Il primo dettagliato resoconto europeo sull'uso e sulle
proprietà della canapa è di Franüois Rabelais. Nel
Gargantua compare infatti una minuziosa descrizione
dell'erba chiamata Pantagruelion_, che testimonia come
l'autore doveva avere una grande familiarità con tale
pianta. Ciò dipendeva sicuramente dagli studi di medicina
fatti da Rabelais, ricordiamo di passaggio che egli è stato
il primo a tradurre in francese le opere di Ippocrate e
Galeno, ma anche dal fatto che il padre, Antoine, coltivava
la canapa nei suoi possedimenti in Turenna.
Più tardi, nell'Ottocento, il mondo e la cultura francese,
riscoprendo l'hashish nelle province dell'impero Ottomano
conquistate dalle truppe di Napoleone, elevavano la canapa
nell'olimpo delle sostanze psicotrope dove prima regnava
solitario l'oppio.
Le
estatiche voluttà ed il vacuo torpore, il kif, cui si
lasciavano abbandonare gli islamici divenne presto
esperienza comune tra i borghesi e i giovani romantici
parigini.
Nascevano
quindi circoli di fumatori d'hashish, luoghi consacrati ad
un nuovo culto laico. In un vecchio edificio dell'isola di
Saint-Louis, nel cuore di Parigi, l'hotel Pimodan, si
trovava il "Club des Haschischins", forse il più
noto tra questi club. Vi convenivano alcuni tra i maggiori
letterati ed artisti parigini dell'epoca, come Gerard de
Nerval, Th,ophile Gautier, Charles Baudelaire, Honor, de
Balzac, Boissard de Boisdenier, Honor, Daumier. Dai vasti
saloni di questo circolo, i soci venivano idealmente
trasportati nei giardini fantastici del "Veglio della
montagna".
Raccontava
Gautier (1846/1979, p. 20) che era lo stesso Jaques Joseph
Moreau de Tour, "il" dottore, capo indiscusso del
bizzarro cenacolo - mentore infaticabile dell'hashish -, a
distribuire con un mestolo un "pezzetto di pasta o
confettura verdastra" agli iniziati: a dispensare una
"porzione di paradiso".
Il
gusto romantico dell'irrazionale e la nuova sensibilità
decadente venivano così saziati con infinite sensazioni e
imprevedibili trame di sogno o di incubo, e l'immagine
visionaria e tormentosa del mondo propria dei movimenti
culturali cui quel gusto e quella sensibilità facevano
riferimento, pur evocata dall'azione stupefacente della
droga, diventava finalmente realtà.
Moreau de Tours l'hashish e l'indagine della follia da
dentro
Non
solo teso alla ricerca dell'avventura psichedelica e
dell'evasione, era l'uso che Moreau de Tours faceva
dell'hashish. Egli aveva provato per la prima volta
l'hashish nel 1837, nel corso di uno dei suoi molti viaggi
in Oriente ed aveva immediatamente deciso di utilizzarlo
"sperimentalmente", come una sorta di sonda
chimica per indagare la follia dal di dentro.
Come scrive nel 1845 nel saggio Du haschisch et de l'alienation
, egli aveva visto "nell'haschisch, o piuttosto
nella sua azione sulle facoltà morali, un mezzo potente,
unico, per esplorare le patologie mentali". Moreau de
Tours si era convinto che attraverso l'haschisch "si
potesse essere iniziati ai misteri dell'alienazione,
risalire alla fonte nascosta di quei disordini così
numerosi, così vari, così strani che si è soliti indicare
col nome collettivo di follia". (1845/1980, pp. 29-30).
