DISABILITA'
- Analizzate
in una ricerca le reazioni delle famiglie alla nascita di un
figlio disabile
Famiglie e figli con handicap. La patologia da parto crea
emotività e problemi alla coppia; più razionale l'approccio in
caso di malattia genetica
L'arrivo di un figlio è aspetto positivo che, comunque,
altera gli equilibri di coppia e all’interno della famiglia. La
nascita di un figlio con disabilità è evento che disattende spesso
fantasie e speranze, tanto che la scelta di mettere al mondo un
figlio diventa in questi casi un fattore critico. E spesso la
relazione di coppia viene messa a dura prova, creando conflitti o
amplificando un disagio già esistente.
Il servizio di psicologia della famiglia dell’Irccs “Eugenio
Medea” ha monitorato le diverse reazioni della persona, della
coppia e della famiglia in generale alla nascita di un figlio
disabile. Lo ha fatto con una ricerca basata su due campioni
sperimentali: uno costituito da coppie di coniugi con un figlio di
età compresa tra 1 e 16 anni con diagnosi certa di disabilità
genetica e con ritardo mentale; l’altro costituito da coppie con
un figlio di età compresa tra 1 e 16 anni, affetto da disabilità
di origine non genetica e con ritardo mentale (paralisi cerebrale
infantile). A ciò è stato aggiunto un campione di controllo
costituito da coppie di coniugi con figli sani di cui uno almeno di
età compresa tra 1 e 16 anni.
Di certo la disabilità genetica sfida la famiglia a tre livelli:
cognitivo, emozionale e comportamentale. E gli obiettivi della
ricerca sono stati quelli di identificare delle specificità nelle
reazioni dei genitori e nelle relazioni familiari in nuclei con un
figlio con malattia genetica rispetto a nuclei con un figlio con
paralisi cerebrale infantile. Inoltre, si è cercato di rilevare gli
effetti della comunicazione della diagnosi di tipo genetico sul
singolo genitore e sulle relazioni familiari, con particolare
attenzione alla relazione di coppia.
Già, ma quali i risultati? I dati raccolti hanno evidenziato la
presenza di differenze rilevanti nei tre campioni, sia per quel che
concerne la personalità, sia per quanto riguarda le variabili
relazionali. Quanto al primo aspetto (personalità), è emerso che
le coppie con un figlio con malattia genetica tendono a reagire agli
eventi con una modalità centrata sulla razionalità più delle
coppie del gruppo di controllo. E adottano in misura minore una
risposta basata sull’emotività rispetto ai genitori di bambini
con paralisi cerebrale infantile.
Dalla ricerca è emerso, inoltre, che nelle coppie con un
figlio con malattia genetica il ruolo fondamentale è giocato dalla
razionalità, mentre nelle coppie con un figlio con paralisi
cerebrale infantile è emersa la presenza la presenza di un’emotività
meno controllata.
Quanto alle variabili relazionali, la ricerca ha evidenziato nei
genitori con figlio con malattia genetica una maggiore capacità di
esprimere al partner i propri sentimenti e una maggiore capacità di
perdonare gli errori reciproci, e questo rispetto ai genitori del
gruppo di controllo. E per quanto riguarda il clima familiare, dal
lavoro è emersa la presenza di un clima meno conflittuale nelle
famiglie con figlio con disabilità genetica.
Dunque risultati interessanti, che dipendono in larga misura dal
tipo di disabilità del bambino. In definitiva: nei genitori con
figlio con paralisi cerebrale infantile vige una modalità di
reazione centrata maggiormente sull’emotività. Si tratta di
genitori più ‘arrabbiati’, come se il danno ricevuto avesse un
colpevole e fosse evitabile. E c’è da dire, comunque, che spesso
è così visto che il danno cerebrale insorge in seguito a
complicanze avvenute durante il parto, complicanze spesso evitabili.
E’ dunque la sensazione del sopruso, della prevaricazione e della
negligenza a scatenare il risentimento.
Diversa è invece la situazione per le coppie con figlio con
malattia rara. I genitori, in questo caso, non possono imputare ad
altri la ‘colpa’ di quanto accaduto e quindi sembrano riuscire
ad accettare l’evento, facendosene una ragione. E addirittura
sviluppano relazioni migliori delle coppie con figli sani: nei
primi, infatti, si è evidenziata una maggiore capacità di
perdonare gli errori reciproci e di esprimere al partner i propri
sentimenti. Anche il clima familiare, come detto, è meno
conflittuale.
I motivi? Per gli operatori la persona umana e la famiglia, se
aiutati a comprendere, sviluppano capacità impreviste e alcune
persone riescono, dalla tragedia della nascita di un figlio
disabile, a trovare la forza per una maturazione personale. La
diagnosi certa, dopo lo scoramento iniziale, permette alla famiglia
di trovare un nuovo equilibrio. Al contrario l’indeterminatezza
conferisce ulteriore precarietà. Ciò per gli operatori ha grande
importanza pratica: si individua infatti l’urgenza di una rete di
centri specialistici che faccia fronte alla richiesta di diagnosi
certe e che aiuti le famiglie nel percorso di cura.
