La situazione di
gravità (1)
di
Vito Piazza
E per il grave? E’ la stessa
legge 104/92 che definisce
la situazione di gravità, all’art. 3:
[…..]qualora la minorazione singola o plurima abbia ridotto
l’autonomia personale correlata all’età, in modo da rendere necessario
un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella
sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume
carattere di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità
determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi
pubblici.
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Ci sono almeno due
modi di considerare la gravità, e questo dipende dal punto di vista
adottato.
Punto di osservazione A. Parto dalla gravità: questo ragazzo è proprio
grave, è totalmente dipendente dall’adulto, non sa far niente, capisce
poco o nulla, il massimo che ci si può aspettare è che riesca in
qualche modo a sopravvivere. Il danno è irreversibile, perciò
incurabile. La compromissione è tale che nessuno può far niente.
Conseguenze: basso livello di aspettative, basso livello di richieste,
linguaggio ridotto all’essenziale come quello degli indiani: <<Tu fare
questo, io buono con te>>.
Punto di osservazione B. Parto dal principio che anche il grave ha –
ontologicamente – una mente, delle capacità residue: questo ragazzo è
sì grave, ma <<qualcosa>> dentro di lui c’è ed è almeno in grado di
compiere un movimento, un gesto, un sorriso, prova delle emozioni.
Questo è ciò che abbiamo davanti, quello da cui possiamo partire: non
è molto, ma è sempre meglio di niente.
Conseguenze: aspettative positive, linguaggio ricco accompagnato da
gesti, ricerca di linguaggi alternativi e di obiettivi che peschino
non solo nel cognitivo, ma che mirino anche a migliorare la qualità
della vita dell’alunno disabile, facendo crescere autosufficienza e
autonomia.
Certo, in una scuola superiore, ci sarebbero delle conseguenze
negative in riferimento al programma. Bisogna scegliere: o si sta
dalla parte del programma, o si sta dalla parte della persona.
La sentenza della Corte
Costituzionale n 215 del 1987 è un modello di chiarezza al
riguardo:
Per i minorati d’altra parte – a
dimostrazione della speciale considerazione di cui devono essere
oggetto – il perseguimento dell’obiettivo ora indicato non è
stato dal costituente rimesso alle sole considerazioni generali.
L’art. 38, terzo comma, prescrive infatti che gli <<inabili e i
minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento
professionale>>.
Attesa la chiara formulazione della norma, che sancisce un
duplice diritto, non potrebbe dedursi dalla sua collocazione nel
titolo dedicato ai rapporti economici che essa garantisca
l’educazione solo in quanto funzionale alla formazione
professionale e che, quindi, esclusivamente per questa via sia a
tali soggetti assicurato l’inserimento nella vita produttiva: se
così fosse, il primo termine sarebbe superfluo. Certo la seconda
garanzia – che nei confronti dei portatori di handicap trova
specifica attuazione nella legge-quadro in materia di formazione
professionale, attraverso la prescrizione alle regioni di
<<idonei interventi>> atti ad assicurarne <<il completo
inserimento nell’attività formativa e favorirne la integrazione
sociale (art. 3, lettera m, L. 845/78) – ha per costoro
fondamentale importanza, specie per quei casi di handicap gravi
e gravissimi per i quali risulti concretamente impossibile
l’apprendimento e l’integrazione nella scuola secondaria
superiore: impedimenti che peraltro – alla stregua di quanto si
è detto, e in coerenza con quanto chiaramente prescrive, per la
scuola dell’obbligo, l’art. 28 della legge 118 del 1971 – vanno
valutati esclusivamente in riferimento all’interesse
dell’handicappato e non a quello ipoteticamente contrapposto
della comunità scolastica, misurati su entrambi gli anzidetti
parametri (apprendimento inserimento) e non solo sul primo e
concretamente verificati alla stregua di già predisposte
strutture di sostegno, senza cioè che la loro permanenza possa
imputarsi alla carenza di queste. Se, quindi, l’educazione che
deve essere garantita ai minorati ai sensi del terzo comma
dell’art. 38 è cosa diversa da quella propedeutica o inerente
alla formazione professionale – che si rivolge a chi ha assolto
l’obbligo scolastico o ne è stato prosciolto (art. 2, secondo
comma, legge n. 845 del 1978) è d’obbligo ritenere che la
disposizione sia da riferire alla educazione conseguibile anche
attraverso l’istruzione superiore . Benché non si esaurisca in
ciò, l’educazione è infatti l’effetto finale complessivo e
formativo della persona in tutti i suoi aspetti, che consegue
all’insegnamento e all’istruzione. |
La lunga citazione
appare giustificata dalle acute osservazioni effettuate dai giudici –
e non dai pedagogisti – i quali hanno saputo indicare la via che
individua nella persona il fine dell’educazione.
