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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo

Ricerca

 

DISABILITA' Analizzate in una ricerca le reazioni delle famiglie alla nascita di un figlio disabile

 

Famiglie e figli con handicap. La patologia da parto crea emotività e problemi alla coppia; più razionale l'approccio in caso di malattia genetica

 

L'arrivo di un figlio è aspetto positivo che, comunque, altera gli equilibri di coppia e all’interno della famiglia. La nascita di un figlio con disabilità è evento che disattende spesso fantasie e speranze, tanto che la scelta di mettere al mondo un figlio diventa in questi casi un fattore critico. E spesso la relazione di coppia viene messa a dura prova, creando conflitti o amplificando un disagio già esistente.


Il servizio di psicologia della famiglia dell’Irccs “Eugenio Medea” ha monitorato le diverse reazioni della persona, della coppia e della famiglia in generale alla nascita di un figlio disabile. Lo ha fatto con una ricerca basata su due campioni sperimentali: uno costituito da coppie di coniugi con un figlio di età compresa tra 1 e 16 anni con diagnosi certa di disabilità genetica e con ritardo mentale; l’altro costituito da coppie con un figlio di età compresa tra 1 e 16 anni, affetto da disabilità di origine non genetica e con ritardo mentale (paralisi cerebrale infantile). A ciò è stato aggiunto un campione di controllo costituito da coppie di coniugi con figli sani di cui uno almeno di età compresa tra 1 e 16 anni.


Di certo la disabilità genetica sfida la famiglia a tre livelli: cognitivo, emozionale e comportamentale. E gli obiettivi della ricerca sono stati quelli di identificare delle specificità nelle reazioni dei genitori e nelle relazioni familiari in nuclei con un figlio con malattia genetica rispetto a nuclei con un figlio con paralisi cerebrale infantile. Inoltre, si è cercato di rilevare gli effetti della comunicazione della diagnosi di tipo genetico sul singolo genitore e sulle relazioni familiari, con particolare attenzione alla relazione di coppia.


Già, ma quali i risultati? I dati raccolti hanno evidenziato la presenza di differenze rilevanti nei tre campioni, sia per quel che concerne la personalità, sia per quanto riguarda le variabili relazionali. Quanto al primo aspetto (personalità), è emerso che le coppie con un figlio con malattia genetica tendono a reagire agli eventi con una modalità centrata sulla razionalità più delle coppie del gruppo di controllo. E adottano in misura minore una risposta basata sull’emotività rispetto ai genitori di bambini con paralisi cerebrale infantile.

Dalla ricerca è emerso, inoltre, che nelle coppie con un figlio con malattia genetica il ruolo fondamentale è giocato dalla razionalità, mentre nelle coppie con un figlio con paralisi cerebrale infantile è emersa la presenza la presenza di un’emotività meno controllata.
Quanto alle variabili relazionali, la ricerca ha evidenziato nei genitori con figlio con malattia genetica una maggiore capacità di esprimere al partner i propri sentimenti e una maggiore capacità di perdonare gli errori reciproci, e questo rispetto ai genitori del gruppo di controllo. E per quanto riguarda il clima familiare, dal lavoro è emersa la presenza di un clima meno conflittuale nelle famiglie con figlio con disabilità genetica.


Dunque risultati interessanti, che dipendono in larga misura dal tipo di disabilità del bambino. In definitiva: nei genitori con figlio con paralisi cerebrale infantile vige una modalità di reazione centrata maggiormente sull’emotività. Si tratta di genitori più ‘arrabbiati’, come se il danno ricevuto avesse un colpevole e fosse evitabile. E c’è da dire, comunque, che spesso è così visto che il danno cerebrale insorge in seguito a complicanze avvenute durante il parto, complicanze spesso evitabili. E’ dunque la sensazione del sopruso, della prevaricazione e della negligenza a scatenare il risentimento.


Diversa è invece la situazione per le coppie con figlio con malattia rara. I genitori, in questo caso, non possono imputare ad altri la ‘colpa’ di quanto accaduto e quindi sembrano riuscire ad accettare l’evento, facendosene una ragione. E addirittura sviluppano relazioni migliori delle coppie con figli sani: nei primi, infatti, si è evidenziata una maggiore capacità di perdonare gli errori reciproci e di esprimere al partner i propri sentimenti. Anche il clima familiare, come detto, è meno conflittuale.


