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DSA e autonomia di Stefano Stefanel
Il rapporto
tra Disturbi specifici dell’apprendimento e autonomia
scolastica è una delle più chiare emergenze della scuola italiana,
perché tocca il rapporto tra competenza didattico-educativa e diagnosi
medico-specialistica. Col termine “emergenza” indico due cose diverse:
-
l’emergenza (o
emersione) della consapevolezza che i Disturbi specifici
dell’apprendimento (DSA) sono una caratteristica di molti alunni;
-
l’emergenza nella
gestione dei DSA a fronte dei comportamento dei docenti spesso di
semplice matrice negazionista (“la dislessia non c’entra nulla col
suo disimpegno”, “è distratto”, “non fa i compiti”,
ecc.).
In questo
settore i Dirigenti scolastici sono quelli che stanno forzando il “muro
di gomma” dell’incomprensione, per affrontare in modo adeguato queste
due emergenze, ma i vari ordini di scuola “resistono” davanti a due
“evidenze” difficili da negare:
-
i DSA
ci sono e sono rilevabili anche se non sono certificati;
-
la certificazione indica
una direzione all’autonomia didattica, non impone comportamenti o
valutazioni.
La questione
cioè rientra nel cattivo rapporto tra docenti e autonomia scolastica,
ritenuta invasiva in alcuni campi e troppo poco impositiva in altri.
Così molti docenti attendono “ordini” e “obblighi” per la gestione dei
DSA, riducendo così un problema didattico in una ennesima questione
burocratica.
Credo sia
importante, in primo luogo, collocare la dislessia dentro i DSA non come
disturbo primario, ma come disturbo più facilmente individuabile. Questa
distinzione è di valore primario in quanto un disturbo facilmente
individuabile ne nasconde spesso altro di più difficile lettura. Ma
disgiungere la dislessia dagli altri disturbi (disgrafia, discalculia,
disattentività, iperattività, ecc.) significa chiudere il proprio
orizzonte davanti al primo ostacolo visibile. Inoltre va anche osservato
che mentre la dislessia è un disturbo abbastanza accettato in quanto
tale, disgrafia, discalculia e disturbi attentivi vengono spesso
derubricati a disordine o disattenzione. Credo quindi sia necessario
collocare il ragionamento sulla dislessia dentro quello più vasto dei
DSA, al fine di affrontarli tutti in modo organico.
Nelle scuole
che dirigo un insegnante è referente per i DSA e gestisce il
monitoraggio su tutti gli alunni certificati. Inoltre tiene i rapporti
con i genitori e con i certificatori. Ho cercato di gestire a livello di
sistema l’emergenza e la novità, perché ritengo che la parcellizzazione
non aiuti a comprendere quanto la recente legge 170 dell’8 ottobre
2010. Il lavoro è difficile e trova molto ostacoli, ma l’aver dato
veste istituzionale chiara alla gestione dei DSA non facilita coloro che
vorrebbero minimizzare o disconoscere il problema.
La lentezza
però delle fasi formative e l’attaccamento di molti docenti, soprattutto
di scuola secondaria, alla certificazione, non permettono di elaborare
vere strategie d’insieme per entrare nel problema DSA e ricondurlo alla
sua naturale apertura verso strumenti di supporto affinché l’alunno non
abbia a subire conseguenze eccessive da una problematicità facilmente
assorbibile. C’è l’idea che solo se certificato un alunno è toccato dai
DSA, mentre il disturbo esiste anche senza certificazione e prima lo si
“prende in mano” e meglio è.
L’alunno ha
bisogno di interventi organici e sistematici, non di un certo buonismo o
di una “comprensione” che conclude nella valutazione tutta l’attenzione
verso i DSA. E soprattutto non ha bisogno che i DSA vengano affrontati
attraverso ordini di servizio, obblighi o adempimenti, come troppi
docenti tendo a chiedere. Questo presuppone una notevole formazione e la
comprensione che la soluzione di problemi didattici ed educativi non è
mai di tipo medico. La corsa alla certificazione dell’handicap delle
scuole italiane non indica un desiderio di integrazione, ma una volontà
palese a spostare sul versante medico i problemi didattici o educativi.
Spostare tutto questo sui DSA porta solo complicazioni e non soluzioni.
Se un alunno ha la certificazione ai sensi della 104/92 per lui si
approva un Piano personalizzato che spesso è lontanissimo dalla
didattica di classe. La cosa grave è che molti docenti definiscono
alcuni alunni “non certificati”, ma poi li trattano da normodotati. Se
lo stesso alunno avesse una certificazione avrebbe una
personalizzazione, dato che non ce l’ha deve seguire un “programma” che
l’insegnante stesso sa non essere in grado di seguire.
La
questione dei DSA è una delle questioni che possono cambiare la scuola
italiana se affrontata nel modo giusto. E’ necessario però agire a
livello di sistema e quindi partendo dall’organizzazione scolastica e
non solo dalla sensibilizzazione dei singoli docenti. L’autonomia
scolastica trova nella gestione degli alunni con Disturbi specifici
dell’apprendimento (DSA) uno dei
suoi banchi di prova più inediti ed interessanti. Questo perché scopre
che la sua tendenza burocratica non aiuta nella soluzione dei problemi,
a cominciare da quello delle certificazioni, che nel caso dei Dsa è
demandata a specialisti che non necessariamente operano nelle Asl, nei
Distretti o negli Ambiti sanitari o nelle strutture deputate al supporto
dell’handicap. Questo crea in molti dirigenti e docenti una sorta di
“sindrome da certificato”, che fa focalizzare l’attenzione sul soggetto
certificatore e non sull’alunno certificato. La burocrazia italiana non
vuole arrendersi e comprendere che l’autonomia scolastica è stata
pensata ed organizzata per diminuire consistentemente
la burocrazia, concentrando risorse e attenzioni sui problemi e sulle
loro risoluzione e non sulla creazione di documentazioni formalmente
ineccepibili, ma spesso inutili. Davanti ad un caso di disturbo non si
può sottilizzare sul soggetto che lo ha certificato, arrogandosi la
capacità di decidere se il soggetto è competente o meno, ma bisogna
agire professionalmente per dare all’alunno il maggior supporto
possibile.
