantenere l'abitazione, ad evitare la completa solitudine, e comunque la percentuale di emarginazione grave delle donne è molto inferiore a quella degli uomini. 33 In definitiva si conferma quanto esposto nei primi paragrafi, riguardo alla stretta correlazione tra il disagio femminile e gli eventi di tipo familiare, a sottolineare i vari aspetti di maggior dipendenza della donna dalla famiglia, oltre che dalle dinamiche del mercato del lavoro e, come vedremo, dalla scarsa protezione del welfare. Se scarseggiano gli studi sulla povertà al femminile, ancor più scarseggiano quelli sulla povertà delle donne immigrate. Si possono però formulare alcune ipotesi, dato che, all'interno del grosso fenomeno dell'immigrazione la presenza femminile va aumentando parallelamente a quella maschile (pur rimanendo il loro numero inferiore a quello degli uomini: nel 2000, secondo dati Istat, le donne rappresentavano il 45,8% degli immigrati). Vi è in Italia una certa quota di immigrate sole (in prevalenza provenienti dall'America Latina, da cui nel 1995 provenivano solo 41 uomini su 100 donne, ma anche da Polonia, Romania, Russia, Thailandia, Filippine), 34 per le quali al disagio dell'emigrazione, e magari del temporaneo allontanamento dai figli e dalla famiglia, si aggiungono notevoli difficoltà economiche. In genere il guadagno di queste donne deve garantire sia un minimo di vivibilità in Italia che sostenere la famiglia nel paese d’origine. Allo stesso tempo, va anche aumentando la quota di immigrate che arrivano insieme ai mariti o successivamente per ricongiungimento familiare. Dalle notizie che trapelano soprattutto dalle domande che gli immigrati e le loro famiglie rivolgono ai servizi, vi è la percezione che, se da un lato per molte donne straniere !'immigrazione rappresenta un trampolino di lancio per percorsi di emancipazione e socializzazione, per altre si scatenano situazioni di emarginazione e di crisi del legame coniugale, di cui spesso sono investiti anche i figli minori. Alcuni (pochi) studi sono stati condotti in Europa, in riferimento soprattutto all'immigrazione dai paesi a cultura islamica: la complessità del fenomeno migratorio, e soprattutto dei vari meccanismi di conflittualità-assimilazione-esclusione-integrazione che esso porta con sé, potrebbe indurre a pensare che l'accentuato status di dipendenza delle donne di cultura islamica sia tout court fori ero di accentuati svantaggi per la donna immigrata. In realtà ciò sembra vero solo in parte. Se negli anni Ottanta era evidente la scarsa presenza nel mercato del lavoro delle donne musulmane, rispetto ad immigrate di altre culture, 35 sembra che attualmente il fenomeno sia in parziale regressione, soprattutto in termini di "qualità". Alcuni autori infatti sostengono che le donne musulmane, stimolate progressivamente dal contatto con la "modernità", aumentano il loro grado di scolarizzazione e la conseguente entrata nel mondo del lavoro (e in alcuni paesi anche nella vita pubblica e politica, sia pure in quantità minoritaria); giungendo a costituire un possibile fattore di mediazioneconciliazione tra fedeltà alle tradizioni della cultura d'origine e adozione di elementi di modernizzazione e quindi di cambiamento. 36 Indubbiamente, questa valutazione apre prospettive di tipo evolutivo del fenomeno migratorio, nel senso che in alcuni casi il processo di emancipazione delle donne può diventare il motore di processi di integrazione interculturale (e quindi di nuova cittadinanza); non possiamo tuttavia sottovalutare l'eventuale "prezzo" che, in questi contraddittori percorsi, sono soprattutto le donne a dover pagare, sia sul piano della dipendenza economica, sia su quello, ad esso connesso, di forme di schiavizzazione familiare, di isolamento sociale e quindi occultamento degli eventuali bisogni reali di aiuti e sostegni da parte del paese ospitante. Il riferimento d'obbligo è per quelle donne sole che lavorano come domestiche o assistenti domiciliari (le cosiddette "badanti), e che ricongiungono i figli o il resto della famiglia. Al dato sulla povertà economica di queste donne andrebbero aggiunti anche disagi di tipo psichico, come isolamento, solitudine, ecc., rilevati in alcune esperienze locali di ricerca. 37
33 Cfr. i dati della prima indagine nazionale sulle persone senza dimora, realizzata nel 2000 dalla Fondazione Zancan su incarico della Commissione d'indagine sull'Esclusione sociale, secondo cui gli uomini risultano essere 1'81 % e le donne il 18% del totale considerato.
34 Cfr. BARBAGLI, M., Immigrazione e criminalità in Italia, li Mulino, Bologna 1998, p. 47.
35 In Francia dal 1987 al 1989 il tasso di disoccupazione delle donne musulmane è molto superiore di quello di altre etnie: ad esempio mentre la disoccupazione delle donne portoghesi diminuiva di 2,6 punti, quello delle donne algerine, marocchine e tunisine aumentava rispettivamente del 18,2%, 33%, 25,9%. (SAINT-BLANCAT, C., L'Islam della diaspora, Ed. Lavoro, Roma 1997, p. 97-98).
36 Fanno riflettere le analisi riportate da Chantal Saint-Blancat in op. cit., che mettono in luce la forza propulsiva al cambiamento sociale della donna islamica: essa infatti, allenata da secoli a risolvere problemi di vita quotidiana perché ben più pressata dell'uomo da vincoli e limitazioni, più responsabilizzata a mantenere vive ed a trasmettere ai figli le tradizioni, ma anche a trovame i punti di congiunzione con le nuove esigenze di un mondo che cambia (le analogie, pur nella diversità, con il ruolo della donna occidentale sono evidenti), sembra preziosa portatrice di possibilità di mantenimento dell'identità socioculturale pur aprendosi al cambiamento, e quindi a nuovi percorsi di integrazione.
37 Cfr. DI GruSTINO, L.; NANNI, W., Badanti e aiutanti domiciliari: la nuova forza lavoro per l'assistenza alla persona, in OSSERVATORIO SULLE POVERTÀ, CARITAS DI MODENA E CARPI, Rapporto 2001, Centro Culturale UF. L. Ferrari", Modena 2002.
6.3 La madre sola
6.3.1 Alcuni dati di sfondo Già più volte si è accennato al fatto che, quando certi eventi riguardano le donne sole, specialmente se con figli, i rischi di povertà sono molto superiori rispetto a quelli delle altre donne. In generale, la condizione di dipendenza familiare e lavorativa, la minor capacità di guadagno, la troppo scarsa protezione del welfare rapportata agli eventi naturali e agli svantaggi sociali della vita della donna, sono già fattori di rischio che espongono la donna al depauperamento in caso di rottura della famiglia, specialmente se casalinga, o disoccupata o sottoccupata. Gli studi condotti sulla separazione in Italia dimostrano come sia proprio la rottura del matrimonio a mettere a nudo quella disparità soprattutto economica fra coniugi che rimane occulta nei conteggi dei redditi familiari. È un fenomeno che riguarda tutti i ceti sociali, ma che ovviamente pesa più gravemente sulle donne (e sui figli) dei ceti più modesti e con cultura di più basso livello, proprio perché i mariti, a loro volta, hanno risorse inadeguate a far fronte ai costi di due famiglie. 38 La condizione di madre sola, priva del partner, è oggi un fenomeno che, per ampiezza e qualità, tende a diventare un vero problema sociale. Secondo l'Indagine Multiscopo Istat condotta nel 1998, all'interno del milione e 800 mila nuclei monogenitoriali presenti nel nostro paese (pari a circa 1'11 % di tutti i nuclei familiari) erano compresi un 84% di nuclei costituiti da donna sola con figli. E mentre va diminuendo la quota di vedove, va velocemente aumentando quella di separate e divorziate. In Italia, al primo gennaio 2001, sono risultate 393.663 le donne divorziate, pari all'1,3% di tutte le donne italiane. Tra i maschi !'incidenza dei divorziati è inferiore, essendo pari allo 0,9% del totale (262.771). Nel 1999 si sono registrati 4,5 separazioni e 2,4 divorzi ogni 1.000 coppie coniugate. La concentrazione è maggiore al Nord che al mezzogiorno; la Valle d'Aosta ha il primato di 8,4 separazioni e 6,1 divorzi. Viene scelta prevalentemente la separazione consensuale (85,4% dei casi) e il divorzio su domanda congiunta (73,3% dei casi), e questo più al Nord che al Sud. L'iniziativa della separazione è in prevalenza della donna, più del doppio del marito, invece il divorzio è richiesto più dal marito (circa il 60% dei casi).
Tab. 6 - Popolazione residente al primo gennaio 2001 per sesso e stato civile
Fonte: Istat
Il fenomeno dell'aumento di madri sole è stato spiegato in base alla concomitanza di vari fattori:
la forte tendenza ad affidare i figli alla madre in caso di separazione o divorzio. Nel 1998 il 91 % dei figli minori è stato affidato alla madre, il 4,7% al padre. Per la maggioranza si trattava di ragazzi sopra gli 11 anni (35%) e di bambini al di sotto dei 5 anni (31%); la più elevata mortalità maschile; la maggiore difficoltà delle donne di approdare, dopo il divorzio, ad un nuovo matrimonio, proprio a causa della presenza di figli, oltre che dell'età generalmente avanzata in cui si divorzia, che svantaggi a maggiormente le donne; la propensione dei figli nati fuori dal matrimonio a rimanere con la madre.
Una grossa componente delle madri sole è costituita da donne giovanissime. In Italia, la grande maggioranza della fili azione naturale (nata fuori del matrimonio) riguarda infatti madri al di sotto dei 20 anni. Basti pensare che tutte le nascite di donne sotto i 15 anni sono naturali, che i nati da madri dai 15 ai 17 anni, nell'81 % dei casi, sono figli naturali e che i nati da donne di età compresa tra 18 e 19 anni sono naturali nel 30% dei casi. Data l'età, si tratta nella maggior parte dei casi (66,2%) di donne con titolo di studio di scuola media inferiore, e quindi sempre di indicatori che testimoniano un certo grado di disagio. 39 Se la situazione delle vedove con figli, pur in diminuzione, è meno a rischio di povertà di quella delle separate/divorziate o nubili, l'età in genere più avanzata ed il possesso di pensioni di reversibilità non sufficienti possono preludere o ad una dipendenza dai figli grandi, o a situazioni di depauperamento.
39 RUSPINI, E., "Teenage Ione mothers in Italia: visibilità statistica, visibilità sociale", Giornate di studio sulla popolazione, Università di Milano Bicocca, 20-22 febbraio 2001.
40 Si tratta di un'interpretazione "economicistica" di un passo del Vangelo di Matteo, secondo cui "Gesù dice che quelli che hanno fede aumentano la loro grazia e quelli che non ce l'hanno sprofondano sempre più nella dannazione, "perché a chiunque ha, sarà dato in abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha" (VALENTINI, C, op.cit., p. 165).