Per
comprendere le straniate architetture del pensiero folle
bisognava averci vissuto dentro, almeno per un momento, ma
senza perdere coscienza del delirio, mantenendo la capacità
di osservare e giudicare le alterazioni via via
sopraggiunte. Secondo Moreau de Tours, questo era possibile
assumendo hashish. "Man mano che l'azione dell'haschisch
si fa sentire con maggior forza si passa insensibilmente dal
mondo reale in un mondo fittizio, immaginario, senza perdere
tuttavia la coscienza di se; così che si potrebbe affermare
che avvenga una specie di fusione fra lo stato di sogno e lo
stato di veglia; si sogna da svegli."
(1845/1980, p. 172). Nel suo saggio egli dedicava quindi
oltre cento pagine all'analisi degli effetti fisici e
psicologici dell'hashish, soffermandosi con cura puntigliosa
sulle anomalie alle funzioni psichiche normali che la resina
della canapa provocava.
In
esse infatti Moreau de Tours scorgeva il segno primordiale
della follia, la fonte stessa di ogni delirio e del sogno:
indebolirsi del libero arbitrio, azzeramento della volontà
e retrocedere all'esercizio automatico delle funzioni
psichiche. L'assimilazione della follia al sogno, già cara
agli ideologues, recuperava in vesti scientifiche, ed
almeno per quanto riguardava l'aspetto fenomenologico di
questi due processi psicologici, uno dei temi piu' cari
della letteratura romantica. L'idea della follia come
travaso del sogno nella vita reale, proposta da un altro
famoso consumatore di hashish, Gerard de Nerval, era infatti
un luogo comune dell'immaginario dell'epoca.
Guarire
il male somministrando la sostanza che provoca sintomi ad
esso simili: questo è l'ineffabile razionale della medicina
omeopatica. Seguendo la stessa logica, dato che la resina
della canapa provoca quadri psicotici, Moreau de Tours
tentava la somministrazione dell'hashish nella cura delle
malattie mentali.
Castoldi
(1994, p. 65) fa notare come ciò suscitò già l'ilarità
di alcuni contemporanei come il romanziere Esquiros, che in
un articolo del 1845 intitolato "De l'hallucination et
des hallucines" scriveva: "Abbiamo avuto modo
di seguire noi stessi ultimamente l'impiego dell'haschisch
su tre allucinati; il risultato dell'assunzione di questa
sostanza e' stato quello di cambiare le visioni solite di
questi malati con altre visioni: il fatto e' senz'altro
curioso, ma ci sembra lontano dall'essere concludente.
Dislocare la natura della follia non significa
guarirla."
Dumas, Gautier e Baudelaire
L'esperienza
dell'hashish ebbe una risonanza profonda nella temperie
culturale di metà Ottocento. Essa era descritta da
straordinari interpreti della narrazione e della poesia,
come Dumas padre, Gautier e Baudelaire. Il primo dava un
notevole contributo all'affermazione del fascino esotico
dell'hashish nella cultura francese col celebre passaggio
del Conte di Montecristo in cui si racconta
l'esperienza dell'hashish di Franz d'Epinay.
"Il
suo corpo sembrava acquisire una leggerezza immateriale, la
mente s'illuminava in modo straordinario, i sensi sembravano
raddoppiare le loro facoltà; l'orizzonte si dilatava sempre
piu', ma non già quell'orizzonte cupo su cui planava un
vago terrore, e che aveva contemplato prima di
addormentarsi, bensì un orizzonte blu, trasparente, vasto,
con tutto ciò che il mare ha d'azzurro, con tutti gli
splendori del sole, con tutti i profumi della brezza [...]
Segui' un sogno di voluttà incessante, un amore senza
tregua, come quelli promessi dal Profeta agli eletti."