Gli alunni
con DSA richiedono diagnosi sintetiche e corrette fatte dalla scuola dal
punto di vista didattico, anche senza supporto medico. La separazione
tra diagnosi medica e diagnosi didattica permetterà alla scuola di
intervenire anche sui disturbi minimi, in forma tempestiva, e ad
attivare interventi più consistenti anche di tutela valutativa davanti a
diagnosi mediche. Questo è un punto dirimente: se si attende la
certificazione anche davanti ad un distuirbi palese ci si ferma
all’involucro burocratico e non si va nella sostanza didattica. La
diagnosi “medica” è di competenza di coloro che professionalmente sono
abilitati a farla, la diagnosi didattica è di competenza della scuola.
Pensiamo poi agli stranieri con famiglie disagiate o povere e al loro
rapporto con certificazioni mediche complesse: sembra quasi che un
albanese o un ghanese non possa venir aiutato dalla scuola se la sua
dislessia non viene certificata, anche la sua famiglia non sa neppure di
cosa si stia parlando (spesso anche per insormontabili problemi
linguistici).
E’ importante
che la scuola progetti interventi che garantiscano all’alunno affetto da
DSA di raggiungere comunque gli obiettivi propri della scuola che
frequenta e di consolidare apprendimenti duraturi. La complessità dei
DSA richiede interventi trasversali e sistematici, che difficilmente
possono avere una consistenza disciplinare. La multi e
pluridisciplinarietà sono la base di partenza ovvia per lavorare attorno
ad una persona che convive con difficoltà nate da disturbi non
invalidanti. Credo che il metodo migliore per entrare nella dimensione
di un alunno con DSA sia quello di cercare di portare il suo disturbo a
contatto in primo luogo con la vita reale e non con i programmi
scolastici. Per imparare a leggere forse sono meglio testi impegnativi,
ma di cui il soggetto percepisce immediatamente l’importanza e la
portata, piuttosto che testi che prevedono ampi spazi di memorizzazione
ed astrazione. Credo che un dislessico si trovi più a suo agio con la
spiegazione su come si usa un I’Pad o un I’Pod che con una poesia o un
testo narrativo complesso. Così ritengo che l’alunno toccato dalla
discalculia debba essere orientato a calcolare costi e ricavi visibili
legati al suo patrimonio personale, prima di essere messo a contatto con
formule difficili e astrusi calcoli mnemonici. E questo credo sia
necessario farlo sia in presenza di una diagnosi medica, sia in presenza
di una diagnosi didattica, dunque solo documentale, della scuola.
Interessante sarebbe poi verificare se i “registri” attraverso cui si
cerca di insegnare le lingue comunitarie in Italia (ascolto, lettura,
scrittura, comunicazione orale) non siano troppi anche per un alunno non
toccato dai DSA. Io credo che un dislessico o un disgrafico almeno uno
dei quattro registri citati lo possa padroneggiare bene, magari anche
solo per osmosi. D’altronde la selezione delle metodologie sta alla base
dell’autonomia scolastica e come tale dovrebbe essere coniugata nella
redazione dei curricoli d’istituto. Nel caso delle lingue comunitarie si
assiste comunque ad una divaricazione tra lo sviluppo delle
certificazioni linguistiche europee e le valutazioni di conoscenze e
abilità italiane, che non
collocano la lingua straniera nel semplice spazio della sua veicolarità.
Nel caso dei DSA l’approccio con le lingue o è di tipo solo veicolare o
diventa un semplice elemento di dispersione.
Credo sia
necessario concentrare il lavoro dei dipartimenti delle scuole
secondarie e delle programmazioni delle scuole primarie sulle scelte
selettive e non sull’assemblamento di saperi. In questo momento i DSA si
stanno frangendo su un’interpretazione spaesata dell’autonomia
scolastica: molte scuole sono come il protagonista del
Deserto dei Tartari di Dino
Buzzati, perché attendono ordini che non arrivano mai. Affrontare i DSA
con ordini o diagnosi mediche è una questione priva di senso che
l’autonomia didattica dovrebbe spazzare via, ma se qui ne stiamo
parlando vuol dire che l’obiettivo è lontano da essere raggiunto. La
scuola degli adempimenti avrebbe dovuto da molto tempo cedere il passo
alla scuola dell’autonomia (e della governance), ma l’emergenza DSA
mostra tendenze a burocratizzare, a rendicontare, a descrivere, e poche
procedure snelle ed esportabili per intervenire.
Credo sia
necessario agire in termini di “rubrica e ricerca-azione”, non in
termini di diagnosi e prognosi, perché la “scoperta” dei DSA se vissuta
correttamente può diminuire una delle cause della dispersione. Se mi
sarà possibile in un prossimo intervento approfondirò il rapporto tra
rubrica e ricerca-azione, che io vedo particolarmente efficace nella
gestione degli alunni con DSA.
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