I motivi? Per gli operatori la persona umana e la famiglia, se aiutati a comprendere, sviluppano capacità impreviste e alcune persone riescono, dalla tragedia della nascita di un figlio disabile, a trovare la forza per una maturazione personale. La diagnosi certa, dopo lo scoramento iniziale, permette alla famiglia di trovare un nuovo equilibrio. Al contrario l’indeterminatezza conferisce ulteriore precarietà. Ciò per gli operatori ha grande importanza pratica: si individua infatti l’urgenza di una rete di centri specialistici che faccia fronte alla richiesta di diagnosi certe e che aiuti le famiglie nel percorso di cura.

Disabili di 6 anni e più che vivono in famiglia, per sesso e classi di età - Anno 1999-2000
Dati in migliaia

 

E t à

6-14

15-24

25-44

45-64

65-74

75 e più

Totale

Maschi

40

27

81

153

204

389

894

Femmine

40

32

82

209

323

1.035

1.721

Maschi e femmine

80

59

163

362

527

1.424

2.615



Fonte: Istat, Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari, 1999/2000  

La Nostra famiglia

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L'Associazione "La Nostra famiglia" è un’organizzazione non governativa che vanta una lunga esperienza (la fondazione risale al 1946 da parte di don Luigi Monza) nell'ambito delle disabilità dell'età evolutiva, in cui svolge attività di riabilitazione, cura, formazione, istruzione e ricerca. Particolarmente sviluppata quest’ultima, espletata in Italia attraverso l’Istituto “E. Medea” con 4 poli ospedalieri (Lombardia, Veneto, Friuli, Puglia), 320 posti letto ospedalieri e 1720 extraospedalieri; il Medea è tra l’altro il primo Istituto di riabilitazione convenzionato con lo Stato italiano. L’associazione è strutturata in 35 sedi in Italia e all'estero, con 2.000 operatori; complessivamente svolge 850.000 prestazioni all'anno. Negli anni ha sviluppato varie risposte di accoglienza per bambini con difficoltà dovute non necessariamente alla disabilità, sempre in stretto contatto con l’ambiente e le famiglie di origine. Intenso anche il lavoro con i bambini a rischio dei paesi più poveri, attraverso progetti di cooperazione internazionale.

 

Famiglie e figli con handicap.

Madri 'prese' dall'evento, padri più rivolti verso l'esterno

 

Responsabile del progetto di ricerca dell’Irccs “Eugenio Medea” sul famiglie e disabilità è Eleonora Maino. E’ lei che spiega gli aspetti psicologici individuati dal lavoro.

Non solo la diagnosi di malattia rara, ma un qualsiasi tipo di diagnosi che evidenzi a carico di un figlio una patologia cronica, è per i genitori e per tutta la famiglia un’esperienza carica di dolore. Tali questioni si amplificano nel momento in cui ci si sente responsabili per la disabilità del proprio figlio e può succedere che dopo un’iniziale fase di shock e di incredulità, si passi ad una fase in cui emergono vissuti di rabbia, vergogna, ansia, spesso mescolati a senso di inadeguatezza e di colpa, dove l’aspetto più doloroso è il constatare che, in qualche misura, si è implicati nella malattia del figlio. Talora anche la relazione di coppia e le relazioni familiari vengono messe a dura prova e si può anche assistere allo scioglimento dei legami familiari. Molte volte, invece, i genitori, soprattutto se accompagnati in questo processo di adattamento, riescono a trovare le risorse necessarie per riorganizzare le proprie relazioni familiari salvaguardando il benessere di ciascun componente della famiglia”.


Differenze sono emerse anche nel comportamento e nelle reazioni di mogli e mariti. Afferma la dottoressa Maino: “Spesso le madri stabiliscono un rapporto molto stretto con il figlio disabile, all’interno del quale, in modo quasi esclusivo, gestiscono le cure e gli accudimenti necessari al bambino. Sovente tale rapporto è così stretto che le mamme faticano poi a ritagliarsi spazi propri e a concedersi di assumere anche altri ruoli oltre a quello materno. I padri sovente, sembrano più sbilanciati verso l’esterno della famiglia, sono più coinvolti nel lavoro e più preoccupati degli aspetti connessi al sostentamento della famiglia e al garantire al figlio disabile un’adeguata assistenza non solo per il presente, ma anche per il futuro. Dalla ricerca effettuata emerge, inoltre, un maggior bisogno da parte delle mogli di condividere con i mariti i propri vissuti emotivi, mentre gli uomini sembrano più sbilanciati su di un versante più razionale”.
Interessante anche il comportamento dei fratelli... “Le ricerche concordano nel ritenere che avere un fratello con disabilità rappresenta un evento “eccezionale”, imprevisto e non voluto che influenza profondamente non solo la relazione tra fratelli, ma anche lo sviluppo psicologico del fratello sano. Tuttavia le conclusioni sono spesso contrastanti: da un lato diversi studi suggeriscono che alcuni dei fratelli sani di soggetti disabili sono a rischio di disadattamento e di sofferenza psicologica, dall’altro alcune ricerche non confermano in modo univoco la presenza e l'entità di tali rischi, sottolineando, al contrario, anche effetti più complessi, non privi di componenti maturative”.


