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di Raffaele IosaDomenica 14 dicembre, al mattino presto, Katerina*, poco più di 10 anni, arriva in aereo a Forlì, provenienza aeroporto di Minsk, Bielorussia. Arriva assieme ad altri duecento bambini orfani che vengono accolti per due mesi e mezzo da brave famiglie romagnole. La povertà e la catastrofe di Cernobyl sono dietro a questa catena di amicizia nella quale noi italiani siamo molto presenti. Ho conosciuto la storia di Katerina per caso, nei miei giri di ispettore. La sua classe viene ormai da quattro anni a Ravenna, con le maestre bielorusse, e ne è nata una storia semplice e intensa. Ma Katerina finora non è mai venuta. Lei rimaneva da sola nell’orfanotrofio, triste e desolata, per una ragione che mi ha toccato. Katerina è orfana due volte: lo è dei genitori, ma lo è anche di patria, perché non è bielorussa, è lituana e fino a poco tempo fa non aveva i documenti in ordine per ottenere un semplice espatrio per un breve soggiorno. Nei milioni di schegge impazzite dell’esplosione dell’Unione Sovietica, Katerina è un granello che la burocrazia rende invisibile. In attesa di sapere chi è, Katerina non ha mai ricevuto una lettera, non ha nessuno che va a trovarla, nessuno le telefona. Katerina non c’è. Cresce così, svegliata ogni mattina da una campanella piuttosto che da una carezza. Cresce in un tempo di infanzia vuoto e che non tornerà. Eppure è amata dai compagni, che quando tornano dall’Italia le portano tutti qualcosa. Ed è molto amata dalle famiglie di Ravenna che li accolgono. Da anni cercano di uscirne trafficando tra spaventose burocrazie. ministeri e consolati. Ma finalmente questa volta i documenti sono a posto e Katerina potrà passare il suo primo Natale in una famiglia, assieme per due mesi. Domenica Katerina arriva. E ad attenderla come famiglia ospitante saremo mia moglie Rita e io.
Non è stato così scontato, per me, entrare nell’associazione ravennate che organizza questa azione di solidarietà. Io non ho esperienza di volontariato, ho sempre preferito la politica. Ho ormai 50 anni, sto diventando nonno, ho un buon lavoro, faccio buone ferie in montagna a sciare e buoni viaggi in Europa in estate. Perché tenermi in casa per cinque mesi all’anno una bambina di cui non so nulla, venendo a sapere man mano i tanti guazzabugli giuridici e i traffici non tutti nobili che da tutte le parti ci sono verso gli orfani del pianeta? Certo questa associazione di Ravenna è di tutt’altra pasta. E’ gente strana, tutta post-sessantottina, mediamente di ceto medio, della mia età, non nevrotica e con il gusto tutto romagnolo della vita. Gente seria, che fa le cose gratis per ragioni le più semplici e che non hanno bisogno di Freud. Ha chiamato “Piccolo Mondo” questa loro esperienza. Piccolo, mi pare giusto, con la maiuscola. Ma perché proprio a me doveva capitare l’incanto di una storia umana che mi ha rapito?
Non lo saprò mai dire con parole parlate. Il fatto è che da quando ho conosciuto la storia di Katerina è scattato un espresso inesprimibile: il mio destino personale, tanto o poco, doveva incrociarsi con il suo. Che quel poco o tanto che io e mia moglie potevamo fare doveva esserle donato. E per questo ci siamo buttati a capofitto in un’avventura di cui ancora provo il piacere dello spavento. Sono qui, a tre giorni dal suo arrivo, a dirmi che lei a me non deve niente, ma che io devo molto per lei, che non ho intenzione di trovarmi un surrogato di figlia, né di mettere alla prova una bambina se mi va bene o no. Sono qui, a tre giorni dal suo arrivo, a dirmi che vorremmo darle affetto del tutto gratuito, una sorta di risarcimento tenero dei tanti lutti interiori che Katerina ha subito nella sua vita senza genitori e senza patria, bastarda di lingua e di radici. Non vorremmo da lei nulla in cambio, ci basterà sapere che Katerina sappia che al mondo, per una volta, ci sono due adulti che le vogliono bene comunque e nonostante tutto, e che sono disposti a darle a gratis un po’ d’amore. Mi incanta questo desiderio di dono, che non so dire in altri modi che così.
