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I LIVELLI ESSENZIALI DI ASSISTENZA SOCIOSANITARI
Paolo Da Col*
Ogni giorno di più l'argomento dei livelli essenziali di assistenza (Lea) diventa attuale e rilevante. Apparentemente esauritasi una prima fase che ha portato alla ribalta quelli attinenti alle prestazioni sanitarie, a mio modo di vedere accettati e applicati con molto minor dibattito (o clamore) di quello che ci si sarebbe ragionevolmente dovuti attendere, rimane oggi ancora del tutto aperta la partita su quelli sociosanitari e su:quelli sociali (Liveas). Vicenda non piccola, sia per le fasce di popolazione coinvolte - tutte, per defInizione, in stato di fragilità e debolezza -, sia per gli aspetti economicofinanziari (ordine di grandezza, secondo alcune stime, di oltre 40 mila miliardi di vecchie lire), sia per la molteplicità (complessità) degli interlocutori che siederanno al tavolo delle trattative (enti locali e aziende sanitarie). A ben guardare, l'applicazione dei livelli essenziali di assistenza sanitari elencati in Gazzetta Ufficiale (Gu) produrrà cambiamenti ben inferiori - salvo «impazzimenti regionali» - a quanti non ne potrebbero generare quelli socio sanitari e sociali. E allora va subito affermato con chiarezza che questi cambiamenti attengono innanzitutto alla sfera dei diritti di cittadinanza da garantire più che del numero delle prestazioni da assicurare, o del livello di spesa da contenere. Concretamente: se si è preoccupati di non vedere più erogate alcune prestazioni ambulatoriali di riabilitazione (dall'esito molto incerto) o di chirurgia estetica (ma davvero devono essere a carico del Servizio sanitario nazionale?), oppure di veder sparire qualche giornata di degenza in ospedale per Drg (Diagnosis related groups, raggruppamenti omogenei di diagnosi) «spazzatura» «<mali di schiena e gastriti» non ben definite), che dire del fatto che persone in gravi condizioni di debolezza (ad esempio disabili gravi, persone non autosufficienti) potrebbero rischiare di perdere (potenzialmente per sempre) la possibilità di cure, in assistenza domiciliare o residenziale, in fase estensiva (molti mesi!) o di lungoassistenza (molti anni!)?
Ciò che stupisce maggiormente è la quasi assenza di dibattito pubblico sull'argomento. Come mai non basta il richiamo alla problematica dei diritti civili e sociali da rispettare, e invece la preponderante attenzione cade oggi sugli aspetti del volume dei costi? Almeno questa fosse rivolta al tema dell'appropriatezza di molte di tali spese e all'efficienza di produzione dei servizi! Tanto più ci si meraviglia, inoltre, per il fatto che decisioni di grande rilevanza sono prese senza aver nemmeno tentato di udire non solamente la voce dei cittadini, ma spesso poco o per nulla quella degli addetti ai I lavori.
Questi appunti riassumono sinteticamente tre giorni di lavori seminariali cui hanno partecipato operatori di molte regioni italiane, sia di aziende sanitarie che di amministrazioni comunali o provinciali. Tale resoconto deriva dall'idea, rafforzatasi nel corso dei lavori, che la Fondazione Zancan, in coerenza con le sue finalità e con la sua già cospicua mole di documenti sull'argomento, inizi a produrre una serie di documenti utili alla presentazione e all'approfondimento del tema in dibattiti pubblici o ai tavoli di lavoro degli esperti e dei decisori politici. Documenti quindi brevi, agili, di facile comprensione e lettura. Gli obiettivi: stimolare la riflessione e l'approfondimento; rendere l'argomento più comprensibile anche attraverso l'acquisizione di un linguaggio comune, focalizzando i termini in uso; allargare il dibattito su basi valide dal punto di vista tecnico-scientifico e consentire a una platea ben più vasta di quella attuale di partecipare a una materia a prima vista sterilmente «burocratica». Il tono di questa esposizione potrebbe quindi apparire di «basso profilo», talora a scapito di una perfezione formale, ma ciò avviene per scelta consapevole.