Aspetto centrale è, infine, quello della comunicazione della diagnosi. Un aspetto molto delicato: si tratta di un ambito in cui entrano in gioco diversi aspetti inerenti “cosa dire”, “quando”, “come”, “a chi” e, infine, “da parte di chi”.

Avere una diagnosi – precisa la Maino - significa per i genitori farsi una ragione del perché il proprio figlio presenti una determinata patologia, in molti casi significa poter prevedere come la malattia evolverà, significa riuscire a stabilire quali sono i percorsi d’aiuto più funzionali e anche poter identificare con maggiore precisione limiti e risorse del proprio figlio. Inoltre se la diagnosi viene data dopo svariate peregrinazioni da uno specialista all’altro, i genitori possono viverla anche come un sollievo, come possibilità per riorientare le loro risorse”.

Ma tutto questo non basta – continua -. Comunicare una diagnosi, soprattutto se è effettuata precocemente, al momento della nascita, implica non solo fornire nel modo più chiaro possibile dei concetti sulla patologia, ma significa anche prestare attenzione al fatto che i genitori sono alle prese con un momento della vita intensamente drammatico. In questo senso sarebbe importante gestire la comunicazione della diagnosi non come unico momento, ma come processo che coinvolga più figure professionali che sappiano da un lato fornire informazioni mediche chiare e specifiche e dall’altro garantire un accompagnamento e un sostegno ai genitori. Occorre, inoltre, sottolineare l’importanza del comunicare la diagnosi ad entrambi i genitori congiuntamente, modalità non sempre usuale nella prassi medica. Comunicare la diagnosi ad uno solo dei genitori significa infatti, da un lato lasciarlo solo in preda al suo dolore, dall’altro lasciargli l’onere di dover comunicare la notizia drammatica all’altro. Inoltre, seppur in seconda battuta, anche gli eventuali fratelli sani del bambino disabile, trovando un modo adeguato all’età, alle capacità e al ruolo da loro rivestito, devono essere messi a conoscenza delle difficoltà del fratello e aiutati a comprenderle”.


Quanto ai supporti per le famiglie, la ricercatrice ha evidenziato tre fasi: nella prima fase, che coincide con il disorientamento e lo shock per la nascita del bambino con malattia genetica, occorre aiutare i genitori a sostenersi reciprocamente e a condividere il loro dolore, dando ad esso un tempo e uno spazio in cui poter essere elaborato. In una seconda fase, che coincide con il superamento dello shock iniziale e, talora, con la comparsa di forti sentimenti di negazione della realtà, occorre aiutare i genitori a costruirsi un’immagine il più possibile realistica del proprio bambino, delle sue risorse e dei suoi limiti. In una terza fase, occorre guidare i genitori nella costruzione del progetto riabilitativo del bambino, in cui essi devono sentirsi protagonisti. “La disabilità del bambino – conclude -, pur essendo un “vincolo”, non necessariamente deve rappresentare anche un limite per l’evoluzione positiva della famiglia”.

Prospetto per regione del numero delle scuole statali con alunni disabili - Anno scolastico 2000-2001

REGIONI

CIRCOLI DIDATTICI E ISTITUTI COMPRENSIVI

TOTALE

DI CUI IST. COMP.

CON SCUOLE MATERNE CON BAMBINI DISABILI

CON SCUOLE ELEMENTARI CON ALUNNI DISABILI

TOTALE

Di cui Ist. Comp.

TOTALE

Di cui con Ist. Comp.

Abruzzo

157

79

113

45

152

75

Basilicata

110

76

70

42

102

68

Calabria

330

193

218

106

317

183

Campania

732

325

520

181

707

304

Emilia R.

314

193

175

105

308

188

Friuli V. G.

99

61

68

37

98

61

Lazio

502

237

345

137

493

230

Liguria

114

36

82

22

111

34

Lombardia

790

505

475

270

785

501

Marche

173

126

134

90

170

123

Molise

58

44

32

18

53

39

Piemonte

386

197

276

131

381

193

Puglia

434

155

363

118

423

145

Sardegna

229

137

171

90

223

131

Sicilia

747

447

519

268

716

418

Toscana

296

164

229

112

289

158

Umbria

88

42

60

20

83

37

Veneto

420

259

232

117

413

254

TOTALE 

5.979

3.276

4.082

1.909

5.824

3.142

Fonte: Dati elaborati dal Centro studi Erickson  


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