La legge sulla dislessia
Aumenta la sensibilità legislativa?
di Margherita Marzario
Abstract: L’Autrice propone un commento ed un’analisi
testuale della recente legge n. 170 dell’8 ottobre 2010 in materia di
disturbi specifici di apprendimento in ambito scolastico, mettendone in
luce ispirazione di fondo ed incongruenze terminologiche.
Dopo una limitata produzione legislativa regionale sui
D.S.A. (disturbi specifici dell’apprendimento), di cui il primo esempio
è stato la legge regionale n. 20 del 12/11/2007 della Regione
Basilicata e l’ultimo la legge regionale n. 16 del 04/03/2010 della
Regione Veneto, è stata finalmente emanata la legge statale 8 ottobre
2010 n. 170 “Nuove norme in materia di disturbi specifici di
apprendimento in ambito scolastico”.
Un
intervento normativo molto atteso cui vanno riconosciuti, oltre
l’evidente traguardo giuridico e sociale, alcuni meritevoli elementi
testuali. Tra questi spiccano
le definizioni a carattere divulgativo
dell’art. 1; la rubrica dell’art. 4 “Formazione nella scuola” che
considera l’interezza della scuola come comunità; l’attenzione per i
familiari, di cui all’art. 6, denominati appunto
con l’espressione “familiari” che richiama
direttamente la famiglia e il suo ruolo unico ed insostituibile (in
coerenza con l’art. 16 “Valorizzazione e sostegno delle responsabilità
familiari” della L. 328/2000 “Legge quadro per la realizzazione del
sistema integrato di interventi e servizi sociali” e l’art. 50 “Misure a
sostegno della flessibilità di orario” del D. lgs. 198/2006 “Codice
delle pari opportunità”); l’umanizzazione del diritto (anche se dovrebbe
essere superfluo utilizzare quest'espressione
perché il diritto, per sua natura, è per
l’uomo), come si evince dalle locuzioni dell’art. 1 comma 1 “limitazione
importante per alcune attività della vita quotidiana” e dell’art. 2
lett. c “ridurre i disagi relazionali ed emozionali”; il valore
dell’educazione, come si arguisce dall’uso della locuzione “strategia
educativa” nell’art. 5 comma 2 lett. a e nella rubrica “Misure educative
e didattiche” dell’art. 5, in cui l’educazione è anteposta alla
didattica; la richiesta di efficacia (cui sarebbe stato meglio
aggiungere, per incisività, “efficienza ed effettività”) nell’art. 5
(comma 2 lett. a e comma 3). Apprezzabile anche il richiamo al rango di
scuola della scuola dell’infanzia (art. 3 comma 3 e art. 4 comma 1).
Indirettamente col riconoscimento legislativo dei D.S.A. si riscoprono
gli obiettivi tradizionali della scuola “leggere, scrivere e far di
conto” rilevanti non solo per il curricolo scolastico, quello esplicito,
ma per ogni forma di curricolo a cominciare da quello latente, perché
“scrivere, leggere, proprio come vivere, sono un continuo esercizio
della propria libertà e delle possibilità da essa mostrate”[1]e
sono finalizzati ad “imparare a leggere il libro della propria vita” (la
più importante “realizzazione grafica” e “transcodifica” della vita).
Come affermava anche Gabriele D’Annunzio: “Scrivere è per me il bisogno
di rivelarmi, il bisogno di risonare, non dissimile dal bisogno di
respirare, di palpitare, di camminare incontro all’ignoto nelle vie
della Terra”. Col leggere, scrivere e far di conto si favoriscono lo
svolgimento della personalità (art. 2 Costituzione), il pieno sviluppo
della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 comma
2 Costituzione).
Non mancano, però, alcune sviste o incompletezze da
parte del legislatore, che avrebbe potuto evitarle ove fosse stato
attento alle previgenti leggi regionali.
Opinabile è il titolo stesso della legge sia per la
formulazione (“nuove norme”: perché nuove?) sia perché ha considerato
solo l’ambito scolastico trascurando che l’apprendimento non è solo un
percorso scolastico, ma abbraccia tutta la vita. Contraddittoriamente
nell’art. 2 lett. h si menziona l’”ambito sociale e professionale”.
Soprattutto ai fini di un’equità intragenerazionale e
intergenerazionale, la clausola interpretativa del comma 7 dell’art. 1
avrebbe potuto essere più ampia e far riferimento non solo ai quattro
disturbi elencati, ma anche agli altri approdi delle conoscenze
scientifiche visto che sono riconosciuti già altri disturbi quali la
disnomia.
Nell’art.