Contrariamente a quanto la stampa ha fatto intendere (provvedimenti «salvaspesa» di questo governo), l'argomento dei livelli essenziali non è emanazione di un governo di «colore» diverso dal precedente, ma discende invece da progenitori illustri. Già la legge n. 833/78 aveva introdotto il concetto di livelli uniformi di assistenza, ben ripresentati però anche nell'art. 1 del d.l. n. 502/92 (firmato da Amato, De Lorenzo, Barucci) (ex c. 4: «livelli da individuare sulla base anche di dati epidemiologici e clinici, con la specificazione delle prestazioni da garantire a tutti i cittadini, rapportati al volume delle risorse a disposizione»). Nel successivo d.l. n. 517/93 (firmato da Ci ampi, Garavaglia, Barucci), si legge (art. 1, comma a), <<i livelli di assistenza da assicurare in condizioni di uniformità sul territorio nazionale e i relativi finanziamenti di parte corrente e in conto capitale sono stabiliti dal Piano sanitario nazionale, nel rispetto degli obiettivi della programmazione socio-economica nazionale e di tutela della salute individuati a livello internazionale e in coerenza con l'entità del finanziamento assicurato al Servizio sanitario nazionale»; e più oltre, al punto g: «[Il Piano sanitario nazionale indica] i finanziamenti relativi a ciascun anno di validità del piano in coerenza con i livelli uniformi di assistenza». Dunque sembra allentarsi l'enfasi isolata sul mero aspetto economico. E arriviamo al più recente d.l. n. 299/99, preceduto dal Piano sanitario nazionale (Psn) 1998-2000. Qui i Lea sono presentati quale manifestazione della volontà del servizio sanitario, finanziato da denaro pubblico, di erogare esclusivamente prestazioni «che effettivamente servono per produrre salute», rispettando le tre nuove parole chiave: appropriatezza, evidenza scientifica, qualità. Nella logica di fondo che i primi sprechi da evitare sono quelli dei consumi inutili. Si cita solamente un passo a titolo di esempio: «La regione determina, sulla base dei criteri posti dall'atto di indirizzo e coordinamento di cui al comma 3, il finanziamento per le prestazioni sanitarie a rilevanza sociale) sulla base di quote capitarie correlate ai livelli essenziali di assistenza» (d.l. 229, art. 3-septies, comma 6). In conclusione, nell'arco di sei anni la rotta oscilla significativamente, passando da un approccio sostanzialmente monetario a un altro sensibilmente centrato sulla salute e sui diritti. E oggi?
In una sorta di conferenza di consenso, nel corso del seminario ci si è soffermati in dettaglio sul significato e sulle intenzioni dei tre termini: <<livelli», «essenziali», «di assistenza». Si è cercato di comprendere e approfondire cosa/quanto sia in essi più o meno implicitamente contenuto, per convergere su di un linguaggio comune appropriato, evitare di cadere in facili fraintendimenti, già eccessivamente favoriti dalla stampa o da esuberanti interviste di alcuni personaggi politici. Alla ricerca di un approccio univoco all' argomento, si propone l'uso dei tre termini nelle accezioni e riferimenti qui illustrati.