6.3.2 La particolare condizione delle donne separate e divorziate con figli Certamente più problematica è la condizione di separate/divorziate o nubili con figli. Anche in Europa è questo un fenomeno in crescita (mentre la vedovanza diminuisce). L'Italia tuttavia sembra ancora presentare tassi molto inferiori rispetto alla media degli altri paesi, pur essendo raddoppiato il numero di separazioni/divorzi rispetto a vent'anni fa. È tuttavia difficile una comparazione precisa con l'Europa, soprattutto a causa della diversa tipologia giuridica che presiede alla rottura del vincolo matrimoniale (in Italia, a differenza degli altri paesi dell'Unione Europea, il percorso è "a due tappe", separazione, e conseguentemente divorzio). In ogni modo anche in Italia si va facendo strada quella trasformazione per cui accanto al modello tradizionale di famiglia (che pure ha una sostanziale tenuta), vanno crescendo nuovi modelli (nuclei monogenitoriali e nuclei monopersonali, famiglie ricostituite), portatori di bisogni diversificati, che richiederebbero dei cambiamenti anche nel mondo del lavoro e dei servizi. La particolare debolezza della madre sola si manifesta in concomitanza della rottura familiare, quando alla precedente dipendenza economica dal partner fa spesso seguito, soprattutto nel lungo periodo, l'inadempienza del coniuge nella contribuzione economica; e quando il carico dei figli, soprattutto se minori, rende problematica l'occupazione lavorativa della madre. È in questi casi che si fanno più drammatici gli effetti della situazione del mercato del lavoro femminile già esposta all'inizio. Il quadro, alquanto complesso, può essere così delineato: di fronte al mercato del lavoro la madre sola che non può contare su consistenti aiuti familiari per la cura dei figli, anche se in possesso di titolo di studio medio-alto, subisce quello che i sociologi chiamano "l'effetto Matteo",40 cioè accumulano svantaggi su svantaggi con molta difficoltà ad uscirne. Incidono in questo senso diversi elementi: la crisi economica, che espelle dal mercato più facilmente le donne che gli uomini e si ripercuote pesantemente nei tagli alla spesa pubblica (e le donne lavorano in larga misura nei servizi, nel settore pubblico e terziario in generale); la rigidità del mercato del lavoro che raramente utilizza il part-time o orari ridotti, da cui la necessità per la donna di ricorrere ad impieghi saltuari, sottopagati (i cosiddetti cattivi lavori), o al lavoro nero domiciliare per rendere compatibili i tempi lavorativi con la cura dei figli. Sono inoltre praticamente inesistenti le possibilità di rientro al lavoro in età matura quando i figli sono grandi. Sembra che l'auspicata "flessibilità" del mondo del lavoro, oggi alla ribalta nella realtà italiana, si vada realizzando con scarsissima attenzione ai diritti e alle esigenze dei lavoratori; e ancor meno sembra perseguita la finalità di combinare esigenze di flessibilità e di competizione nel mercato con le specifiche esigenze delle famiglie e quindi delle donne.Questa condizione "strutturale" della madre sola, maggiormente diffusa al Sud, e cui spesso si aggiunge anche la perdita della casa (per non riuscire a pagare l'affitto, o perché la madre sola spesso preferisce tagliare i legami con altri familiari), chiama in causa ancor più il sistema dei servizi sociosanitari che, come vedremo, sembra attestato su criteri di risposta che si rifanno a modelli tradizionali di famiglia. 6.3.3 La madre sola immigrata Solo un cenno alla madre sola immigrata. Non esistono studi specifici, ma sembrano rare le situazioni di donne immigrate sole con i figli. Più spesso si verifica !'immigrazione temporanea di donne (soprattutto dall'Est europeo), anche senza marito, che lasciano in custodia i figli ai parenti nel paese d'origine, e ai quali inviano i proventi del proprio lavoro. Sembrano occupare quell'ambito di lavoro non regolamentato, di cui va crescendo la domanda nel nostro paese (le cosiddette badanti, che si prendono cura di anziani o ammalati a domicilio). In questi casi, il problema principale di tali donne riguarda la necessità di una maggiore tutela, che spesso già vivono situazioni difficili di rapporti familiari e con i figli lontani. Potrebbe infine configurarsi come "solitudine" (che comporta isolamento, emarginazione, privazione di reti sociali di supporto...) anche quella, sopra accennata, di donne immigrate con la famiglia o in seguito a ricongiungimento, che per vari motivi non riescono ad "uscire" da forme di schiavitù maschile, pur avendo la responsabilità della socializzazione dei figli in una cultura nuova e sconosciuta.
6.4 La donna violata
6.4.1 Un ampio spettro di situazioni Povertà, disagio ed esclusione sociale sono concetti che, nel loro insieme, disegnano stati di sofferenza complessi, che interessano per dimensioni e intensità la società nel suo insieme. Inserire la "violenza" in questo contesto può sembrare improprio, perché di per sé essa può riguardare situazioni e persone non necessariamente in condizioni di disagio sociale. Ma quando la violenza è rivolta a donne perché "donne", la prospettiva cambia: diventa un"ulteriore prospettiva da cui guardare le specificità di genere, che nella nostra società e nella nostra cultura sono spesso inestricabilmente connesse con stati di sofferenza e di esclusione. Anche la violenza sulle donne, come si vedrà, è un fenomeno che sta sia "a monte" che "a valle" della condizione femminile, per come essa è vista e vissuta nel nostro e in molti altri paesi. Ma come considerare questa violenza, di cui tra l'altro si parla solo da poco tempo, e quindi, successivamente, come misurarla? E come mai prima degli anni Sessanta o Settanta, in Italia essa non era affatto all'attenzione della società civile e politica, se non per rari e gravissimi episodi? Il crescere di studi sulla condizione femminile, insieme alle lotte e alle conquiste relative all'emancipazione sociale della donna, hanno portato alla luce la problematica della violenza alle donne, inquadrandola in quel tessuto culturale e concettuale in cui domina il paradigma maschile, e in cui tutto ciò che riguarda la donna viene visto solo "per differenza". Se si condivide il fatto che l'asimmetria tra i sessi è un tratto solamente culturale, la violenza dell'uomo sulla donna può esserne una logica conseguenza. Ciò spiegherebbe alla radice come mai prima il fenomeno esisteva ma non se ne parlava, e come mai la violenza è stata spesso vista e vissuta, anche dalle donne stesse, come inevitabile, da sopportare, da tacere. All'origine di quella dipendenza della donna di cui si parlava all'inizio, vi sarebbe secondo alcuni studiosi, il predominio fisico dell'uomo (più forte, più prestante), che nei secoli è andato legittimando e perpetuando un potere "sulla" donna, fin da quando essa veniva considerata non totalmente persona, come i bambini e gli schiavi. Si trattava, almeno in parte, di una supremazia legittimata dalla sfera normativa, politica, civile della nostra organizzazione sociale, che facilmente giustificava l'idea di donna come "oggetto di proprietà" dell'uomo-marito, e che in Italia ha cominciato a vacillare solo con il Nuovo Diritto di Famiglia del 1975 e con i movimenti che l'hanno preceduto. Ma, come spesso avviene, i cambiamenti legislativi non producono automaticamente mutamenti culturali: questi hanno tempi molto più lunghi, specie se stratificati in abitudini sociali e culturali di vecchia data. Non è superfluo ricordare ad esempio quella sorta di legittima zio ne della supremazia maschile rafforzata da certe impostazioni scientifiche, come la stessa teoria psicoanalitica, e da una certa morale religiosa, fondata sulla dottrina cattolica, che ha contribuito a mantenere nel tempo alcune forme di subordinazione e di abuso sulle donne. Riemergere da questa specie di inganno culturale non è facile, né sul piano concettuale, né sul piano dei comportamenti quotidiani, tanto meno per chi è vittima non riconosciuta di prevaricazioni. Dal punto di vista classificatorio, sono compresi nella violenza alle donne una molteplicità di atti, quali l'aggressione fisica e sessuale, ma anche quella verbale, psicologica, economica, culturale. Se è violenza l'impedimento all'autonomia e l'isolamento sociale, è anche una forma di violenza l'aggressività subdola e invisibile che si consuma nel silenzio delle relazioni sociali. Sono violenza sulle donne gli abusi, le molestie, le mutilazioni, la riduzione ad oggetto di scambio... e gli autori possono essere non solo i singoli, ma anche le organizzazioni, la società, lo Stato. Si apre così un panorama di indagine ancora poco esplorato, un fenomeno complesso difficile da decifrare e da misurare, e in cui ancora si può ipotizzare un ampio "sommerso" che fatica a venire alla luce. 6.4.2 I conti della violenza alle donne Consapevoli di queste difficoltà, e soprattutto della appurata reticenza delle vittime a riconoscere e notificare ciò che costituisce violenza, alcune studiose si sono cimentate nello studio della violenza alle donne, anche se con molte cautele metodologiche. La consapevolezza e la delicatezza del tema è ben motivata da Linda Laura Sabbadini che dà conto di questo settore dell'Indagine sulla sicurezza dei cittadini, promossa dalla Commissione Multiscopo dell'lstat nel 1998, e che segna la prima indagine ufficiale italiana sulla violenza alle donne.41 Sabbadini ritiene che le intricate connessioni culturali di ciò che è violenza e molestia, in particolare di tipo sessuale, producano resistenze e difficoltà ad intervistare le donne, sia perché esse sono portatrici di gradi di sensibilità e di percezione molto diversi a seconda delle loro diverse caratteristiche culturali; sia perché, specialmente le violenze più "leggere" possono venir rimosse o dimenticate; sia perché sopravvive nelle donne violentate e stuprate il forte timore di essere percepite come conniventi al fatto. Questi sono anche i motivi per cui è verosimile ipotizzare che il "sommerso" sia molto ampio. Come per gli altri tipi di crimini di cui si vuole conoscere l'entità, anche per la violenza alle donne l'indagine dell'lstat prende le mosse dalle denunce per reati sessuali, nel periodo settembre 1997-gennaio 1998. Tale analisi però è stata integrata con interviste telefoniche a 20.064 donne dai 14 ai 59 anni. È noto difatti che le denunce costituiscono un indicatore molto limitato, se non distorto, di criminalità, in quanto sono più legate al grado di intolleranza sociale e di efficienza delle forze dell' ordine che non all'intensità reale del fenomeno. Se poi si ipotizza che, specificamente per i reati di violenza alle donne, vi siano molti e vari motivi per cui le interessate non sporgono denuncia, diventa ancor più necessario adottare anche altre modalità di indagine che si avvicinino di più ad una rilevazione realistica del fenomeno. Il primo risultato allarmante è il fatto che le donne che hanno subito uno stupro o un tentato stupro sono 714.000, mentre sono 185.000 quelle che l'hanno subito negli ultimi tre anni. Di queste 185.000, solo 1'1,3% dei tentati stupri ed il 32% degli stupri è stato denunciato. Ma è ben più alto il numero di non denunce nelle 714.000 donne che hanno subito violenza o tentata violenza nell'arco della vita: ben il 93,2% delle tentate violenze e 1'82,7% delle violenze non sono state mai denunciate. Se ne può solo dedurre che il relativo aumento di denunce negli ultimi tre anni sia un segnale di crescente consapevolezza delle donne e di superamento di alcuni degli ostacoli soggettivi ed oggettivi che ne hanno ostacolato per anni la denuncia.