(Dumas,
1962, pp. 409-12). Gautier pubblicava dei reportage
("Le Hachich", Presse, 10 luglio, 1843; "Le
Club des Hachichins" Revue des deux mondes, 1846, 16,
pp. 520-35, raccolti e tradotti in italiano in Gautier,
1979) sulle pratiche dei circoli dei fumatori d'hashish e
ritraeva minuziosamente le sensazioni e le allucinazioni
provocate dalla droga che Moreau de Tours gli aveva
procurato. Prima il kif, l'estasi, la agognata liberazione
dall'io e dal corpo, le visioni fantastiche
straordinariamente dilatate nel tempo. Ma subito dopo
l'incubo, la disperazione e l'angoscia, una gelida
pietrificazione delle membra e della volontà, la malefica
trasfigurazione dei compagni della tossica avventura, da
comiche maschere strepitanti di irrefrenabile riso, in
personaggi dalle fattezze mostruose e dai modi
terrorizzanti. Infine il buio dell'incoscienza, prima del
risveglio della ragione.
Gautier
prendeva quindi una posizione critica nei confronti dei
molti sostenitori dell'uso delle droghe a fini creativi. Nei
Recits fantastiques, egli rivendicava l'autonomia e
l'autosufficienza dell'artista nel processo creativo,
affermando che il vero letterato non gradisce che la sua
mente subisca l'influenza di un qualsiasi agente, in quanto
ad esso bastano i suoi sogni naturali.
Questa posizione veniva condivisa anche da Baudelaire, che
più di ogni altro forse mise in evidenza i pericoli, per
l'arte e la letteratura, provocati dalla sempre piu' diffusa
dedizione alle sostanze stupefacenti. Non esiste nessuna
chimica scorciatoia all'ispirazione poetica e non e'
possibile "creare il paradiso con la farmacia",
affermava Baudelaire nelle appassionate pagine de I
paradisi artificiali. Secondo l'autore de Le fleurs
du mal, l'hashish costituiva indubbiamente "uno
specchio che dilata, ma un semplice specchio".
Le
allucinazioni che tale droga induceva, infatti, erano
assimilabili a quelle del "sogno naturale", il
sogno popolato dall'esistenza quotidiana, "dai
desideri, dai vizi, combinati in modo più o meno bizzarro
con gli oggetti intravisti durante la giornata e che si sono
indiscretamente fissati sulla vasta tela della memoria"
(Baudelaire, 1979, p. 408). Alla banalità del sogno
naturale e delle visioni drogate, Baudelaire opponeva il
carattere divino e rivelatorio del "sogno assurdo,
imprevisto, senza rapporto n‚ connessioni con il
carattere, la vita e le passioni del dormiente": il
"sogno geroglifico". Da quest'ultimo erompeva,
secondo Baudelaire, nei segni di un linguaggio strutturato,
ma ancora sconosciuto, la verita' dell'essere, il fondo
mistico della vita: "Nell'ebbrezza dell'hascisch non
v'e' nulla di simile" (Baudelaire, 1979, p. 409). Ma
non solo. Usare la droga per pensare e creare meglio,
inevitabilmente portava, secondo Baudelaire, al non poter
più pensare e creare senza di essa.
Oltre
al deterioramento delle facoltà psicologiche l'hashish
portava, secondo Baudelaire, alla disgregazione e alla
corruzione sociale, in quanto i suoi particolari piaceri
spingevano all'ozio e all'isolamento. Colui che forse meglio
tra gli altri intellettuali conosceva le magnetiche
seduzioni delle droghe, rinnegava così un elemento
fondamentale della sua "maledetta" esistenza. Le
pagine de I paradisi artificiali sono comunque segnate da
vistose e profonde contraddizioni. Baudelaire infatti, pur
denunciando la nefasta azione delle droghe sulla coscienza,
sulla morale e sulla volontà, inneggiava ai divini
rapimenti prodotti dalle sostanze psicoattive. Ciò,
tuttavia, non costituiva un caso singolare della moderna
esperienza drogata. Ne I paradisi artificiali troviamo
infatti descritto in maniera penetrante e paradigmatica
l'atteggiamento ambivalente dell'uomo della civiltà
industrializzata di fronte alle droghe, tra misticismo ed
evasione, tra sacro e voluttuario, tra fascinazione e
terrore.
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