Su questo punto il dibattito è proceduto spedito, senza grandi equivoci: al gruppo non è sembrato esistano sinonimi sostitutivi, possibilità di termini alternativi, per cui non si incorre nel rischio di usare termini diversi, impropri o altro. Perché dunque il termine «livelli»? Come ricordato prima, riguardo ai contesti e significati giuridici, nel vocabolo è bene cogliere un aspetto fondamentale: con <<livelli» si fa riferimento a un concetto (e alla realtà) di gradualità degli interventi o, meglio, a quello di soglia variabile di accesso. È molto rilevante questo concetto di «soglia», perché in tal modo i livelli (e le prestazioni incluse) si configurano in un aspetto dinamico, modificabile; questi livelli sono quindi aggiornabili a seconda dell'introduzione di nuove tecniche e opzioni assistenziali, oppure - soprattutto! - della disponibilità di nuove risorse, oppure ancora in base all'esito dei confronti tra amministratori-decisori e cittadini-stake holders (aspetto dei diritti e delle garanzie). È questa soglia che si configura (e va discussa) come eventualmente «minima»: quando/quanto servizi e prestazioni incluse sono idonei a garantire dignità e qualità di vita delle persone e delle famiglie in condizioni di svantaggio, a conferire pari opportunità di usufruire delle occasioni di progresso e di progetti per il futuro? Il concetto di soglia come «confine» di diritti esigibili racchiude in sé l'aspetto quantitativo e qualitativo delle prestazioni e dei servizi erogati, che saranno quindi non più minimi, bensì essenziali e uniformi rispetto a un criterio ispiratore. Inoltre, la soglia è definita per un aspetto e una visione globale della persona, per un insieme di prestazioni e servizi, più che per singole specifiche voci; ciò ha attinenza con l'aspetto dell'assistenza globale alla persona, più che della sommatoria di singole prestazioni erogabili e fruibili (come si dirà più avanti).
Questo attributo genera attualmente ancora confusione: «essenziali» è sinonimo di <<minimi»? Di «uniformi»? Non dovrebbe essere così. Innanzitutto l'essenzialità» fa riferimento all'«essenza» dei diritti della persona. Durante i primi anni novanta il criterio fondamentale era stato quello dell'uniformità dell'offerta dei servizi (principio dell'uguaglianza) nell'esercizio del diritto alla salute, da cui si era generata la distribuzione del Fondo sanitario nazionale (Fsn) per quota pro capite. Questa aveva l'obiettivo di riequilibrare la spesa per abitante, ma non quello di soddisfare in modo adeguato i bisogni, ovvero di garantire le stesse condizioni di accesso al sistema sanitario e/o lo stesso livello di salute. Alla fine degli anni novanta cambiano i criteri di ripartizione, per tenere conto dei livelli qualitativi dell'offerta e delle condizioni di salute (principio dell'equità). Sancire un diritto non equivale automaticamente ad avere identificato chi si fa carico del dovere di salvaguardarlo. Di conseguenza oggi il termine «essenziale» dovrebbe fare riferimento a categorie di servizi o prestazioni (quindi atti e azioni concrete sulla persona in stato di bisogno) considerati nel modo seguente. - Necessari, perché attinenti a diritti (pur condizionati) costituzionalmente tutelati e garantiti per assunzione di responsabilità pubblica, pur se non necessariamente sempre e totalmente gratuiti, per tutti i cittadini, senza esclusione o discriminazione alcuna. È evidente che in tutto questo è contenuto un preciso giudizio politico. - Appropriati, perché congrui rispetto a un bisogno non auto-interpretato e riferito, ma che si intende valutato con la mediazione di tecnici, per farlo emergere da una soggettività e anche dal rischio di una sottovalutazione per incapacità della persona a riconoscere i propri bisogni (si pensi, ad esempio, alle persone decontrattualizzate, in primis alle persone con disturbo mentale grave). In questo aspetto va colta l'ineludibilità del giudizio tecnico nella valutazione del bisogno. - Di provata efficacia, come documentabile dalla letteratura e dall'evidenza scientifica, e di verificabile