Tab. 7 - Donne da 14 a 59 anni per tipo di molestia o violenza sessuale subita nel corso della vita e regione (dati assoluti in migliaia)
Fonte: Istat, Indagine sulla sicurezza dei cittadini 1997-1998
La forte entità del sommerso rispetto al numero di denunce e spiegato dagli esperti con gli ulteriori vissuti di violenza o aggressione psicologica che le donne subiscono nel percorso giudiziario, oltre che con il timore di ritorsione nei casi in cui la violenza sia perpetrata in famiglia o da parenti o conoscenti. Non a caso, il 15,5% delle donne ha denunciato il fatto se la violenza era stata opera di estranei, contro il 4% nel caso di persone conosciute. La difficoltà a denunciare da parte della donna è quindi tanto maggiore quanto più la persona è conosciuta, e questo anche per la paura di essere considerata consenziente e di doversi sottomettere ad interrogatori ed esamine. 42 Tra gli episodi denunciati negli ultimi tre anni, la maggioranza delle tentate violenze è stata commessa nei confronti di donne di età compresa tra i 14 ed i 24 anni di età (il 49,4%), mentre nelle donne tra i 25 ed i 34 anni tali episodi ammontano al 26%. Nelle età successive il pericolo sembra diminuire. Il fenomeno sembra attraversare indistintamente i diversi strati sociali e le diverse aree geografiche, anche se sembrano più a rischio le donne disoccupate, le single e le separate/divorziate. Una lieve concentrazione si riscontra nel Nord Est (4,9%), seguito dal Centro-Sud (3,5%), poi dal Nord Ovest e Isole. Ma anche questo potrebbe far pensare che le donne del Nord, e in particolare dei grossi centri urbani, siano più disposte a parlarne che non le altre. Significativa è la rilevazione delle conseguenze psicologiche e sociali delle violenze subite. Il 69,4% delle donne che ha subito violenza dichiara di non aver superato l'episodio, mentre tra le donne colpite dalla violenza negli ultimi tre anni il 72% dichiara di non aver superato il trauma. Le reazioni consistono in stati di insicurezza, collera, paura, depressione, vergogna, freddezza, diffidenza; molte evitano, ad esempio, le strade isolate (1'11,3%), alcune non escono più la sera, il 3,3% ha lasciato il partner, il 2,7% ha cambiato lavoro. L'indagine tramite interviste ha inoltre messo in evidenza come più della metà delle violenze sessuali (il 54,2%) è stato opera di persone conosciute ed è stata consumata in luoghi inaspettati (casa di amici, automobile, casa propria). Si tratta prevalentemente di tentati stupri non denunciati (98, 7% dei casi). Al secondo posto troviamo la violenza sessuale di strada (22,5%): più frequente nei centri metropolitani, più facilmente denunciata (22,4%), ed è in costante crescita. Segue la violenza sessuale sul lavoro (10,7%): si tratta di violenze perpetrate da superiori o da colleghi, spesso accompagnate da molestie fisiche e ricatti sessuali per essere assunte (23,5% dei casi), o per mantenere il lavoro, o per progredire di carriera (24,6%). La violenza ripetuta in famiglia viene riportata dal 4,9% delle donne: risulta chiara la maggiore resistenza a parlame e quindi il dato è sottostimato. L'età delle vittime si concentra fra i 35 ed i 59 anni, e le donne sono di status sociale più basso della media. Diventano in questo quadro significative anche le quote di donne che esprimono grosse difficoltà a parlare di violenze subite in luoghi familiari (5,2%), e di coloro che non vogliono affatto parlarne (2,4%). Il rapporto sulla violenza alle donne elaborato dal Panos Institute di Londra riporta l'esito di una ricerca condotta dalla Harvard University, secondo cui la violenza rappresenta la prima causa di morte per le donne tra i 15 ed i 44 anni. Inoltre, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, almeno una donna su cinque ha subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo nella sua vita, e i principali aggressori sono i familiari, seguiti dagli amici, vicini di casa, conoscenti e colleghi di lavoro o di studio. Sia le vittime che gli aggressori appartengono a tutte le classi sociali e a tutti i ceti economici. 43 Un'altra rilevazione è quella effettuata dall'Associazione Differenza Donna di Roma, che nel corso dell'anno 2000 ha rilevato, su 1.005 donne che si sono rivolte ai Centri: 485 casi di maltrattamento, pari al 49%; 175 casi di violenza psicologica (17%); 122 casi di percosse (12%); 92 casi di stupro (9%); 41 casi di induzione alla prostituzione (4%); 30 casi di inadempienze (3%); 8 casi di molestie sessuali (1 %); per 52 casi non è stato registrato il tipo di violenza. 44
È intuibile, anche se non specificato nel testo, che gran parte di questi tipi di violenze siano consumati in famiglia, e questo conferma la prevalenza di violenze inflitte da familiari, parenti, partner. Il Servizio di Soccorso alla violenza sessuale della Clinica Mangiagalli di Milano, nel periodo 15 maggio 1996 - 15 maggio 2000, ha registrato invece la seguente situazione, in base ai 673 casi pervenuti al servizio: 15 casi sono denunciati da maschi, 658 da femmine. La più alta percentuale è rappresentata da residenti a Milano e provincia (82%). Gli autori conosciuti sono circa il doppio di quelli sconosciuti (66%). Rispetto all'età delle vittime, i minori sono circa metà dei maggiorenni (212 su 461), e tra i maggiorenni la percentuale maggiore è nell'età 18-34 anni (il 51% del totale, il 74% dei maggiorenni). Si conferma sia il maggior numero di violenze perpetrate da parenti, amici, persone note, sia la giovane età delle vittime. Eloquenti anche i risultati dell'indagine indetta dal Telefono Rosa di Torino nel secondo semestre del 1995:45 il profilo della donna violata vede prevalere le sposate, casalinghe, di età fra i 31 ed i 40 anni. Nel 68% dei casi l'autore della violenza è il marito, e il più delle volte non per droga o alcool ma per "motivi caratteriali". Nel 79% dei casi si tratta di violenza non sporadica ma metodica e persistente: la donna spera sempre che con il tempo finisca, poi ricorre al Telefono Rosa quando la situazione non è più sostenibile.
42 Ivi, p. 10 43 Cfr. il sito: http://www.repubblica.itJonline/volontariato/donne.html 44 Cfr. GRUPPO ABELE, Annuario sociale 2001, Feltrinelli, Milano 2001 45 Cfr. il sito: http://www.it/tel.rosalpage03.htm
Banche dati, documenti giuridici internazionali, iniziative per prevenire e aiutare le vittime: A livello internazionale si possono consultare le pagine Web delle Nazioni Unite, che all'interno del loro sito dedicano alle donne un'intera sezione. Womenwatch si propone come "la finestra Internet dell'Onu sul progresso e l'aumento di potere delle donne", raccoglie documenti e informazioni sulle attività delle varie agenzie Internazionali impegnate nel settore, tra cui la pagina del CEDAW, la Commissione per l'eliminazione delle discriminazioni verso le donne. Passando dall'ufficialità all'attivismo politico, il NOW, la più grande organizzazione femminista degli Usa, offre materiali, anche legislativi, e un elenco delle sue iniziative. Da segnalare la sezione sulla nuova legge contro la violenza sulle donne, un ampliamento di quella del 1994. Una nutritissima collezione di studi, ricerche e materiali pedagogici o preventivi è invece in Rete a cura del Minnesota Center Against Violence and Abuse
L'impegno contro la violenza sulle
donne non è una prerogativa esclusivamente femminile e in questo
6.4.3 Anche le molestie sono violenza Un particolare tipo di violenza è costituito dalle molestie sessuali. "La molestia sessuale è una forma di violenza poiché si configura sempre come un"intrusione fisica, psicologica e/o sessuale ai danni di un" altra persona che non la richiede e non la gradisce, pur differendo dalla violenza per forma ed intensità".46 Le molestie comprendono una vasta gamma di azioni e comportamenti, che possono awenire nei luoghi più diversi (strada, famiglia, autobus, cinema, dal medico, nel lavoro...), e che sono accomunati dal fatto di offendere la dignità personale della donna e di essere da essa indesiderati. Il Codice di Condotta della Comunità Europea, recepito dal nostro paese, definisce la molestia sessuale "ogni comportamento indesiderato a connotazione sessuale o qualsiasi altro tipo di comportamento basato sul sesso che offenda la dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro, ivi inclusi atteggiamenti male accetti di tipo fisico, verbale e non verbale".47 Pur menzionando la letteratura una varietà di comportamenti maschili (quali: telefonate oscene, esibizionismo, molestie fisi che, pedinamenti, molestie verbali, molestie e ricatti sessuali nel luogo di lavoro, ecc.), le poche ricerche disponibili trattano solo di alcune di queste forme. La citata indagine Istat sulla sicurezza dei cittadini presentata da Linda Laura Sabbadini ha preso in considerazione solo: telefonate oscene (riguardano la maggioranza delle donne,cioè il 34,4% delle molestie subite); molestie fisiche (il 24%); esibizionismo (il 22, 6%); ricatti sessuali sul lavoro (il 4,2%). In totale, le donne molestate nel nostro paese risultano essere 9 milioni e 420.000, cioè la maggioranza della popolazione femminile dai 14 ai 59 anni (il 51,6%). Il 22,7% di queste ha subito due o più tipi di molestie. Le molestie, ancor più che la violenza, colpiscono indifferentemente vari strati sociali, varie aree geografiche e vari tipi di donne. L'unica variante significativa riguarda la maggior concentrazione di molestie subite da donne single (il 33% delle single ha subito molestie), le separate e divorziate (presentano una frequenza quasi doppia delle coniugate), e comunque le donne che escono di più, che escono la sera, che prendono più spesso mezzi pubblici. Si tratta in definitiva delle donne più indipendenti ed emancipate, che per motivi di lavoro, di maggiore libertà da carichi familiari, godono di più ampie relazioni sociali e tendono a proiettarsi maggiormente fuori della famiglia. Per quanto riguarda gli autori ed i luoghi in cui avvengono le molestie, la situazione è opposta a quella delle violenze. Le donne sono molestate prevalentemente nei mezzi pubblici (il 34,4%) e per strada (il 20,3%), da persone estranee. Nei luoghi in cui si verificano maggiormente le violenze vi è una bassa percentuale di molestie: ad esempio, in casa propria il 5,3%, in casa di amici o parenti il 4,8%. C'è da dire che, specialmente per le molestie subite per strada o nei mezzi pubblici, la percentuale di donne molestate si innalza notevolmente se si considera come arco di tempo l'ultimo triennio, molto probabilmente perché, come già accennato, le vittime tendono a dimenticare o rimuovere il fatto. Un'attenzione particolare merita la questione delle molestie sul lavoro. Sia la ricerca appena menzionata, sia !'indagine condotta da C. Ventimiglia, 48 sia alcuni studi condotti dalla Commissione Europea per il Codice di Condotta, 49 convergono nel denunciare la diffusione di tali comportamenti nei luoghi di lavoro, che però risultano ancora in gran parte sommersi. La ricerca di Venti miglia raggruppa i più frequenti comportamenti molesti in vari tipi: "molestia verbale" (apprezzamenti verbali, scherzi pesanti o umilianti, insulti, ecc.); "molestia relazionale" (richieste esplicite e implicite di rapporti sessuali); "molestia visiva" (esposizione di oggetti e messaggi a chiaro contenuto sessuale); "molestia fisica" (contatti intenzionali con il corpo o parti del corpo femminile).