In un ipotetico configgere d’interessi, la Corte è chiara: hanno
precedenza i diritti della persona e non quelli dei programmi.
E poi il principio di fondo: impedire all’alunno disabile il
proseguimento degli studi, in nome di un’ipotetica e pessimistica
gravità cronica, significherebbe operare un processo alle intenzioni,
significherebbe stabilire a priori il destino di un individuo,
significherebbe impedire la continuità dell’individuo e delle
occasioni di apprendimento e socializzazione.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 215/87 ha <<cassato>> l’art.
28 della legge 118/70, che stabiliva che la frequenza per il disabile
nelle scuole superiori doveva essere <<facilitata>>.
La sentenza della Corte sostituisce all’espressione <<sarà
facilitata>> la dizione <<sarà assicurata>>.
Perciò il problema: <<sono importanti le materie o la persona
disabile?>> è in realtà un problema malposto. Le discipline, come il
sapere, come le abilità (saper fare) e i comportamenti (saper essere)
non sono valide in se stesse, a prescindere dalla loro utilità alla
crescita dell’uomo e allo sviluppo delle sue potenzialità in un quadro
partecipativo di solidarietà e di democrazia. La sentenza della Corte
– spiega l’O.M. 193 del
2/06/1989 – afferma che:
[….] gli alunni con handicap non
possono considerarsi irrecuperabili e l’integrazione giova loro
non solo ai fini della socializzazione ma anche
dell’apprendimento e una sua artificiosa interruzione, facendo
mancare uno dei fattori che favoriscono lo sviluppo della
personalità, può portare rischi di arresto del processo di
crescita, quando non di regressione. Inoltre l’art. 34 della
Costituzione, nel sancire che la scuola è aperta a tutti, si
rivolge chiaramente agli alunni con handicap non solo fisico ma
anche psichico. |
Non si possono far
scattare dallo stesso nastro di partenza un nano e un gigante. La
sentenza della corte è ispirata al principio secondo cui l’interesse
dello studente disabile a uno sviluppo armonico della persona <<deve
essere considerato prevalente rispetto a supposti interessi configge,
ad esempio di natura organizzativa, della comunità scolastica>>.
Il ruolo degli insegnanti si esplica nel ricercare la mediazione
didattica adatta a rendere facile ciò che appare difficile, a far
scendere le materie dell’alto delle nuvole al basso della vita di ogni
giorno.
Anche tu hai un ruolo in tutto questo, specie per quanto riguarda il
raggiungimento dell’autonomia.
Quando ci chiediamo: <<Perché proprio tutti bambini, anche quelli con
ritardo mentale grave, dovrebbero frequentare le classi normali?>>,
poniamo una domanda fondamentalmente sbagliata. Lo stesso avviene
quando ci domandiamo: <<Che benefici potrà trarre un bambino talmente
grave da non avere neppure il controllo degli sfinteri nel frequentare
la scuola insieme agli altri bambini della sua età?>>. L’unica domanda
che invece ci dovremmo porre è: <<Che cosa bisogna fare perché questo
bambino possa frequentare bene la stessa classe dei suoi coetanei?>>.
E’ con questo interrogativo, infatti, che dirigiamo la nostra
attenzione e le nostre energie su ciò che è più importante: come
sostenere tutti gli alunni senza distinzione, in una classe che
accolga e integri tutti.
Non è solo un’opinione di Stainback.(2) No. Non è solo una loro
opinione.
E’ una legge dello Stato italiano.
Anzi: di più di una legge.
Integrare tutti nella scuola di tutti è un obbligo per tutti.
Lo stabilisce la costituzione.
Lo impone la sentenza della Corte Costituzionale n. 215/87.
Lo ribadisce la legge 104 del 1992.
(1) da “Per chi suono la
campanella?” Erickson
(2) William Stainback e Susan Stainback, La gestione avanzata
dell’integrazione scolastica, Trento, Erickson, 1993.
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