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Gli scalini di Prodi e il (falso) conflitto generazionale L'accordo raggiunto è necessariamente un compromesso,in una
condizione di forte pressione politica. di Antonio Lettieri Lo scalone era un’idiozia diventata legge per l’abuso di un governo che disponeva di una maggioranza esorbitante in Parlamento. Era una legge talmente incongrua e forzata che la sua applicazione fu rinviata di alcuni anni per aggirare un confronto diretto e immediato con i sindacati e il non lontano confronto elettorale. Che dovesse essere abolita era una questione di igiene politica e sociale. Non meno di quanto lo sia l’abolizione della legge elettorale imposta dallo stesso governo che aveva promosso lo scalone. L’accordo raggiunto fra il governo Prodi e i sindacati è necessariamente un compromesso. Rifondazione e una parte della CGIL ne danno una lettura critica sulla base del fatto che diluisce gli effetti dello scalone, ma non evita un sostanziale innalzamento dell’età pensionabile: a regime, dal 2013, 61 anni (62, se si assume il tradizionale parametro dei 35 anni di anzianità contributiva). La critica è comprensibile. Ma nessuno può ignorare che il compromesso è stato trovato nel mezzo di un attacco concentrico al governo nel tentativo di farlo cadere, e in presenza di uno scontro nella stessa (effimera) maggioranza di governo. In ogni caso, l’accordo non conclude la vicenda della riforma pensionistica. Padoa Schioppa apprezza l’accordo in quanto risolve la questione della sostenibilità finanziaria del sistema. Ma cosa dire della sostenibilità sociale? Quale sarà la pensione dei giovani lavoratori di oggi? Sarà sufficiente o ne condannerà una vasta parte a una vecchiaia segnata dall’indigenza? E, se questo rischio esiste, a chi deve essere imputata la responsabilità? Vi è all’origine un conflitto intergenerazionale? Bisogna ristabilire a questo proposito alcuni elementi di verità che il dibattito corrente tende a oscurare. Secondo l’ultimo rapporto dell’OCSE sui sistemi pensionistici (luglio 2007), le riforme del sistema pensionistico operate in Italia sono state le più radicali e incisive fra tutte quelle praticate nell’Unione europea. In nessun altro paese europeo la sequenza delle riforme che si sono succedute negli anni 90 ha comportato una riduzione complessiva dei trattamenti pensionistici altrettanto rilevante. Vediamo più nel dettaglio. Le riforme del passato decennio hanno progressivamente innalzato l’età per la maturazione del diritto alla pensione con 35 anni di lavoro; hanno ampliato il numero degli anni sui quali si calcola la pensione con la conseguente riduzione del tasso di sostituzione rispetto all’ultimo salario; e, soprattutto, hanno eliminato l’indicizzazione delle pensioni all’andamento dei salari. Quest’ultimo elemento riduce di anno in anno il valore della pensione rispetto alla media del reddito nazionale. A dieci anni dalla data del pensionamento, il valore della pensione è ridotto, in condizioni normali del 20 per cento. Poi, con l’avanzare dell’età, la pensione di milioni di pensionati tende a scendere al di sotto della soglia di povertà, pari al 60 per cento del reddito medio. Quanti sostengono che i pensionati attuali, o quelli che in pensione stanno per andare, sono dei privilegiati a danno delle nuove generazioni affermano una palese menzogna. I pensionati di oggi sono i lavoratori che a cavallo fra gli anni 50 e 60 si sono assunti il carico della ricostruzione del paese fino al "miracolo economico". Sono quelli che hanno contribuito alla trasformazione del paese da agricolo a industriale, prima, e che, successivamente, hanno pagato il prezzo più alto della ristrutturazione industriale degli anni 70. Poi, quando sono arrivati all’età della pensione, il susseguirsi delle riforme aveva significativamente ridotto le promesse previdenziali, per le quali avevano pagato 35 o 40 anni di contributi. Il conflitto intergenerazionale che pretende di contrapporre i vecchi pensionati di oggi ai giovani pensionandi di domani è una pura mistificazione con la quale si tende a mascherare altre cause delle diseguaglianze presenti nel nostro paese, e che gravano particolarmente sui giovani. I numeri possono servire a fare un po’ di chiarezza. La spesa pro-capite per prestazioni sociali fra il 1994 e il 2004 è aumentata nell’Unione europea mediamente del 22,8 per cento e in Italia del 18,3. Non basta: facendo pari a 100 la spesa pro-capite per prestazioni sociali a livello europeo, quella italiana è diminuita in dieci anni dall’81,3 al 76,4. (si veda /Rapporto sullo stato sociale/ a cura di Roberto Pizzuti – UTET, 2007). In questo contesto la spesa pensionistica che, secondo le previsioni ufficiali, era destinata, per i riflessi del baby boom, a una forte ascesa, fino a toccare in prospettiva il 23 per cento del PIL, è rimasta ferma tra il 13 e il 14 per cento. Nello stesso arco di tempo, l’età media di pensionamento, dopo anni di progressiva crescita, è oggi solo di alcuni mesi al di sotto della media europea. Con l’accordo l’età minima arriva, in linea generale, a 61 anni entro il 2013. E’ ragionevole ipotizzare che rapidamente l’età media di pensionamento in Italia avrà superato la soglia europea. Quando Giannini scrive su Repubblica che i 65 anni generalmente previsti in Europa (come, del resto, in Italia) rimangono una "chimera" confonde una soglia virtuale con i dati reali. Nella maggior parte dei paesi, infatti, l’anticipazione della pensione è prevista sotto la fattispecie di una pensione di inabilità. Prendiamo