Viene sottolineato come in quasi il 90% dei casi le intervistate abbiano subito sia "molestie fisiche" che "relazionali". La ricerca Istat che, come accennato, prende in considerazione solo alcuni tipi di molestie (in sostanza quelle più facilmente identificabili e descrivibili, anche perché l'inchiesta era telefonica), stima che siano 728.000 le donne che hanno subito molestie sul lavoro nell'arco della vita, cioè il 4,2% della popolazione femminile. Si tratta di molestie fisiche, ricatti sessuali e violenze sessuali. Non sono state considerate quindi le molestie verbali, che invece sono piuttosto comuni. Nel mondo del lavoro, circa mezzo milione di donne hanno subito ricatti sessuali, e di queste quasi i due terzi si trovavano in situazione di prima assunzione. Le altre hanno subito ricatti per il mantenimento del posto o per progredire in carriera. La maggiore frequenza riguarda le libere professioniste e le lavoratrici autonome, che quindi hanno meno garanzia di mantenere il posto di lavoro e sono più ricattabili. La concentrazione maggiore è al Centro Nord, nelle aree di grande urbanizzazione. È evidente in questo caso come quella dipendenza di cui si parlava a proposito dei rischi di povertà esponga le donne anche a ricatti sessuali, solitamente perpetrati da superiori e datori di lavoro. E si conferma anche la maggiore vulnerabilità di quelle donne che, già colpite da altri problemi quali separazione/divorzio, ricerca di occupazione, oltre che a quelle affette da menomazioni o di diversa etnia, costituiscono la netta maggioranza rispetto a quel 72% di donne molestate tra le donne intervistate nei vari paesi dell'Unione Europea. Se le conseguenze delle molestie sono probabilmente meno traumatiche delle violenze sessuali, possono comunque arrivare a provocare stati psicofisici anche di grave sofferenza, oltre che cambiamenti forzati nello stile di vita e nelle scelte lavorativo professionali. In particolare nel posto di lavoro, specialmente se ricorrenti, le molestie possono creare vissuti molto stressanti nelle relazioni, nel clima, nello svolgimento complessivo del lavoro, con ripercussioni anche nella molteplicità di ruoli (es. familiari) che la donna deve continuare a gestire. Ma a queste conseguenze si accompagna una percezione soggettiva che, forse ancor più che per le violenze, contribuisce a tenere sommerso il fenomeno. Le donne molestate facilmente si auto-colpevolizzano, perché questo è lo stereotipo che ancora vige nella nostra società: la paura si mescola alla vergogna, l'accusa di "essere provocanti" nel vestire, nel sorridere, nel dare troppa confidenza induce a cambiare stili di vita; il sottile confine tra il desiderio di essere apprezzate anche per la propria femminilità e l'essere oggetto di aggressione può confondere e disarmare le donne più sprovvedute, spesso con esiti di perdita di fiducia in se stesse, nelle proprie capacità. E così il non reagire o la reazione inadeguata provoca una sorta di legittima zio ne nell'uomo che ha molestato: il 47,6% delle intervistate nella ricerca condotta da Ventimiglia manifesta all' atto molesto "reazioni schermo" (cioè fa finta di non capire), il 42,8% ha "reazioni di delegittimazione" (cioè banalizza o prende in giro il molestatore). Le molestie sessuali, il tentato stupro o lo stupro consumato non sono violenze uguali alle altre. Vi è infatti una sorta di paradosso della violenza, in particolare sessuale, alle donne: il senso di colpa, il paralizzarsi di fronte al fatto, il ricatto affettivo nel caso di violenza di un familiare, il ricatto lavorativo, il timore di non essere credute, la vergogna, la paura delle conseguenze, e anche a volte la difficoltà a penetrare il mondo oscuro dell'aggressore (non è sempre facile farsene una ragione, capire fino in fondo perché lo fa...), sono sentimenti forti e contrastanti, che nella maggioranza dei casi si risolvono nel silenzio. E il silenzio a sua volta si risolve in un perpetuarsi dell'indifferenza culturale e sociale, se non in un'implicita legittimazione dell'aggressione. Del resto la riprova di un retaggio culturale che "ignora" la gravità e la devastazione provocate dalla violenza sessuale è data dal fatto che in Italia solo nel 1996 è stata varata la legge che definisce la violenza sessuale un reato contro la persona, anziché semplicemente un reato contro la morale. Si è più volte sottolineato come questo tipo di fenomeno inneschi un meccanismo perverso che si autoalimenta: gli stereotipi culturali tollerano la violenza e inducono il silenzio della vittima, il silenzio della vittima riconferma gli stereotipi generando nuova violenza... Alla base troviamo nuovamente il problema della disuguaglianza fra i sessi che non è semplicemente differenziazione, ma è asimmetria, è predominio del maschio anche in forme comunemente accettate e approvate. È facile quindi dimenticare che si tratta di un fatto culturale e non "naturale", che ha la forza di imprimere comportamenti conseguenti non solo negli uomini ma anche nelle donne che ne sono le vittime. Dalle ricerche esaminate appare chiaro che il complessivo fenomeno della violenza alle donne è estremamente diffuso, ma che in gran parte rimane non detto, nascosto, sopportato. E proprio il tipo di violenza più allarmante e devastante, quella consumata tra le mura domestiche (che spesso comincia a colpire fin da bambine, determinando vite spezzate), è quello che emerge meno. Al contrario, là dove l'aggressione non coinvolge legami affettivi e familiari con i conseguenti sensi di colpa, ricatti, sudditanza fisica e affettiva, le donne possono dire di avere paura, e si comportano di conseguenza. L'indagine Istat ha potuto rilevare a questo riguardo il maggior senso di insicurezza delle donne rispetto agli uomini, a tutte le età, in tutte le aree del paese: mentre il 78,5% degli uomini si sentono sicuri ad uscire da soli di sera, le donne lo sono nel 47,9%. Queste assumono comportamenti di precauzione in misura doppia dei maschi (evitano luoghi o persone "pericolose", non escono di sera da sole, evitano il buio), e coloro che hanno subito molestie da ignoti hanno un senso di insicurezza molto più alto delle altre donne (il 54%). È allora evidente che, da questo punto di vista, i comportamenti femminili vanno letti come spia, segnale di un malessere diffuso, che si concretizza nel fatto che una donna su due nel nostro Paese ha subito nel corso della vita almeno una molestia sessuale. Sembra, in conclusione, che proprio nel momento in cui l'emancipazione femminile ha avuto una forte accelerata, la donna si è "liberata" diventando più autonoma, inserendosi nel mondo del lavoro e delle professioni, allargando la sua sfera relazionale al di là dell'ambito familiare, debba a pagare un caro prezzo anche per gli abusi di potere fisico, rischiando di essere confinata in una nuova dipendenza.
46 SIMIONATO, C., Le molestie sessuali nei luoghi di lavoro. Analisi ed interventi,Tesi di laurea, Trieste 1999/2000 p.13
47 G.U.C.E. N.L. 49 del 24.2.92, "Codice di Condotta allegato alla raccomandazione 92/131/CEE della Commissione della Comunità Europea", 27 novembre 1991. Questo provvedimento venne assunto in seguito agli esiti dell'indagine conoscitiva affidata ad una commissione dal consiglio dei ministri del lavoro e degli affari sociali. Dall'indagine emerse che in Europa le donne che hanno subito molestie nel lavoro sono: in Spagna 1'80% delle lavoratrici, in Germania, Olanda, Gran Bretagna il 70%, in Belgio il 34%.
48 Gli esiti sono riportati in VENTIMIGLIA, C., Nelle segrete stanze. Violenze alle donne tra silenzi e testimonianze, F. Angeli, Milano, 1996. Si tratta di una ricerca condotta a Modena, in collaborazione con il Coordinamento femminile della CGIL di Modena e la FIOM regionale dell'Emilia Romagna.
49 I risultati compaiono in RUBINSTEIN, M.; DE VRIES, M.I. (a cura di), "Guida pratica per l'attuazione del Codice di Condotta", in Documentazione sui materiali informativi, formativi e normativi sulle molestie sessuali, Casa della Cultura, Roma 1993.
6.5 La donna prostituita 6.5.1 La conoscenza del fenomeno La prostituzione è un problema noto, antico, che però va assumendo nel nostro paese connotazioni nuove. Proprio queste preoccupano sotto il profilo dei rischi di disagio per le donne, sia perché il forte aumento dell'immigrazione fa aumentare la "tratta" di ragazze, sia per gli intrecci con la criminalità organizzata, sia per le conseguenze sul piano della salute (diffusione dell'AIDS) e delle difficoltà di vita nelle grandi metropoli. Dai pochi dati a disposizione si evince che tutte le implicazioni ed i rischi legati alla prostituzione femminile sono molto inferiori per coloro che hanno "scelto" di prostituirsi e che si autogestiscono. Ci si riferisce difatti qui alla donna "che viene prostituita", che cioè subisce imposizioni dirette e indirette che configurano quindi una violenza. La conoscenza del fenomeno è alquanto carente, soprattutto per le ovvie difficoltà di rilevazione, che ne fanno ancora una volta un fenomeno in gran parte sommerso. L'Indagine conoscitiva sulla prostituzione in Italia, promossa dalla Commissione Affari Sociali della Camera nel 1999 e realizzata dal Parsec, stima una presenza di 50-70.000 donne, di cui 20.000 immigrate. 51 Nel 1998 la tratta riguardava dalle 1.100 alle 1.400 donne e ragazze; ma altre fonti (ad esempio il Dipartimento per le Pari Opportunità) parlano di 2.500 vittime della tratta. Il Parsec definisce come vittime del "trafficking" "quelle donne che subiscono violenza e coercizione in almeno una delle fasi del percorso con cui arrivano dal loro paese fino all'Italia"; violenza che può consistere anche in raggiri, ritorsioni verso la famiglia, o anche la promessa di altri lavori. La prostituzione viene stimata come la terza voce di guadagno per il crimine internazionale, dopo le armi e la droga, e, valutando che in media il lavoro delle prostitute è di circa tre sere alla settimana, si calcola che ognuna di esse renda circa 10 milioni al mese. Da uno sguardo al panorama del traffico internazionale del sesso risulta chiaramente come esista in varie zone del mondo un "terreno" che favorisce oggi più che mai tale commercio. Esistono paesi come quelli asiatici in cui il permanere di zone di grande miseria e sottosviluppo favorisce uno sfruttamento bieco, abbondante, a basso prezzo, spesso crudele: l'UNICEF stima che complessivamente in Asia, negli ultimi 30 anni, la compravendita di donne e bambini a scopi sessuali abbia riguardato ben 30 milioni di persone. Nella sola India sono 2-3 milioni le prostitute, di cui almeno un quarto sono minorenni; nelle Filippine si parla di 400.000 prostitute. Dopo il crollo dell'URSS del 1991, la Russia ha assistito ad un vertiginoso aumento del traffico, favorito da una dilagante disoccupazione (quella femminile nel 2000 era del 60-70%). Le intricate connessioni del traffico di esseri umani a scopi sessuali con le attività di organizzazioni mafiose, con il turismo del sesso dei paesi ricchi, con l'industria della pornografia, con il commercio della droga, con le spinte migratorie incoraggiate dai forti squilibri socioeconomici, ne fanno un fenomeno radicato e diffuso a livello mondiale.