efficienza, in quanto l'erogazione avviene secondo standard definiti di impiego ottimale delle risorse assegnate (concetto di economicità: non si sottolinea mai abbastanza la rilevanza del tema della conoscenza dei costi delle decisioni da parte degli operatori). - Uniformi, perché garantiti su tutto il territorio nazionale e per tutte le persone (equità); è chiaro che la regionalizzazione dei servizi, a seguito della riforma del titolo V della Costituzione o di una più spinta devolution, rappresenta un forte elemento di criticità a riguardo. - Sostenibili dalle risorse assegnate dalla collettività al sistema di copertura pubblica: in merito si ricorda che purtroppo contestualmente alla definizione del decreto sui Lea sociali non sono state stabilite con pari chiarezza e precisione (e quindi certezza per il cittadino, l'operatore o l'amministratore dell'ente pubblico) le fonti e le modalità di finanziamento, a differenza di quanto avviene, ad esempio, nel Psn 1998-2000 nella definizione della quota capitaria. A ciò si collega, e andrebbe approfondito contestualmente, il problema dei fondi integrativi, in cui sono da coinvolgere gli enti locali, da considerare lo strumento che potrebbe colmare il divario bisogno-domanda-offerta. Va poi sempre definita, coerentemente, la quota di compartecipazione di spesa a carico del cittadino, notoriamente spesso elevata nei servizi sociosanitari e con aspetti contraddittori in un sistema di servizi pubblici alla persona che vuole (vorrebbe, ma per quanto ancora?) essere universalistico e solidaristico, pur con elementi di selettività. Né si scordi che questa selettività (e dalla definizione della soglia di cui sopra - vedi i livelli) discende anche dall'entità della compartecipazione alla spesa degli utenti. Va qui citata e colta l'esigenza di risolvere e superare le contraddizioni attuali tra prestazioni/ servizi erogati nel medio-lungo termine in ambito sanitario (gratuitamente o quasi per l'utente, indipendentemente dal reddito; si veda ad esempio la reiterata «lungodegenza» inclusa nel livello ospedaliero, oppure anche l'assistenza domiciliare, del tutto e sempre gratuita se di tipo sanitario), in ambito sociale (assistenza residenziale per gli anziani non auto sufficienti, dal costo fortemente dipendente dal reddito della persona o dei civilmente obbligati) o in ambito sociosanitario (mix tra le due situazioni). - Compatibili con l'allocazione delle risorse negli altri settori del sistema di protezione e benessere sociale (al di fuori di quelli peculiarmente «socioassistenziali», ad esempio casa, trasporti, viabilità, lavoro, istruzione, previdenza ecc.).
Da quanto fin qui esposto si dovrebbe poter facilmente evincere che si tratta dunque di livelli essenziali di assistenza e non certo di spesa; la spesa dovrebbe seguire infatti la determinazione dei bisogni e delle modalità di loro copertura, collegandosi alla scelta di assicurare le risorse necessarie ex ante, non ex posto Dovrebbero quindi essere livelli di spesa comunque garantiti per «quella» determinata tipologia di bisogno e conseguente assistenza, individuata e qualificata come irrinunciabile. Altro discorso è invece identificare gli standard organizzativi di produzione ed erogazione dei servizi quale momento di controllo della spesa e conseguente possibile contenimento dei costi. Tuttavia, a questo proposito è necessario introdurre non solamente indicatori di struttura e di processo (da rendere obbligatori da subito), ma anche di esito (outcome) di tali azioni, da adottare eventualmente in una fase successiva, a funzionamento consolidato dei servizi. Ma verso quale assistenza? Nel seminario si è posto l'accento su: assistenza come insieme coordinato continuativo unitario e globale di azioni positive sulla(e) persona(e) - quindi integrate tra di loro - svolte da vari settori produttivi; senz'altro da quello istituzionale - sanitario, sociale, sociosanitario - ma anche da quello informale (terzo settore). Le prestazioni e i servizi considerati nei <<livelli» elencati nelle tabelle della Gu devono infatti costituire