la Svezia che ha adottato lo stesso modello pensionistico di tipo contributivo presente in Italia. L’età del pensionamento per vecchiaia è fissata a 65 anni, ma circa il 30 per cento delle pensioni sono erogate in anticipo sotto la voce di invalidità. E’ un modo indiretto di prendere in considerazione la difficoltà di continuare un lavoro che per le sue caratteristiche di pesantezza, disagio, inabilità fisica non può essere prestato oltre una certa età. Una situazione analoga si verifica in Danimarca, Finlandia, Olanda - paesi ai quali è diventato di moda riferirsi, quando si elogia la flexcurity. Mentre la situazione si inverte in Francia dove l’età di pensionamento per vecchiaia è fissato a 60 anni, e la categoria dell’invalidità ha conseguentemente scarsissimo peso. Il problema delle nuove generazioni non sta dunque nei privilegi di chi va oggi in pensione, ma nel rapporto fra le pensioni future e il mercato del lavoro col quale i giovani debbono confrontarsi. A parità di contributi versati, il sistema contributivo avrebbe gli stessi rendimenti del vecchio sistema retributivo riferito all’intero arco della vita lavorativa. La differenza a danno dei giovani è negli scenari occupazionali segnati da precarietà, discontinuità del lavoro e del salario, alternanza di periodi di disoccupazione non protetta ad altri di sottoccupazione, di periodi di lavoro pseudo-autonomo ad altri di lavoro subordinato. Ai giovani lavoratori di oggi, come alle generazioni passate, si chiede un risparmio previdenziale (il pagamento di contributi) che ha una doppia funzione: serve a pagare le pensioni in atto della generazione di lavoratori precedenti e a costituire la base per la loro pensione futura – e questo è vero per tutti i sistemi a ripartizione diffusi nel mondo. Sostenere che in futuro il sistema è destinato al fallimento, o a non adempiere agli obblighi previsti, è una falsificazione che, a forza di essere ripetuta non solo a destra ma da autoproclamati riformisti di sinistra, assume le sembianze di un fatto incontrovertibile. Gli esempi di questo tipo di metamorfosi tra realtà e popaganda ideologica non mancano. Negli Stati Uniti, il sistema della Social Security, il sistema pensionistico pubblico con copertura universale, deve essere per legge in equilibrio a lungo termine. Secondo il CBO - la Commissione del Congresso per il bilancio - il sistema pensionistico pubblico rimarrà in equilibrio fino al 2052 e, con pochi aggiustamenti, per i prossimi 75 anni. Ma l’attacco portato al sistema pubblico, con un potente dispiegamento dei mezzi di comunicazione di massa, dal complesso bancario-assicurativo a favore del passaggio al sistema privato a capitalizzazione, si è dimostrato così poderoso e invasivo da convincere il 65 per cento dei giovani interpellati in un sondaggio del Washington Post che non avrebbero mai ricevuto una pensione dalla Social Security, essendo il sistema pubblico destinato al fallimento. /./ Insomma, la questione pensionistica è parte di un più vasto scenario sociale caratterizzato da precarietà, bassi salari, insicurezza del futuro. Se il mercato del lavoro è sempre più selvaggio,le future pensioni rifletteranno questa condizione. Da questo punto di vista, l'accordo fra governo e sindacati prevede alcuni primi interventi diretti a garantire una certa continuità del reddito e della contribuzione (figurativa) nelle fasi di disoccupazione. Ma, da un lato, si tratta di un primo avvio di aggiustamenti che ci lasciano ancora molto lontani dai sistemi di welfare europei. Dall'altro, il tentativo di alleviare i disagi legati alla condizione di precarietà è contraddetto platealmente dalla sostanziale conferma della normativa del lavoro a termine come modello principe del lavoro precario per eccellenza. L'anno scorso i giovani si sono ribellati in Francia di fronte al tentativo del governo francese di instaurare un regime biennale di lavoro a termine; in Italia è confermata una durata fino a tre anni con possibilità di prolungarlo. La beffa si aggiunge al danno, quando sentiamo riformisti di destra e di sinistra fare l'apologia della flessibilità - che è più appropriato chiamare deregolazione - del mercato del lavoro come strumento di sostegno ai giovani. Sono questi i problemi che gravano sui giovani, non i supposti privilegi dei loro padri. La condizione di instabilità e di ansia dei giovani è sempre più utilizzata per liquidare quanto rimane di tutela nei luoghi di lavoro e nella difesa dell’occupazione, considerando queste cose come il riflesso di una concezione arcaica che sopravvive a difesa delle vecchie generazioni. La contrapposizione, per quanto artificiosa e strumentale, tra giovani e vecchi è un tema da non sottovalutare. Soprattutto non deve essere sottovalutato dal sindacato, a cui spetta il compito di una grande campagna di orientamento e di immaginazione politica e organizzativa per ampliare la propria rappresentanza fra i giovani e le donne che, negli ultimi anni, sono entrati in forza nel mercato del lavoro. Il problema, infatti, non è la "fine del lavoro", come si era profetizzato, ma le sue nuove forme di sfruttamento. Sono tutti problemi che non possono essere strumentalmente confusi, e che in termini chiari, trasparenti e distinti dovrebbero costituire il terreno di confronto di una politica riformista. Disgraziatamente, riformisti di destra e sedicenti di sinistra preferiscono mascherare i problemi veri con quello inventato e pretestuoso del conflitto intergenerazionale. |
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