5I PARSEC; UNIVERSITÀ DI FIRENZE, Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento sessuale: aspetti e problemi. Ricerca e analisi della situazione italiana, Roma, aprile 1996.
6.5.2 La componente straniera del fenomeno In Italia le prostitute straniere, secondo il Dipartimento per le Pari Opportunità, provengono per il 48% dai paesi dell'Est europeo (soprattutto Albania), il 22% dall'Africa, il 16% è costituito da italiane. Il 65% delle prostitute lavora in strada, il che aggrava tutta quella serie di rischi e di problemi di cui sono vittime. Il business in Italia si aggira sui 180 miliardi di lire al mese, e sui 50.000 miliardi annui. Si stima che le persone "occupate" nel mercato della prostituzione si aggirino sulle 80.000. L'attivazione di una serie di iniziative promosse dalla Commissione interministeriale presso il Ministero Pari Opportunità nell'ambito del Programma di protezione sociale, ha fornito un osservatorio quantitativo sul fenomeno abbastanza significativo. Da Marzo a settembre 2000 sono state prese in carico 2.900 donne (di cui 80 minorenni) in seguito ai circa 13.500 contatti degli operatori di strada. Le straniere provenivano soprattutto dalla Nigeria e dall'Albania. . Il "Numero verde" attivato tra luglio 2000 e gennaio 2001 ha ricevuto 114.600 chiamate, di cui 27.600 "gestite" (le altre o si sono interrotte perché cadeva la linea, o erano improprie). Di queste:
. 3.150 provenivano da vittime di traffico; . 2.100 da vittime della prostituzione; . 3.400 da clienti; . 12.200 da cittadini, da parenti, forze dell'ordine, sospetti sfruttatori.
La Commissione interministeriale ha sottolineato l'elevato numero di chiamate al Numero Verde provenienti da donne italiane che dichiarano di esercitare la prostituzione in condizioni di grave sfruttamento" 52 Le richieste giunte al Numero Verde, spesso formulate con vissuti di disperazione e di forte tensione emotiva, sono relative alla ricerca di opportunità lavorative per uscire dalla prostituzione, di aiuto economico da parte di minorenni. Questi dati fanno poco intravedere le condizioni di disagio, di sofferenza, di schiavitù in cui molto probabilmente gran parte delle donne, soprattutto giovanissime, vivono. Uno degli indicatori è ad esempio la bassa percentuale di donne (908 su 2.900) che, pur prese in carico dai servizi, non chiedono il "permesso di soggiorno per protezione sociale" previsto dall'art. 18 del Testo Unico sull'immigrazione n. 286/98. 53 La motivazione può essere tanto il timore di rappresaglie da parte dei trafficanti e sfruttatori, quanto la difficoltà personale a maturare tale decisione. Anche il disagio per così dire estremo, e cioè l'omicidio di prostitute, è fortemente aumentato negli ultimi anni. Il Rapporto sulla sicurezza in Italia del 2000 registra che fra le persone uccise la percentuale di immigrati è molto più alta della loro incidenza sulla popolazione; e delle 188 donne vittime di omicidio nel 1999 poco meno di un quarto erano immigrate, mentre ad esempio nel 1993 le donne erano il 6% degli immigrati uccisi. Come è intuibile, questi omicidi sono generalmente la conseguenza dei tentativi delle donne di sfuggire alla schiavitù. Analogo aumento si registra fra le persone denunciate per istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione: nel 1994 erano 737, nel 1999 sono arrivati a 1.551. La crescita è illustrata nella tabella seguente:
Tab. 8 - Andamento delle denunce per istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. 1990-2000
Fonte: Istat
52 GRUPPO ABELE, Annuario..., op. cit., p. 727.
53 Questa norma, unica in Italia specificamente contro il traffico di esseri umani, prevede la possibilità di ottenere uno speciale permesso di soggiorno temporaneo, anche nei casi in cui non siano stati denunciati gli sfruttatori.
6.5.3 Vittime e carnefici Marzio Barbagli rileva che, mentre l'aumento della criminalità in Italia non è affatto imputabile agli immigrati (che spesso ne sono le vittime), indubbiamente sono andati molto aumentando gli autori stranieri di reati legati al traffico e allo sfruttamento anche minorile della prostituzione, soprattutto nigeriani e albanesi. E si tratta di immigrati che occupano spesso anche posizioni medioalte, in termini di potere e di ricompense economiche. 54 Il Parsec, nella ricerca citata, 55 rileva che agli 890 imputati con procedimenti giudiziari in corso sono stati contestati delitti di associazione mafiosa, associazione per delinquere, sfruttamento della prostituzione, sequestro di persona, sequestro di persona a scopo di estorsione, riduzione in schiavitù/tratta di donne. Rispetto alla nazionalità gli imputati sono così distribuiti:
Tab. 9 - Nazionalità degli imputati per denunce per istigazione, sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. Provvedimenti in corso al 1999. (9 principali nazionalità)
Fonte: Istat
Nel Protocollo sul traffico di persone siglato a Vienna nel 1999, si riconosce che il traffico è un delitto tipico della criminalità organizzata ed ha caratteristiche proprie rispetto alla violazione delle leggi sull'immigrazione. Era inoltre menzionato nello Statuto della Corte penale internazionale a Roma nel 1998 come crimine contro l'umanità. 56 Il ritornello del potere, del predominio maschile, e del corrispettivo stato di dipendenza e di subordinazione della donna, si concretizza qui nel modo più brutale. Questo elemento è rintracciabile, anche se in modo diverso, nelle motivazioni che spingono i clienti della prostituzione, che in Italia rappresentano il 9% della popolazione adulta di sesso maschile. I dati sui clienti sono pochi e non sempre disponibili ad un elevato livello di rappresentatività statistica. Una indagine promossa dall'Istat sui comportamenti sessuali degli italiani, e condotta dal Censis, evidenzia tra i clienti un'alta quota di anziani (il 13% hanno dai 70 agli 80 anni), di residenti nelle grandi città del Nord, di laureati rispetto ai possessori di titolo di studio basso. Secondo il Dipartimento Pari Opportunità i clienti sono per il 21,43% giovani dai 19 ai 25 anni, e la maggior parte dei clienti sono impiegati, commercianti e professionisti. Una ricerca qualitativa curata dall'antropologa Luisa Leonini per conto dell'assessorato provinciale di Milano, 57 illustra le caratteristiche di una trentina di clienti di prostitute "di strada": si tratta di "maschi normali", di classe media, con una posizione sociale stabile e una famiglia alle spalle. Le persone di elevato rango sociale e i "marginali estremi" sono raramente clienti.
54 BARBAGLI, M., Immigrazione e criminalità in Italia, op. cit., p. 75. 55 PARSEC; UNIVERSITÀ DI FIRENZE, Il traffico delle donne immigrate..., cito 56 Per approfondimenti sulla tratta di esseri umani in generale cfr. CARITAS ITALIANA, FONDAZIONE E. ZANCAN, Gli ultimi della fila. Rapporto 1997 sui bisogni dimenticati, Feltrinelli, Milano 1998.
57 Cfr. LEONINI, L., Sesso in acquisto, Unicopli, Milano 1999.
7. Le risposte per le donne in difficoltà: le politiche, la normativa, i servizi
7.1 Premessa
Alla scarsa visibilità statistica ed in parte anche teorica del fenomeno delle donne in difficoltà, corrisponde in modo speculare una debolezza, frammentazione, se non spesso dei vuoti nelle politiche di welfare, per lo meno nella realtà italiana. Così come la lettura del fenomeno si "confonde" con le analisi complessive delle famiglie, anche la normativa e le risposte, soprattutto di tipo assistenziale e previdenziale, tendono se mai a privilegiare come "soggetto" destinatario di aiuti la famiglia, non sempre garantendo necessarie e specifiche tutele alle donne "nascoste" in queste famiglie. Qui però, sia pur brevemente, è necessario fare delle precisazioni e delle distinzioni. È chiaro che qualsiasi supporto, di natura formale o informale, teso a migliorare le condizioni socioeconomiche della famiglia, ha in qualche misura una ricaduta su tutti i membri, quindi anche sulla donna. Ma innanzi tutto bisogna precisare che, a monte, il forte carattere residuale delle politiche per la famiglia in Italia sottintende e rafforza la concezione di famiglia "erogatrice di servizi", un compito gravoso, che ricade quasi integralmente sulle donne e costituisce la più importante componente del lavoro familiare. Ora, fra le debolezze di questo sistema di offerta politica, bisogna operare alcune constatazioni: la "visione" sottostante alle politiche e alle modalità di offerta dei sostegni socioeconomici alle famiglie è quella di una famiglia di tipo tradizionale, per cui ad esempio prevale la concezione della donna prima di tutto come madremoglie, e implicitamente come custode dei valori tradizionali; la spesa dello Stato per la protezione sociale, tanto di natura previdenziale che assistenziale, privilegia in larga misura le erogazioni monetarie piuttosto che l'offerta di servizi. Questo criterio contrasta chiaramente con la natura multi fattoriale della povertà. Certamente l'aiuto economico può essere utile a chi attraversa un periodo di difficoltà, mentre interventi di sostegno, che rafforzino, appoggino, compensino le eventuali debolezze della risorsa "famiglia" dovrebbero avere caratteristiche più continuative e strutturali di "servizio"; le prestazioni economiche erogate dagli enti centrali operano per categorie di utenti/fruitori, spesso senza una particolare attenzione alla condizione dei carichi familiare, anche se le soglie di accesso prendono generalmente in considerazione il reddito familiare. In altre parole, la titolarità dei sostegni più consistenti, spetta ad individui meritevoli di particolare tutela (per esempio, anziani non autosufficienti, disabili, malati mentali, tossicodipendenti... ) ; è sempre latente il rischio di orientarsi verso un gonfia mento di interventi di tipo assistenziale (oggi in un'ottica anche di una malintesa solidarietà, che va confondendosi con la "beneficenza"), a fronte di una certa latitanza nel correggere storture più di tipo strutturale (per esempio inerenti il mercato del lavoro, la scuola ed i servizi per tutti...). L'aver evidenziato questi punti aiuta a comprendere come, anche gli interventi di sostegno al nucleo familiare, siano in realtà carenti e insufficienti se si vogliono risolvere davvero i problemi reali delle famiglie, specialmente se legati alla dipendenza, alle dispari opportunità, alla gestione dei tempi delle donne. Con queste precisazioni, si tenta ora di entrare nel merito del complesso sistema di offerta, per tracciare una panoramica della normativa e degli interventi che, direttamente o indirettamente, possono avere una ricaduta positiva per le donne in difficoltà. È importante, a questo riguardo, distinguere gli interventi di sviluppo strutturale dagli interventi di supporto/sostegno per situazioni di rischio o già patologiche.