un insieme unitario incluso in un «contenitore» unico e coerente, in cui queste reciprocamente si correlano, interagiscono e si integrano, con il fine ultimo di farli giungere in maniera unitaria alle persone con bisogni complessi (ovvero prestazioni inscindibilmente legate tra loro, spesso indistinguibilmente a rilevanza sociale o sanitaria). Il decreto ministeriale individua tali azioni appartenenti a tre macro ambiti, da cui ne discende l'obbligo di ricollocare e saper riconoscere al loro interno ciascuna delle prestazioni erogate da un servizio/struttura: ambulatoriale o domiciliare; residenziale; semiresidenziale- intermedio. Tuttavia, i partecipanti al seminario suggeriscono di aggiungere un quarto macroambito, di pari rilevanza: prevenzione sulla collettività. Al momento non è stabilito in quale area organizzativa si posizioni e con quale copertura finanziaria, ma in esso già si identificano dei microlivelli di ambito di intervento (ad esempio in specifici gruppi di persone: anziani, minori, disabili ecc.). Assistenza in quanto attiene ad attività agite nell'ambito di un'organizzazione a questo scopo dedicata, volta a dare risposte concrete, appartenente a un particolare settore produttivo di servizi alle persone, in cui è richiesta la presenza di specifiche competenze tecnico professionali (il concetto collegato è quello dell'accreditamento); poiché ci troviamo nel subsistema sociosanitario, necessariamente l'integrazione diventa prerequisito ed elemento cruciale, strumento irrinunciabile per la continuità delle cure. Assistenza come organizzazione dell'offerta (output) coerente con le risorse e i fattori produttivi impiegati (input) ma, fattore innovativo, in grado di misurare gli esiti attesi (outcome). A riguardo si è rilevato che l'offerta dei servizi sociali e sociosanitari inclusi nei Lea deve oggi soprattutto risolvere l'ostacolo del «fattore tempo di intervento»: la tempestività delle azioni, il pronto intervento per una concreta capacità di (re)agire in modo contestualmente conseguente all'insorgenza dello stato di bisogno in persone che spesso non possono attendere il sostegno e la protezione. È stato altresì rilevato che questa lista di «cose da includere» (ben più difficile da compilare rispetto a una «lista negativa» di pratiche escluse) genera il rischio di andare (tornare) verso una logica di intervento frammentato, esasperata dalle divisioni sorte nella ripartizione di copertura dei costi tra aziende USL comuni-utenti. Questo è un palese ostacolo a un processo di integrazione socio sanitaria che, in linea molto generale, può trovare compensazione in due direzioni. - Nella creazione di fondi sanitari e sociali riunificati, perlomeno per aree di bisogno, a seguito di deleghe o specifici accordi di programma (richiamandosi ad esempio alle aree ad alta integrazione), o di qualsiasi altro atto istituzionale finalizzato a realizzare una gestione unitaria dei servizi (vedi ad esempio, per quelli sociali, l'art. 8, c. 3, della legge n. 328/00). Quantomeno vanno identificate le responsabilità sul caso, ferma restando la presa in carico globale e unitaria. In questa logica potrebbero sorgere i fondi integrativi con l'intervento degli enti locali o altre organizzazioni pubbliche. - Nell'immissione dei Lea in una forte logica programmatoria (ad esempio piano di zona, programma delle attività territoriali o, meglio, nel piano di salute integrato) che conferisce maggiori possibilità di tentare di governare i costi e le spese rispetto ai risultati attesi. La definizione dei Lea socio sanitari, lungi dal rassicurare i decisori politici e gli amministratori sull' efficace contenimento dei costi e delle spese, rappresenta una vicenda che deve riportare alla ribalta i diritti «dimenticati», l'obbligo di decidere su cosa il nostro sistema di weifare vuole dare e fare, soprattutto per le categorie di persone in condizioni di svantaggio. Per operatori e cittadini partecipare alle scelte e decisioni significa anche muoversi in sintonia e con linguaggi condivisi. Attendiamo gli sviluppi del dibattito.