E’ in corso da qualche mese la nostra inziazione a Katerina con dei rituali che non mi erano noti. Abbiamo raccolto, davanti alla Coop, alimenti con i quali abbiamo riempito un intero TIR che due mesi fa è arrivato all’Istituto. Eh, sì, perché i miei amici ravennati non si accontentano di tenersi i bambini qualche mese all’anno. Non adottano questi bambini, ma hanno adottato l’istituto e aiutano quei poveracci e disgraziati di Bielorussi a cercare di mantenere i propri figli. Ci ho messo del mio per progettare il soggiorno scolastico, cose così. Stiamo lavorando anche per creare case-famiglie lì, in modo che escano dai collegi, stiamo lavorando anche per borse di studio per i più grandini. Stiamo: verbo magnifico, me ne sono accorto scrivendo. Sono parte di un’esperienza di dono che non ha prezzo e che nessun Pil descriverà mai. Ho scoperto, grazie a Katerina, la Politica. Da una settimana siamo alla Coop a confezionare i pacchetti dono natalizi, per averne in cambio un obolo che ci è utile a sopportare il disastro che c’è dall’altra parte. Piccola goccia nel mare del disastro. Ma goccia, acqua, non chiacchiera. Non cambia il mondo, ma Katerina e i suoi amici possono averne il rifacimento dei bagni, che sono sfasciati.
Tra di noi facciamo anche strane sedute di autocoscienza. Ma perché facciamo tutto questo? Quali vuoti ci riempie? Ognuno di questi miei nuovi amici ha storie e percorsi i più diversi, ha voglia di parlare anche di sé, ma poi alla fine si parla solo di loro. Dei bambini. C’è una sorta di doppio sentimento: l’emozione figlia dell’indignazione per un mondo così sfasciato verso i bambini, l’emozione di un bambino che sta con noi. C’è una soffusa, leggera aria di gratuita paternità e maternità in adulti come me che di figli ne hanno avuto pochi, di carriera o di storia personale molta, ma che nella maturità sembrano cercare desideri essenziali. Come quello di fare il caffelatte ad un bambino nella quiete della cucina, piuttosto che lasciarlo a bere latte avariato dai nano curie in un refettorio. Gesti semplici. Lenti e profondi.
L’altro giorno, a fare la spesa, ho incontrato una collega di avventura bielorussa e a forza di chiacchierare di loro, mi è saltato il numero per la spesa di salumi e formaggi. Quando ho detto all’alimentarista che ci eravamo distratti a parlare di bambini, ci ha risposto che aveva ascoltato tutta la storia e che voleva anche lei saperne di più. Forse anche lei accoglierà un bambino. Anche agli assessori piace questa vicenda, e alle maestre italiane, piace alla città. Ci impegniamo per cose strane. Come una cena bielorussa aperta al pubblico. L’altro giorno prova generale. Mah! Dal comunismo della mia giovinezza a Katerina, alla salumiera che sbircia le mie parole e si commuove. C’è un nesso, non c’è dubbio, c’è un nesso. Non so bene tutto il nesso che c’è, ma c’è. Ed è, se mi capisco, la ricerca di un senso che mette insieme amore e giustizia. Ma detto così mi pare perfino troppo razionale. C’è un più profondo che lascio al silenzio di ogni lettore.
So bene che sui bambini c’è tutto e il suo contrario e so bene che queste esperienze di affidamento sono figlie di un’emergenza planetaria e che dovrebbero essere fatte in modo più sistematico. Per esempio aiutando la Bielorussia a sapersi tenere i propri bambini. Ma intanto il tempo passa e Katerina ha il suo tempo bambino che passa una volta sola. Per questo mi pare giusto fare così. Quanto avrebbe da imparare la politica da tutto questo!
Ovviamente abbiamo preparato la cameretta, un orsacchiotto di peluche sul copriletto, una piccola scrivania (in fondo resto un intellettuale), qualche piccolo ricambio già acquistato. Ma le sue cose andremo a comprarle con lei, rifuggendo il più possibile dal consumismo, cercando un’accoglienza lenta, a sua misura, senza colpirla con effetti speciali. Un po’ alla volta, gratis per noi e per lei. Katerina non ha mai visto il mare. Questa è la cosa che, ripresasi dalla sbornia del viaggio, vorremmo farle vedere, ed incantarci dei suoi occhi incantati dalla vastità liquida, imparando ad ascoltarla. Un po’ di italiano pare lo sappia, i suoi amici le stanno facendo ripetizione. Anche l’albero di Natale faremo con lei, ma uguale a quello che facciamo tutti gli anni, in genere io e mia moglie litigando se ci vanno o no anche i cioccolatini (per via della mia ciccia).