Disabili
di 6 anni e più che vivono in famiglia, per sesso e classi
di età - Anno 1999-2000
Dati in migliaia
|
|
E t à
|
6-14
|
15-24
|
25-44
|
45-64
|
65-74
|
75 e più
|
Totale
|
Maschi
|
40
|
27
|
81
|
153
|
204
|
389
|
894
|
Femmine
|
40
|
32
|
82
|
209
|
323
|
1.035
|
1.721
|
Maschi
e femmine
|
80
|
59
|
163
|
362
|
527
|
1.424
|
2.615
|
Fonte: Istat, Indagine sulle condizioni di salute e ricorso ai
servizi sanitari, 1999/2000
La Nostra
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L'Associazione
"La Nostra famiglia" è un’organizzazione non
governativa che vanta una lunga esperienza (la fondazione risale al
1946 da parte di don Luigi Monza) nell'ambito delle disabilità
dell'età evolutiva, in cui svolge attività di riabilitazione,
cura, formazione, istruzione e ricerca. Particolarmente sviluppata
quest’ultima, espletata in Italia attraverso l’Istituto “E.
Medea” con 4 poli ospedalieri (Lombardia, Veneto, Friuli, Puglia),
320 posti letto ospedalieri e 1720 extraospedalieri; il Medea è tra
l’altro il primo Istituto di riabilitazione convenzionato con lo
Stato italiano. L’associazione è strutturata in 35 sedi in Italia
e all'estero, con 2.000 operatori; complessivamente svolge 850.000
prestazioni all'anno. Negli anni ha sviluppato varie risposte di
accoglienza per bambini con difficoltà dovute non necessariamente
alla disabilità, sempre in stretto contatto con l’ambiente e le
famiglie di origine. Intenso anche il lavoro con i bambini a rischio
dei paesi più poveri, attraverso progetti di cooperazione
internazionale.
Famiglie e figli con handicap.
Madri 'prese' dall'evento, padri più rivolti verso
l'esterno
Responsabile del progetto di ricerca dell’Irccs “Eugenio
Medea” sul famiglie e disabilità è Eleonora Maino. E’ lei che
spiega gli aspetti psicologici individuati dal lavoro.
“Non solo la diagnosi di malattia rara, ma un
qualsiasi tipo di diagnosi che evidenzi a carico di un figlio una
patologia cronica, è per i genitori e per tutta la famiglia un’esperienza
carica di dolore. Tali questioni si amplificano nel momento in cui
ci si sente responsabili per la disabilità del proprio figlio e
può succedere che dopo un’iniziale fase di shock e di
incredulità, si passi ad una fase in cui emergono vissuti di
rabbia, vergogna, ansia, spesso mescolati a senso di inadeguatezza e
di colpa, dove l’aspetto più doloroso è il constatare che, in
qualche misura, si è implicati nella malattia del figlio. Talora
anche la relazione di coppia e le relazioni familiari vengono messe
a dura prova e si può anche assistere allo scioglimento dei legami
familiari. Molte volte, invece, i genitori, soprattutto se
accompagnati in questo processo di adattamento, riescono a trovare
le risorse necessarie per riorganizzare le proprie relazioni
familiari salvaguardando il benessere di ciascun componente della
famiglia”.
Differenze sono emerse anche nel comportamento e nelle reazioni di
mogli e mariti. Afferma la dottoressa Maino: “Spesso le madri
stabiliscono un rapporto molto stretto con il figlio disabile, all’interno
del quale, in modo quasi esclusivo, gestiscono le cure e gli
accudimenti necessari al bambino. Sovente tale rapporto è così
stretto che le mamme faticano poi a ritagliarsi spazi propri e a
concedersi di assumere anche altri ruoli oltre a quello materno. I
padri sovente, sembrano più sbilanciati verso l’esterno della
famiglia, sono più coinvolti nel lavoro e più preoccupati degli
aspetti connessi al sostentamento della famiglia e al garantire al
figlio disabile un’adeguata assistenza non solo per il presente,
ma anche per il futuro. Dalla ricerca effettuata emerge, inoltre, un
maggior bisogno da parte delle mogli di condividere con i mariti i
propri vissuti emotivi, mentre gli uomini sembrano più sbilanciati
su di un versante più razionale”.
Interessante anche il comportamento dei fratelli... “Le
ricerche concordano nel ritenere che avere un fratello con
disabilità rappresenta un evento “eccezionale”, imprevisto
e non voluto che influenza profondamente non solo la relazione tra
fratelli, ma anche lo sviluppo psicologico del fratello sano.
Tuttavia le conclusioni sono spesso contrastanti: da un lato diversi
studi suggeriscono che alcuni dei fratelli sani di soggetti disabili
sono a rischio di disadattamento e di sofferenza psicologica, dall’altro
alcune ricerche non confermano in modo univoco la presenza e
l'entità di tali rischi, sottolineando, al contrario, anche effetti
più complessi, non privi di componenti maturative”.