2 lett. a si parla di “diritto all’istruzione” e non anche di “diritto
alla formazione” mentre, poi, nell’art. 2 lett. g ci si riferisce al
“percorso di istruzione e formazione”; nell’art. 2 lett. b si evoca
soltanto il
“successo scolastico”, mentre sarebbe stato più
opportuno riferirsi al più completo “successo formativo”. Anziché
“promuovere lo sviluppo delle potenzialità” (art. 2 lett. b) sarebbe
stato più corretto usare il termine “capacità” in quanto, come qualcuno
ha rilevato, le potenzialità non sono valutabili a differenza delle
capacità (quelle capacità che lo stesso legislatore ha nominato
nell’art. 2 lett. h). Nell’art. 2 lett. e è criticabile la dizione
“preparare gli insegnanti e sensibilizzare i genitori” perché
distinguendo il target degli insegnanti da quello dei genitori si
tralascia la dimensione di “comunità educante” e poi il concetto di
“preparare” è stato superato da quello di “formare”.
Nell’art. 3 si parla di “regioni nel cui territorio
non sia possibile effettuare la diagnosi” demandandola a “specialisti o
strutture accreditate”, invece di prevedere un adeguamento o
potenziamento del sistema socio-sanitario regionale (come previsto nella
legge regionale del Veneto) per evitare l’esodo sanitario già tanto
diffuso.
Nell’art. 4, a proposito della
formazione nella scuola,
intendendo la formazione in senso pieno e non meramente “adeguata
preparazione”, si poteva estendere questa previsione rendendola anche
campagna di informazione e sensibilizzazione
per altri destinatari (quelle campagne previste, invece, in altre leggi
riguardanti i diritti della persona), quali rappresentanti di genitori,
degli studenti delle scuole secondarie di secondo grado o altre figure
che operano nella scuola o con la scuola, rivitalizzando in tal modo il
ruolo della scuola stessa
(quel ruolo ridefinito nel D.P.R. 8 marzo
1999 n. 275 sull’autonomia delle istituzioni scolastiche). Per rendere
efficace (quell’efficacia di cui all’art. 5) “la competenza per
individuare precocemente i segnali e la conseguente capacità di
applicare strategie didattiche, metodologiche e valutative adeguate”
(art. 4 comma 1) si poteva pure prevedere l’inserimento delle attività
per i casi potenziali di D.S.A. nel Piano dell’offerta formativa
(P.O.F.) (come ha fatto la legge regionale della Valle d’Aosta).
Nell’art. 5 lett. a in luogo di “didattica
individualizzata e personalizzata” sarebbe stato sufficiente e più
corretto menzionare la “didattica personalizzata”.
Discutibile
nell’art. 5 comma 2 lett. b la formula
“prestazioni non essenziali ai fini della
qualità dei concetti da apprendere”, perché l’apprendimento non è solo
concettuale, l’insegnamento-apprendimento è una relazione tra persone
in cui qualsiasi prestazione si può rivelare
essenziale ed inoltre la valutazione della qualità è relativa; quindi
questa parte poteva essere formulata diversamente o evitata menzionando
solo le “misure dispensative”.
Abusata in tutto l’articolato
l’espressione impersonale “misure”, che poteva essere sostituita o
maggiormente intervallata con altre più idonee, quali “strategie” o
“provvedimenti”, in particolare “interventi” che mette in risalto il
calarsi “in mezzo” al problema. Altresì censurabile il riferimento al
profilo di “studente” (tra l’altro, i bambini sono scolari
e non ancora studenti) o tutt’al più di
“soggetto” e non alla persona come, invece, nelle leggi regionali della
Lombardia e del Veneto.
Le locuzioni “percorsi
didattici riabilitativi”, “diagnosi”, “recupero didattico mirato”, pur
essendo diffuse in gergo, fanno venire in mente disabilità per le quali
è necessario l’insegnamento di sostegno. E’ bene ribadire che i D.S.A.
non sono patologie, ma difficoltà compensabili che “possono costituire
una limitazione importante” (come affermato nell’art. 1 comma 1), sono
una componente dell’identità e della diversità (che è
concetto già implicito nel primo) della
persona;
“limitazione” che ha caratterizzato anche persone
illustri che si sono affermate in tempi in cui non vi era alcun
riconoscimento o tutela per i dislessici, come Leonardo da Vinci e
Einstein.
Ancor più censurabile è,
infine, la clausola di invarianza finanziaria dell’art. 9, classico
esempio di ipocrisia legislativa. C’è da chiedersi perché si continua ad
emanare leggi sui diritti della persona in un periodo di aspri tagli
alla spesa solidaristica, alla luce di quanto accaduto già per leggi
precedenti che alimentano false speranze e restano delle mere
dichiarazioni di intenti come, per esempio, la legge 38/2010 in materia
di cure palliative e terapia del dolore che dopo alcuni mesi dalla
promulgazione stenta ad avere attuazione (come evidenziato in
un'interrogazione parlamentare del 20 ottobre 2010). Ci si dimentica del
dovere di solidarietà sancito nell’art. 2 della Costituzione che
richiama i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e
sociale”. Con le
precise
scelte politiche e legislative bisogna ridare
significato a questi pregnanti significanti ricordando che la
solidarietà dà solidità alla società.
[1] “La dimensione narrativa
della vita” di Giovanni Cucci in La Civiltà Cattolica n.
3845 del 4 settembre 2010 p. 362.
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