Sento, inutile negarlo, che siamo travolti dall’orgoglio delle cose semplici, l’essenziale che si fa vita. Con Katerina il politico si fa privato e il privato si fa politica. La scoperta che c’è al mondo un’attesa di incanto. Un Natale dove si nasce al mondo buono, se buono è ancora una categoria esprimibile. Ecco, sentirsi buoni. Vi pare poco? Mi spiace parlare di un evento privato, ma questo è un articolo anche di pedagogia e di politica. Penso ai nostri bambini, alle loro troppe cose, non faccio confronti ma penso. Penso che se al mondo ci fosse più paternità e maternità in tutti, anche in chi non è genitore, e se pensassimo che l’infanzia passa una sola volta, non perderemmo tempo con le riforme clamorose, con le tante ginnastiche-yoga-balletto-tv con le quali adultizziamo i nostri bambini, ma ci staremmo più attenti, li terremmo più vicini a noi, ascolteremmo i loro silenzi. Cercheremo nell’aria, nella luce, nel pane, nel fumo dei camini, sensi più interessanti delle nostre vuote sguaiate parole. In questo giorni, ad esempio, sono indignato dal fatto che in tutte le scuole della mia zona, la presentazione della scuola ai nuovi genitori si chiami open day, che è come fare la scuola bred end breakfast. Non è più affascinante storpiare “dobryi dien, Katerina!” in un improbabile russo per salutarla? Ma quale proporzione c’è tra questa sciocca globalizzazione dei nostri obesi bambini post moderni e la storia di Katerina? Come fermarsi solo a dire? Io faccio pacchetti regalo alla Coop per rifare i bagni, accidenti!
Ma, tre ore fa, è arrivata la tremenda telefonata che non volevo. All’ambasciata italiana hanno fatto storie sui documenti di Katerina. Non le hanno dato il visto. Pare, sembra, per questioni burocratiche. Per il governo bielorusso è tutto a posto, ma al consolato hanno detto no, anche se due mesi fa avevano detto sì, Ero a casa solo. Mi sono sentito solo al mondo. Solo e incollato alla solitudine di Katerina alla quale la burocrazia del mondo non rende possibile passare un Natale con noi. Questo Natale per lei passa una volta sola. Il suo Natale dei suoi 10 anni. Io ricordo bene il Natale dei miei dieci anni. Magico, con mio padre tranviere che inventava scene sulla befana e un albero di Natale povero ma con le candeline vere (e i cioccolatini, ovviamente). All’ambasciata italiana a Minsk non c’era nessuno. Mi hanno detto di telefonare domani. Ma sono spaventato per l’ingranaggio infernale che temo troverò con telefonate a duemila chilometri di distanza. Almeno sono italiani e qualcosa dirò. Ma stanotte, come si fa a dormire? In questa notte non sono io a soffrire, ma penso al suo desiderio di partire, alle fantasie che mi raccontano ha fatto, al tradimento che sta subendo. Un Natale rubato. Domani sarà una mattina tremenda. Per lei. Per il suo tempo che passa e non tornerà. Naturalmente farò di tutto. Farò anche il passaporto, perché se non parte lei, partiremo noi. Come si fa a restare a casa? Katerina, mia cara, il destino non ti rubi l’incanto del tuo tempo bambino, che passa una volta sola e non torna più. Piango il tuo sonno che non sa ancora. Arriveremo, comunque, ma quando? Perché sei tu la vita mia, oggi, e nella vita tua quella di tutti i bambini come te che per le tante stupidità degli adulti, stupidità di tutti i tipi, lasciano marcire la tua infanzia nel tradito desiderio di una radice, di uno sguardo, di una carezza, di un sereno silenzio. Non cambierò il mondo, ma noi un giorno ti incontreremo. Gratis. Ma intanto gli adulti ti stanno rubando un Natale.
Ravenna, 11 dicembre 2003, ore 21,00.
Katerina* è un nome di fantasia, ma la storia –tutta- è assolutamente vera. Se qualcuno, leggendo questa storia, pensa di potermi aiutare (magari perché conosce un ministro o sa di un ambasciatore o altro) mi aiuti. Non lo ringrazierò, lo amerò. A parlare e ad aiutarmi su Katerina non mi disturberete mai al rafiosa@tin.it . Ma fate presto, l’aereo per Forlì parte domenica 14, e ce n’è solo un altro domenica 20 dicembre. E poi la fine di un tempo che non tornerà. |
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