* Testo elaborato a seguito di un seminario svolto a Malosco (Trento) dal 7 al 10 luglio 2002 sul tema «Definizione e attuazione dei livelli essenziali di assistenza sociale e sociosanitaria». Livelli essenziali di assistenza e servizi alle persone
di Tiziano Vecchiato
Il quadro attuale
Il dibattito sui livelli essenziali di assistenza (Lea) ha avuto un'accelerazione quando le modifiche del titolo quinto della Costituzione hanno delimitato le competenze centrali, concentrandole sostanzialmente su questa materia. Questo rende necessaria una nuova definizione dei rapporti tra amministrazione centrale e altri centri di responsabilità, in particolare regionali e comunali, su questo argomento. Astrattamente si può pensare che le cose siano già chiare. Al governo centrale spetta la definizione dei livelli essenziali: in termini di contenuti e di quantità assistenziali da erogare, c.on riferimento a bisogni prioritari a cui far corrispondere diritti da tutelare. Alle regioni, insieme con i comuni, spetta l'organizzazione delle risposte, il governo delle risorse, la definizione delle priorità, la verifica dell'attuazione. Concretamente le cose non sono così semplici, perché quando, con questa «chiara» separazione delle competenze, si passa dalle affermazioni di principio alle scelte concrete, può succedere sostanzialmente questo: lo stato per definire i livelli essenziali di assistenza è costretto a chiedersi se quanto va a definire in forma di diritti da tutelare (livelli essenziali da garantire), ponendolo a carico di altre amministrazioni, corrisponda alla loro effettiva capacità di finanziarli. Avendo presente questo interrogativo, un governo con difficoltà di bilancio si guarderà bene dal proporre una definizione operativa «pro diritti di cittadinanza» dei livelli essenziali di assistenza, consapevole che la conseguenza può essere semplice e drammatica: la definizione centrale non coperta da finanziamento comporta un'inevitabile richiesta, da parte dei soggetti decentrati, di risorse per attuare quanto deciso in sede centrale. In modo coerente con le proprie scelte, il livello centrale dovrebbe reperire le risorse aggiuntive necessarie ricorrendo a ulteriore imposizione fiscale o a riconversioni di spesa. Si tratta quindi di una decisione onerosa, che trae le sue motivazioni dal modello di weifare che si intende perseguire. Se esso è universalistico ed equo, cioè capace di formule selettive utili per dare priorità a chi ha più bisogno, si avrà necessità di maggiori risorse. Se esso è residuale, cioè mirato a dare risposte alla fascia di popolazione più in difficoltà, lasciando a dinamiche di mercato le ulteriori risposte per tutti, avrà bisogno di minori risorse. Ma scegliendo una strategia meno solidale dovrà accettare il rischio di essere meno credibile e legittimato nel perseguire il bene comune. È questa la principale ragione per spiegare come mai, a quasi tre anni dall'attuazione della legge n. 328/00, non sono ancora stati definiti i livelli essenziali di assistenza sociale. Altre ragioni per spiegare questo ritardo sono di natura tecnica, riguardanti cioè la scelta dei contenuti da garantire, tenendo presente che sul piano scientifico le conoscenze e le esperienze sull'argomento sono tali da non giustificare il ritardo accumulato. Le radici del dibattito sui livelli essenziali possono essere meglio comprese ricostruendo quanto è stato definito dalla legislazione e dalla programmazione recente su questo tema: faremo riferimento al d.lgs n. 229/99 e alla legge n. 328/00, al Piano sanitario nazionale (psn) 1998-2000 e al Piano sociale nazionale 2001-2003, ai decreti del 29 novembre e 12 dicembre 2001.