7.2 L'affermazione dei diritti e delle pari opportunità, dall'Italia all'Europa
7.2.1 La situazione in Italia, in prospettiva storica Nel nostro paese, la stagione di progressiva affermazione ed estensione di diritti concernenti la donna è iniziata verso gli anni Settanta, con la legge n. 1204/71 sulla Tutela delle lavoratrici madri, ritenuta una delle migliori in Europa, cui sono poi seguite analoghe leggi per le lavoratrici autonome (L. 546/87), le libere professioniste (L. 379/90). Ancora per quanto riguarda il lavoro, nel 1977 viene varata la legge n. 903 sulla parità di trattamento tra uomini e donne, che prevede: il divieto di adibire le donne al lavoro notturno (tranne casi particolari), l'estensione alle lavoratrici-madri adottive o affidatarie dell'astensione obbligatoria dal lavoro e il diritto di assentarsi per malattia del bambino, l'estensione al padre, anche adottivo o affidatario, della facoltà di astenersi dal lavoro per malattia del bambino entro il primo anno di vita. Certamente un ruolo centrale per l'affermazione dei diritti delle donne (oltre che dei figli) l'ha avuto la riforma del diritto di famiglia (L. 151/75), che pone in situazione di parità i coniugi sia nella direzione della famiglia, sia rispetto alle potestà e agli obblighi nei confronti dei figli. Sono andati negli ultimi anni aumentando anche una serie di provvedimenti relativi a: i congedi parentali (L. 53/2000: flessibilità nei tempi di astensione obbligatoria da lavoro per maternità, agevolazioni in caso di parto prematuro, diritto di astensione dal lavoro del padre nei primi 3 mesi dalla nascita del figlio in casi particolari, facoltà anche per il padre di astensione dal lavoro per 10 mesi nei primi 8 anni di vita del figlio); i congedi di cura (riposi giornalieri per alcune ore di accudimento dei figli e per parti plurimi, astensioni per malattia dei figli, per gravi motivi familiari, ecc.); i congedi formativi (per completamento della formazione di base e per la formazione continua); una serie di diritti nel rapporto di lavoro (divieto di licenziamento a causa dei congedi sopra accennati, anticipazione del trattamento di fine rapporto per sostenerne le eventuali spese, flessibilità dell'orario di lavoro per conciliare tempi di vita e tempi di lavoro); promozione di attività per il coordinamento dei tempi di funzionamento delle città (orari degli esercizi commerciali, dei servizi pubblici, degli uffici periferici delle pubbliche amministrazioni) .
Indubbiamente si tratta, nel loro complesso, di provvedimenti che tendono a differenziare le condizioni lavorative in base alle diverse esigenze di cui sono portatrici le donne rispetto agli uomini. Ma è noto, ed è stato anche qui accennato, come molti di questi provvedimenti siano in realtà poco applicati o addirittura inapplicati. Anche per quanto riguarda gli interventi di supporto/sostegno di natura assistenziale-sanitaria degli anni Settanta hanno segnato sostanziali mutamenti rispetto al passato. In sintesi si può dire che nasce proprio in quegli anni una concezione dell'assistenza non più come elargizione discrezionale a categorie di bisognosi (spesso previo "etichettamento" per entrare in possesso della titolarità dei requisiti per avere assistenza), ma come diritto di tutti i cittadini in quanto tali. La progressiva affermazione di una serie di diritti (che oggi chiameremmo "di cittadinanza") va impegnando lo Stato nel prefigurare l'attuazione di un complesso di moderni servizi, che tengano anche conto dei mutamenti sociali in atto (comprese le trasformazioni della realtà della famiglia). Vari autori hanno letto questi cambiamenti nella politica sociale italiana (sempre più in linea con altri paesi europei) come un cammino - pieno tuttavia di contraddizioni e di resistenze anche sotto il profilo culturale - verso un alleggerimento dei sempre più gravosi compiti familiari, attraverso la promozione di interventi rivolti alla cura dei membri deboli: anziani, minori, disabili. Secondo questo tipo di interpretazione, l'esternalizzazione di funzioni tradizionalmente considerate di pertinenza familiare costituisce un processo di defamilizzazione delle responsabilità di cura. 58 Sembra di poter leggere in questa prospettiva due provvedimenti legislativi di quegli anni: innanzitutto la L. 1044/71, istitutiva degli asili nido, ampliata negli anni Novanta con la previsione di altri "servizi innovativi" tesi alla socializzazione, educazione, crescita psicofisica dei bambini fino a tre anni. Nonostante la legge, l'armonizzazione delle due finalità - quella di fornire un sollievo alla donna-madre lavoratrice e quella di garantire uno sviluppo psicosociale dei bambini - fatica ancora ad essere realizzata. Ma soprattutto è nota la grave carenza di asili nido (sul territorio nazionale ne sono stati realizzati poco più di 2.000, e soprattutto al Centro-Nord, mentre la legge ne prevedeva almeno 3.800 in 5 anni), con lunghe lista di attesa e costi molto alti. Ancor più innovativa, e rilevante per la salute psicofisica della donna, è stata !'istituzione dei consultori familiari con legge n. 405/75. Alcune delle funzioni dei consultori familiari rappresentano forse il maggiore investimento diretto specificamente ai bisogni delle donne, sia in relazione alla loro realtà di genere sul piano fisico, sessuale, psicologico, sia con riferimento ai loro ruoli di madre, di moglie, di lavoratrice. Le numerose attività di prevenzione, di sostegno e consulenza, di informazione, di sensibilizzazione, di cura, di terapia - e spesso anche di osservazione e studio di fenomeni mai o poco indagati precedentemente - realizzati dai consultori familiari in questi anni, hanno certamente contribuito a creare una "cultura" al femminile, risolvendo problemi di salute personale e familiare e rendendo concreti alcuni obiettivi di prevenzione. La svolta qualitativa nelle politiche socioassistenziali degli anni settanta, con l'attribuzione agli enti locali della centralità nella progettazione e gestione di servizi per tutti i cittadini, ha visto l'avvio nel decennio successivo di un'ampia produzione legislativa a livello regionale, anche di specifico sostegno alle famiglie - e quindi indirettamente alle donne - riassumibili in generale in: sostegni economici (prestiti agevolati, prestiti per l'acquisto della casa, riserve di alloggi di edilizia agevolata, contributi per l'abbattimento dei canoni di affitto, assistenza economica, ecc.); servizi vari di assistenza domiciliare, ricoveri flessibili nelle strutture per anziani, strutture di accoglienza per le vittime di violenze sessuali, centri per la famiglia, ecc.; incentivi per la formazione di nuovi nuclei familiari: mutui a tasso agevolato per le giovani coppie; opportunità a favore delle famiglie: accesso flessibile ai servizi, integrazione e coordinamento tra servizi, sperimentazione di nuovi servizi per la famiglia e per !'infanzia. È noto come fin da allora si sia assistito ad attività ed orientamenti molto diversi non solo tra Nord e Sud, ma anche tra regione e regione. 59 I successivi tagli alla spesa pubblica sembrano poi aver penalizzato il settore, che continua a soffrire di incompletezze e frammentazioni. Un più dettagliato esame di alcuni provvedimenti - e delle relative carenze - verrà presentato in relazione ai sopra descritti profili di donne in difficoltà.
58 FARGION, V., Geografia della cittadinanza sociale, Il Mulino, Bologna, 1997, n.53.
59 Fargion nel volume citato dimostra proprio come le politiche innovative e le conquiste sul piano dell'attuazione di servizi e dell'esigibilità di diritti - anche proprio in favore delle donne - si siano distribuite "a macchia di leopardo" nella realtà italiana, mostrando situazioni molto avanzate e attive, e realtà invece del tutto carenti. Anche tenuto conto di ciò non sembrano oggi esserci ancora forti garanzie di "riequilibrio" fra le realtà regionali, data la maggiore autonomia delle Regioni nel settore sociosanitario.
7.2.2 Uno sguardo all'Europa La Comunità Europea ha iniziato ad interessarsi della condizione femminile dal 1976, con l'emanazione di una Direttiva che stabiliva la parità di trattamento tra uomini e donne nel lavoro e la rimozione delle discriminazioni basate sul sesso. Sono seguiti altri atti -le Raccomandazioni del 1984 e del 1991, la Risoluzione del 1994 - tra cui l'elaborazione di un "Codice di condotta" che indica una serie di linee-guida per lavoratori/lavoratrici, datori di lavoro, organizzazioni sindacali finalizzate a stabilire il rispetto della dignità nei luoghi di lavoro. La produzione normativa europea, 60 così come quella statunitense, è stata accompagnata da un vivace dibattito delle organizzazioni di donne, pur nella consapevolezza che altri strumenti ed altre azioni sarebbero stati necessari per rendere operativa ed efficace una reale cultura delle pari opportunità. Il recepimento da parte del nostro paese della normativa europea ha avuto fasi alterne e non si può dire sia approdato a risultati soddisfacenti. Il primo coraggioso atto legislativo risale al 1977, quando Tina Anselmi riesce a far approvare la legge n. 903, la prima sulla parità, che stabilisce il divieto a discriminare le donne sia in ordine all'accesso al lavoro, sia alla retribuzione, all'attribuzione di qualifiche, alla progressione di carriera. Nel 1991 viene emanata la legge n. 125, una delle più avanzate in Europa. Gli esperti concordano nel riconoscere a questa legge il merito di aver focalizzato non solo le discriminazioni "dirette" che possono avvenire nella scuola, nei luoghi di lavoro, rispetto ai compiti di cura familiare, ma anche quelle "indirette" che sono difficilmente rilevabili perché legate ad una "situazione di sfavore per l'appartenenza ad un gruppo" (tipiche sono le diseguaglianze retributive o i vari impedimenti alla progressione di carriera). Vengono allora istituiti la figura della Consigliera nazionale di parità ed un Comitato pari opportunità presso il Ministero del lavoro, prevedendo un'analoga articolazione territoriale a livello regionale e provinciale. Nella maggior parte delle contrattazioni del lavoro, sia pubblico che privato, viene prevista la costituzione dei Comitati per le Pari Opportunità, e nel contratto 1998-2001 ne vengono specificamente indicati i compiti, tra cui quello di promuovere azioni e proposte in tema di molestie sessuali nei luoghi di lavoro. I comitati vanno oggi diffondendosi, soprattutto nel pubblico impiego, con il rilevante sostegno delle rappresentanze sindacali unitarie, che promuovono anche l'adozione delle disposizioni suggerite dalla Comunità Europea. Contemporaneamente assistiamo al fenomeno della vanificazione, di fatto, di gran parte della normativa, a causa, come già illustrato precedentemente, della carenza di finanziamenti e di indicazioni precise sulle procedure e sugli strumenti per realizzarla. Sembra che la strada da fare sia ancora molta. Da un lato le fasi alterne, le crisi, l'attuale turbolenza nel mercato del lavoro e dell'occupazione, insieme ad una cultura organizzativa ancora incentrata su modelli "neutri" anziché sulla realtà delle differenze di genere, tendono ad occultare o dimenticare i problemi e le conseguenze (anche sul rendimento lavorativo!) delle discriminazioni sessuali. Dall'altro lato, le ricerche sul lavoro delle donne e più in generale sulla condizione femminile, oltre alle testimonianze di gruppi di donne - compresi i Comitati Pari Opportunità, là dove funzionano -lanciano segnali di presa di coscienza e di protagonismo delle stesse donne: come molte autrici sostengono, è urgente la necessità di garantire i punti di vista delle donne, la cui tutela e la cui affermazione di pari dignità è realizzabile a condizione che esse si facciano soggetto attivo e propositivo di nuove politiche, e non semplicemente oggetto di protezione.