Aspetto centrale è, infine, quello della comunicazione della
diagnosi. Un aspetto molto delicato: si tratta di un ambito in cui
entrano in gioco diversi aspetti inerenti “cosa dire”,
“quando”, “come”, “a chi” e, infine, “da
parte di chi”.
“Avere una diagnosi – precisa la Maino - significa
per i genitori farsi una ragione del perché il proprio figlio
presenti una determinata patologia, in molti casi significa poter
prevedere come la malattia evolverà, significa riuscire a stabilire
quali sono i percorsi d’aiuto più funzionali e anche poter
identificare con maggiore precisione limiti e risorse del proprio
figlio. Inoltre se la diagnosi viene data dopo svariate
peregrinazioni da uno specialista all’altro, i genitori possono
viverla anche come un sollievo, come possibilità per riorientare le
loro risorse”.
“Ma tutto questo non basta – continua -. Comunicare
una diagnosi, soprattutto se è effettuata precocemente, al momento
della nascita, implica non solo fornire nel modo più chiaro
possibile dei concetti sulla patologia, ma significa anche prestare
attenzione al fatto che i genitori sono alle prese con un momento
della vita intensamente drammatico. In questo senso sarebbe
importante gestire la comunicazione della diagnosi non come unico
momento, ma come processo che coinvolga più figure professionali
che sappiano da un lato fornire informazioni mediche chiare e
specifiche e dall’altro garantire un accompagnamento e un sostegno
ai genitori. Occorre, inoltre, sottolineare l’importanza del
comunicare la diagnosi ad entrambi i genitori congiuntamente,
modalità non sempre usuale nella prassi medica. Comunicare la
diagnosi ad uno solo dei genitori significa infatti, da un lato
lasciarlo solo in preda al suo dolore, dall’altro lasciargli l’onere
di dover comunicare la notizia drammatica all’altro. Inoltre,
seppur in seconda battuta, anche gli eventuali fratelli sani del
bambino disabile, trovando un modo adeguato all’età, alle
capacità e al ruolo da loro rivestito, devono essere messi a
conoscenza delle difficoltà del fratello e aiutati a comprenderle”.
Quanto ai supporti per le famiglie, la ricercatrice ha evidenziato
tre fasi: nella prima fase, che coincide con il disorientamento e lo
shock per la nascita del bambino con malattia genetica, occorre
aiutare i genitori a sostenersi reciprocamente e a condividere il
loro dolore, dando ad esso un tempo e uno spazio in cui poter essere
elaborato. In una seconda fase, che coincide con il superamento
dello shock iniziale e, talora, con la comparsa di forti sentimenti
di negazione della realtà, occorre aiutare i genitori a costruirsi
un’immagine il più possibile realistica del proprio bambino,
delle sue risorse e dei suoi limiti. In una terza fase, occorre
guidare i genitori nella costruzione del progetto riabilitativo del
bambino, in cui essi devono sentirsi protagonisti. “La
disabilità del bambino – conclude -, pur essendo un “vincolo”,
non necessariamente deve rappresentare anche un limite per l’evoluzione
positiva della famiglia”.
Prospetto per regione del numero
delle scuole statali con alunni disabili - Anno
scolastico 2000-2001
|
REGIONI
|
CIRCOLI DIDATTICI E ISTITUTI COMPRENSIVI
|
TOTALE
|
DI
CUI IST. COMP.
|
CON SCUOLE MATERNE CON BAMBINI DISABILI
|
CON SCUOLE ELEMENTARI CON ALUNNI DISABILI
|
TOTALE
|
Di cui Ist. Comp.
|
TOTALE
|
Di cui con Ist. Comp.
|
Abruzzo
|
157
|
79
|
113
|
45
|
152
|
75
|
Basilicata
|
110
|
76
|
70
|
42
|
102
|
68
|
Calabria
|
330
|
193
|
218
|
106
|
317
|
183
|
Campania
|
732
|
325
|
520
|
181
|
707
|
304
|
Emilia
R.
|
314
|
193
|
175
|
105
|
308
|
188
|
Friuli
V. G.
|
99
|
61
|
68
|
37
|
98
|
61
|
Lazio
|
502
|
237
|
345
|
137
|
493
|
230
|
Liguria
|
114
|
36
|
82
|
22
|
111
|
34
|
Lombardia
|
790
|
505
|
475
|
270
|
785
|
501
|
Marche
|
173
|
126
|
134
|
90
|
170
|
123
|
Molise
|
58
|
44
|
32
|
18
|
53
|
39
|
Piemonte
|
386
|
197
|
276
|
131
|
381
|
193
|
Puglia
|
434
|
155
|
363
|
118
|
423
|
145
|
Sardegna
|
229
|
137
|
171
|
90
|
223
|
131
|
Sicilia
|
747
|
447
|
519
|
268
|
716
|
418
|
Toscana
|
296
|
164
|
229
|
112
|
289
|
158
|
Umbria
|
88
|
42
|
60
|
20
|
83
|
37
|
Veneto
|
420
|
259
|
232
|
117
|
413
|
254
|
TOTALE
|
5.979
|
3.276
|
4.082
|
1.909
|
5.824
|
3.142
|
Fonte:
Dati elaborati dal Centro studi Erickson