60 Per una esaustiva panoramica della normativa europea, oltre che nazionale, sulla questione delle "pari opportunità" cfr. BASSO, L. (a cura di), Parità, pari opportunità uomo-donna e lotta alle discriminazioni, Materiali di documentazione, Coop. Libraria Editrice Università di Padova, Padova 2001
7.3 Le risposte alla “donna povera”
Come già accennato, il diffondersi di iniziative di sostegno economico al nucleo familiare vede spesso di fatto come principali destinatarie le donne, specialmente se anziane con scarso reddito e sole. In particolare, dal 1995, prendono avvio interventi di politiche fiscali in rapporto alla famiglia, quali: detrazioni fiscali per persone a carico, assegni al nucleo familiare in sostituzione dei precedenti "assegni familiari". Inoltre è stato introdotto l'ISEE (Indicatore di situazione economica equivalente, L. n. 449/97; D.Lgs. n. 109/98), cioè uno strumento di valutazione della situazione economica per l'accesso ad agevolazioni e prestazioni normalmente erogate a livello locale, come ad esempio l'assegno di maternità, erogato dai Comuni alle madri senza copertura previdenziale, o l'assegno al nucleo familiare con 3 o più figli. Anche la sperimentazione del reddito minimo di inserimento costituisce un potenziale strumento di contrasto della povertà e dell'esclusione, attuato mediante sussidi economici di integrazione del reddito. Nella sperimentazione portata a termine in quasi 40 comuni italiani, l'erogazione del reddito minimo di inserimento è stata subordinata ad un controllo preliminare dei richiedenti e alla definizione di un progetto finalizzato di inserimento sociale. Ma con ogni probabilità l'intervento più diffuso in favore soprattutto delle anziane sole e delle donne con scarso reddito è l'assistenza economica, erogata dai Comuni in diverse forme (contributi per il "minimo vitale", sussidi una tantum, assegno di accompagnamento per la cura di persone non autosufficienti, contributi per il pagamento dell'affitto e delle utenze, ecc.). Si tratta di interventi prettamente assistenziali, che tendono a compensare, troppo spesso in modo insufficiente o appena sufficiente, le pensioni molto basse o i carichi familiari per la presenza di persone disabili, malate, non autosufficienti. Anche le varie forme di servizio domiciliare (assistenza domiciliare per la cura della persona e dell'abitazione, assistenza domiciliare integrata sociosanitaria, spedalizzazione domiciliare, pasti caldi a domicilio, trasporti, ecc.) contribuiscono a sollevare le famiglie, e soprattutto le donne, dalla gestione di situazioni problematiche evitando il più possibile il ricovero delle persone più deboli.
Vi è però da sottolineare che, oltre alla natura residuale e alla
diseguale distribuzione sul territorio nazionale di questi
provvedimenti, gli interventi compensativi del reddito sono in genere
esigui e tendono quindi a creare dipendenza dalle istituzioni
erogatrici. Che poi questa dipendenza colpisca particolarmente le donne
lo si ricava da quanto già esposto circa la minore capacità di guadagno
delle donne nel mercato del lavoro, la percentuale maggiore di donne
anziane, gli esiti della loro dipendenza dal reddito del marito o ex
marito capofamiglia.
In questo modo, come già accennato, il sistema di welfare, anziché
promuovere opportunità di emancipazione della donna, tende ad
accentuarne la dipendenza sociale e istituzionale.
Ovviamente, vale anche per la madre sola quanto illustrato nel
paragrafo precedente. Tuttavia, in questo caso, il sistema di risposte
può apparire maggiormente adeguato, in quanto negli ultimi anni le
politiche per !'infanzia si sono notevolmente evoIute, sia sul versante
sociale che su quello più strettamente sanitario. Basti pensare alle
iniziative promosse con l'emanazione della legge n. 285/97 per la
promozione dei diritti ed opportunità per !'infanzia e 1'adolescenza. Anche il tasso di mortalità materna si è fortemente ridotto rispetto alla prima metà del secolo scorso (è oggi pari al 7 per 100.000 casi), pur presentando le varie zone del paese situazioni molto diversificate, ed essendo i livelli di salute materno-infantile complessivamente inferiori a quelli dei paesi del Nord Europa.
I progressi scientifici e le politiche di protezione della
maternità e dell'infanzia hanno certamente aumentato il benessere
anche delle donne madri, promuovendo insieme anche processi di
modernizzazione sul fronte culturale, di cui spesso sono state
protagoniste e promotrici le stesse donne (ciò vale in particolare in
Italia per la "conquista" delle leggi di istituzione degli asili nido e
dei consultori familiari). In questo contesto anche lo status di "madre
sola" ha in gran parte perso quella connotazione stigmatizzante che
relegava la "madre nubile" o la "divorziata" ai margini della normalità
sociale. Eppure, una sorta di inerzia culturale che ancora tende ad
identificare la donna innanzi tutto in quanto madre (e sposa), sembra
permanere nelle scelte di politica e di investimenti sociali. Il già
citato problema degli asili nido diventa per la madre sola determinante,
sospingendola spesso ad accontentarsi di lavori precari, saltuari, mal
retribuiti, e scontrandosi così con l'altro problema della rigidità e
delle sperequazioni del mondo del lavoro. Risultano perciò più
svantaggiate le madri di bambini fino ai tre anni, perché poi subentra
la scuola materna che, a differenza dei nidi, è di fatto un servizio ad
accesso universalista.
61 FERRARIO, P., Op. dt., p. 233. 62 RUSPINI, E., Teenage lane mothers..., op. cit..
L'ampia gamma delle violenze, con particolare riferimento alle donne, sul piano normativo è disciplinata da alcuni articoli del Codice Penale e dalla legge 15 febbraio 1996, n. 66: art. 591 c.P., Abbandono di persone minori o incapaci: stabilisce pene per chi - genitore, figlio, coniuge, tutore - abbandona una persona non in grado di provvedere a se stessa per varie cause; art. 571 c.P., Abuso dei mezzi di correzione: regola i comportamenti familiari di maltrattamento fisico o psicologico per l'eccesso di correzione;
art. 572 C.P., Maltrattamenti in famiglia: regola tutti
gli altri maltrattamenti in famiglia; Grazia Le Mura riporta nel suo volume interessanti considerazioni circa i costi, non solo economici, riconducibili alla violenza, da cui però non è possibile estrapolare l'entità dei costi specificatamente economici. Il costo più evidente è quello psicologico e umano pagato dalle vittime - nel nostro caso donne e bambine - e che si traduce sia in prospettive di vita drammatiche o problematiche, sia nei corrispettivi costi sociali, culturali, politici, giuridici, di sicurezza sociale. Si stima che in Canada l'approntamento di servizi diretti a garantire la tutela dalla violenza costi circa 1 miliardo di dollari canadesi all'anno. Gli Stati Uniti spendono dai 5 ai lO miliardi di dollari. Da alcuni studi recenti della Banca inter-americana di sviluppo su 6 paesi dell'America Latina si sono individuate 4 categorie di costi:
2) costi non monetari totalmente a carico delle vittime, quali stati patologici, possibilità di aumento della mortalità, depressione fino al suicidio, eventuale ricorso alla dipendenza da sostanze stupefacenti o alcoliche; 3) effetti di moltiplicazione monetaria: riguardano l'incidenza della violenza nel rendimento lavorativo, nell'occupazione, nella produttività inter-generazionale, dovuta alla compromissione delle capacità partecipative della vittima alla vita economica e sociale;
4) effetti di moltiplicazione sociale: riguardano l'impatto della
violenza sui rapporti generazionali, sulle relazioni interpersonali,
sulla qualità della vita e sulla partecipazione alla vita democratica. La preminenza della creazione di una cultura della non violenza suggerisce interventi che coinvolgano più soggetti, professionisti e non, individuali e collettivi, informali e istituzionali. Cruciale è da ritenere anche il coinvolgimento dello stesso aggressore, e naturalmente quello della donna-vittima o potenziale vittima. Non possiamo pensare all'aggressore solo come "carne fice", unico e assoluto responsabile del reato. Non vi sono dati statistici in proposito, ma l'esperienza di lavoro nei servizi dimostra spesso che è possibile (e necessario) riflettere sui fattori, interni ed esterni alle persone autrici di violenze, che richiedono appropriati interventi anche di aiuto. Grazia Le Mura sostiene a proposito che "Occorre creare, anche, dei servizi per gli aggressori: spazi in cui visualizzare la propria realtà, luoghi in cui elaborare le proprie abitudini, ambiti in cui ricostruire la propria relazionalità".63 La questione del coinvolgimento attivo della donna-vittima è ugualmente cruciale. Non è possibile promuovere cultura di non violenza sulle donne senza l'apporto delle stesse. Come abbiamo già accennato, gli ostacoli sono molti, soprattutto per le vittime, ma è importante riflettere sul fatto che il farsi "soggetto" della propria riabilitazione ed in generale di nuova cultura porta a prefigurare interventi e servizi che abbiano come principale finalità non un aiuto pietistico, foriero di nuova dipendenza, ma attraverso progressive prese di coscienza e sostegni, la promozione di autonomia e di protagonismo. Sono sempre più numerose le iniziative che sorgono nel paese, sia relative all'istituzione di servizi (Centri antiviolenza, Telefono Rosa, Centri donna, Case di accoglienza, ecc.), sia a progetti ed attività di studio, sensibilizzazione, diffusione, condotti da associazioni, cooperative, ecc.. Di particolare rilievo è ad esempio il progetto pilota "Rete Antiviolenza Città URBAN - Italia". Si tratta di un progetto finanziato dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale, che ha coinvolto varie città italiane, allo scopo di individuare indicatori di analisi ambientale rispetto alla violenza sulle donne, definire protocolli di intervento comune, individuare metodologie per la riorganizzazione dei servizi territoriali che si occupano di problemi di violenza alle donne. I servizi esistenti (Centri Antiviolenza ecc.) sono prevalentemente gestiti da associazioni, da cooperative, da organizzazioni religiose, da Province ed altri enti locali. Purtroppo non esistono rilevazioni sistematiche e complete che diano una fotografia delle iniziative esistenti.
63 LE MURA, G., La violenza sulle donne, Edizioni Paoline, Milano 2001, p. 178.
È nell'ambito della normativa, sia europea che italiana, relativa alla lotta contro la discriminazione sessuale che trovano spazio una serie di specificazioni sulle molestie sessuali nel lavoro, 64 anche se ad oggi manca in Italia una legge che disciplini tali comportamenti. Pertanto le norme cui in genere si ricorre per denunciare e tutelare le azioni di molestia, oltre alle due citate leggi del 1977 e del 1991 , sono: l'art. 660 del codice penale, che tratta in generale di molestie o disturbo alle persone; l'art. 609 bis del codice penale, che riguarda le violenze sessuali. È evidente che molti dei comportamenti molesti nei luoghi di lavoro non sono configurabili nelle fattispecie previste da questi due articoli. Inoltre resta sempre problematico per molte donne avviare un'azione penale, a causa delle note implicazioni e ripercussioni che tali azioni comportano, anche solo a livello psicologico. Più frequentemente difatti si ricorre all'ambito civile, utilizzando l'art. 2087 del codice civile che regola qualsiasi problema di rapporto tra lavoratore e datore di lavoro. Occorre sottolineare che, oltre alla scarsa ricettività del contesto socioeconomico e politico, la regolazione giuridica del fenomeno delle molestie sessuali è un' operazione molto delicata e problematica. C'è sempre il rischio che interventi di tutela si risolvano in prezzi troppo alti da pagare per le stesse vittime interessate. J. L. Cohen sintetizza in questo modo il dilemma: "o uguaglianza al prezzo della riservatezza e della repressione o libertà e confidenzialità al prezzo dell'ineguaglianza; non sembra possibile avere libertà, riservatezza ed uguaglianza assicurate dalla mano pesante della legge". 65 Certamente importante, anche se la sua diffusione è ancora limitata, è il riferimento al Codice di Condotta, suggerito dalla normativa europea, che consente di ricorrere "a procedure informali e conciliative, capaci di dare soluzione alle contese, ripristinando i necessari equilibri all'interno del posto di lavoro attraverso interventi interni all'azienda. L'impegno anche normativo dei Comitati è accompagnato dalla promozione di attività sia conoscitive che di diffusione di informazioni e sensibilità sul fenomeno (attraverso campagne informative, corsi di formazione spesso organizzati dal sindacato, osservatori regionali e locali, ecc.). Il problema delle molestie alle donne sul luogo dei lavoro, così come il complessivo fenomeno della violenza sessuale, è dunque strettamente legato alla condizione di "dispari opportunità" che contraddistingue ancor oggi la convivenza sociale. Forse è importante riflettere sul fatto che, così come sono numerose le implicazioni e gli ostacoli da rimuovere nei diversi contesti per raggiungere condizioni più eque, è altrettanto vero che migliori condizioni di parità di diritti e di rispetto delle differenze non potranno che migliorare complessivamente la convivenza sociale, consolidare il concetto di cittadinanza, arricchire di nuovi valori e relazioni umane i vari ambiti del vivere civile.
64 Un'illustrazione completa e dettagliata del fenomeno e delle iniziative in atto per contrastarlo è reperibile in REGIONE VENETO, AUSER VENETO, Tutela della dignità degli uomini e delle donne nel mondo del lavoro. Disposizioni e iniziative delle istituzioni europee contro le molestie sessuali. La situazione in Italia, CLEUP, Padova 2001
65 COHEN, J. L., AUTONOMIA PERSONALE E DIRITTO, in "Genere e cittadinanza donne sulla scena politica", Info anno VI, n. 7-9/2000, p. 15, citato in SIMIONATO, C., op. cit., p. 33.
Nel panorama europeo la tendenza etico-politica di contrasto ai problemi legati alla prostituzione presenta un carattere prevalentemente "abolizionista". La maggior parte dei paesi dell'Unione Europea tollera la prostituzione solo se svolta come attività libera esercitata individualmente, e punisce gli sfruttatori. Se ne discostano paesi come la Germania, la Spagna e la Grecia che adottano un sistema di "regolamentazione" dell'esercizio della prostituzione, e in qualche misura lo adotta anche l'Olanda, mentre la Svezia, nell'ambito della tutela della parità uomo-donna, va assumendo una tendenza "proibizionista", prevedendo la commina zio ne di pene (multa e reclusione) per i clienti sorpresi a chiedere prestazioni sessuali. In Italia il problema si è fortemente acuito negli ultimi anni, con l'arrivo delle donne straniere sul marciapiede, assumendo le connotazioni allarmanti di traffico e tratta di donne (e minori). Per questo motivo nel 1998 è stato istituito il Comitato Interministeriale di coordinamento delle azioni di governo contro la tratta di donne e minori ai fini di sfruttamento sessuale, presieduto dai ministri per le Pari Opportunità e della Solidarietà Sociale.
Il dipartimento per le Pari Opportunità ha proposto ed ottenuto
che il Testo Unico sull'immigrazione (L. n. 286/98) contenesse un
articolo di contrasto al traffico di esseri umani. Si tratta dell'art.
18, che consente alle donne che desiderano sottrarsi ai trafficanti, di
ottenere uno speciale permesso di soggiorno, rinnovabile per motivi di
lavoro o di studio, con possibilità di usufruire di programmi di
assistenza e di tutela. Il valore di questo articolo, che, come già
accennato, è scarsamente utilizzato dalle interessate, è anche quello di
aver innescato iniziative dirette a contrastare la tratta e a
sensibilizzare la popolazione. Difatti le azioni previste, e in parte
attuate, riguardano progetti di accoglienza sul territorio, con la
collaborazione degli enti locali e delle organizzazioni non
governative; azioni" di sistema", cioè l'istituzione di un Numero Verde
contro la tratta, e iniziative di informazione e sensibilizzazione
tramite TV, radio, manifesti. Lo "spaccato" del fenomeno aperto dall'attivazione del Numero Verde offre anche spunti di inedite risposte: risulta che la postazione Piemonte-VaI d'Aosta, gestita dal Gruppo Abele, ha ricevuto 48 telefonate di clienti (su 160 contatti) che, "emotivamente molto coinvolti e spesso psicologicamente fragili, hanno richiesto e ottenuto aiuto per un sostegno psicologico prolungato, oltre a un lavoro di "contenimento" e mediazione quando la ragazza viene accompagnata. [...] Ma il supporto del cliente si è rivelato il più delle volte una risorsa, soprattutto nella prima fase di aggancio". 66
Altre iniziative, prevalentemente attivate da organizzazioni non
governative, vanno diffondendosi nel paese. Significativa è la nota
esperienza di don Oreste Benzi che ha tolto dalla strada un migliaio di
donne. Va anche citato il Gruppo Nazionale di Coordinamento per le
azioni contro la tratta, cui appartengono la Caritas Italiana, il Gruppo
Abele, la Fondazione Migrantes della CEI, l'USMI: vengono offerte reti
di servizi, occasioni formative, azioni promozionali verso gli enti
pubblici per la realizzazione di leggi, servizi, forme di cooperazione
con altri paesi.
66 GRUPPO MELE, Annuario..., op. cit., p. 729.
È’ ampiamente dimostrato, in altri termini, che c'è un sommerso
consistente, tangibile, molto variegato, con cui prima o poi le
politiche sociali si troveranno a fare i conti. È un sommerso che
talvolta assume la forma delle scatole cinesi: dentro la schiera delle
donne povere ci sono le anziane, le madri sole, le donne disoccupate...
e dentro a queste ci sono quelle che hanno avuto o hanno lavori precari
e sottopagati, ci sono le immigrate... E dentro le immigrate ci sono le
giovani (e le bambine!) vendute, strappate, schiavizzate. E in tutti
gli strati sociali delle donne, forse soprattutto proprio delle più
emancipate, ci sono le donne violate, stuprate, molestate...
Ma forse l'aspetto più peculiare che emerge dalle ricerche e dagli
studi esaminati riguarda la necessità di adottare un punto di vista di
genere nel guardare alla realtà. E qui si vorrebbe sgombrare il campo
da possibili equivoci: dare voce al "punto di vista" delle donne non
equivale necessariamente ad assumere atteggiamenti rivendicativi di
contrapposizione (forse enfatizzati da frange dei movimenti femministi),
ma nemmeno a considerare le donne meritevoli di una tutela speciale che
prelude all'innescarsi di meccanismi di protezione... e alla fine di
nuova dipendenza. Si tratta piuttosto di promuovere una soggettività
della donna che è co-protagonismo nella costruzione del sociale, fin dal
momento dell'analisi e dell'interpretazione della realtà che tutti
viviamo. Perciò gli studi, pur avviati negli ultimi anni anche in Italia, abbisognano di sviluppo e approfondimento su questa linea, in una posizione di integrazione con la cultura tradizionale, troppo spesso connotata solo al maschile. Il potenziale in un certo senso rivoluzionario che ciò comporta, e quindi le resistenze che vi si frappongono, sono ben visibili su vari fronti: se parliamo ad esempio di diritti di cittadinanza, è evidente che, accanto alle conquiste sul piano dei diritti civili già illustrate, molta strada resta da fare sul piano dei diritti politici e sociali. Paola Di Cori e Donatella Barazzetti, nell'opera appena citata, sottolineano come in Italia, analogamente ai paesi sud-europei - ma anche a Francia e Gran Bretagna - la partecipazione delle donne agli organismi politico-isituzionali non raggiunga il 10% del totale, mentre nei paesi scandinavi essa si avvicini al 50%. Nel campo poi dei diritti sociali si è dimostrato quanto le discriminazioni sia orizzontali che verticali nel mercato del lavoro svantaggino le donne, come esse siano sospinte in lavori di economia sommersa, e come la protezione del welfare tenda a privilegiare le risposte in denaro piuttosto che in servizi, "occultando" nei problemi di reddito familiare i problemi di doppia presenza, di maggior vulnerabilità, di deprivazione delle donne. Forse, man mano che crescerà questa soggettività femminile, indissolubilmente legata all'esigibilità di tutta la gamma dei diritti di cittadinanza, si farà più visibile la povertà al femminile, e così sarà più aggredibile, e allora... diminuirà? Quello che è certo è che una maggior sensibilizzazione, anche delle stesse donne, e lo sviluppo di una cultura della socialità più coerente con il fatto che il mondo è costituito di uomini e di donne, non potranno che tornare a vantaggio di tutti
67 La tematica della soggettività delle donne in questo ambito è ampiamente analizzata in DI CORI, P.; BARAZZETTI, D., Gli studi delle donne in Italia, Carocci, Roma 2001: le autrici esaminano in particolare le conquiste, ma anche il permanere di difficoltà nell' entrata delle donne - e di una cultura teorica al femminile nell'istituzione universitaria italiana, particolarmente connotata dal potere tradizionale maschile. Anche il saggio di E. Ruspini sulla povertà delle donne, più volte citato, ruota intorno alla necessità (e alla carenza in Italia) dell'adozione di metodologie e tecniche di ricerca 'al femminile' per poter decifrare l'entità e la qualità del fenomeno della povertà femminile.
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