Un quadro più generale: dal d.1gs n. 229/99 e dalla legge n. 328/00
L'articolo 1 del d.lgs n. 229/99 ha come titolo «Tutela del diritto alla salute, programmazione sanitaria e definizione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza». Ne consideriamo una selezione dei contenuti che nel loro insieme è particolarmente utile per comprendere gli aspetti definitori dei livelli, le modalità di individuazione e possibili modalità di valutazione. Al comma 1 si dice che la «tutela della salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività è garantita, nel rispetto della dignità e della libertà della persona umana, attraverso il Servizio sanitario nazionale, quale complesso delle funzioni e delle attività assistenziali dei Servizi sanitari regionali e delle altre funzioni e attività svolte dagli enti e istituzioni di rilievo nazionale». Si tratta cioè di definire l'architettura delle responsabilità e le condizioni per il governo collaborativo delle risorse necessarie non solo all'erogazione delle prestazioni ma, in termini più ambiziosi e impegnativi, per tutelare la salute in quanto diritto della persona e in quanto interesse collettivo. È in questa interdipendenza costitutiva tra persona e comunità che si può meglio comprendere il significato dei livelli essenziali e le ragioni etiche e politiche per cui nei sistemi solidaristi si fa ricorso a questa strategia. Al comma 2 si esplicita in senso operativo questo obiettivo: «Il Servizio sanitario nazionale assicura, attraverso risorse pubbliche e in coerenza con i principi e gli obiettivi indicati dagli articoli 1 e 2 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell'equità nell'accesso all'assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell'economicità nell'impiego delle risorse». Emerge in queste affermazioni il tormento della sostenibilità: garantire diritti di cittadinanza sociale significa trovare soluzioni e condizioni per finanziarli, cioè per far corrispondere al diritto a una prestazione la capacità professionale, organizzativa e finanziaria di garantirla su ampia scala, cioè a tutta la platea degli aventi diritto, che nei sistemi solidaristi e universalisti rappresentano idealmente la totalità della popolazione e, concretamente, quella parte di popolazione che si trovasse in quella particolare condizione di bisogno riconosciuta come meritevole di tutela pubblica perché rispondente al criterio di <<Interesse della persona e della comunità>>. Per questo il successivo comma 3 esplicita e fa del problema «sostenibilità» il principale nodo politico connesso all'attuazione dei livelli. Si dice infatti: <<L'individuazione dei livelli essenziali e uniformi di assistenza assicurati dal Servizio sanitario nazionale, per il periodo di validità del Piano sanitario nazionale, è effettuata contestualmente all'individuazione delle risorse finanziarie destinate al Servizio sanitario nazionale, nel rispetto delle compatibilità finanziarie definite per l'intero sistema di finanza pubblica nel Documento di programmazione economico-finanziaria». In sostanza, se così sarà, si potrà ottenere l'effetto auspicato dai sistemi solidaristi, quale è quello italiano, e cioè che le prestazioni comprese nei livelli essenziali di assistenza siano garantite a tutti a titolo gratuito o con eventuale partecipazione alla spesa. L'unità di misura generale per la definizione dei livelli è necessariamente nazionale. Nello stesso tempo, però, questa esigenza generale deve misurarsi con unità di misura regionali, chiamate a organizzare la rete di risposte per garantirli, con strumenti noti e per ora spesso inefficaci, e cioè i piani regionali (la legge a questo scopo prevede che le regioni trasmettano annualmente al Governo la relazione sullo stato di attuazione di piani talvolta inesistenti). A questa carenza strutturale suppliscono in modo talora efficace norme di setto re, quale ad esempio il Dpcm sulla definizione dei livelli di assistenza del 29 novembre 2001. Proseguendo nella nostra analisi, il comma 6 definisce tre macro tipologie di assistenza, intese come un minimo denominatore comune per l'intero sistema di offerta: l'assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro; l'assistenza distrettuale; l'assistenza ospedaliera. Questa distribuzione è utile per identificare centri omogenei di responsabilità e per garantire al cittadino unitarietà di riferimenti, utili per facilitare e semplificare l'accesso ai servizi. Nel comma 7 si entra nel merito dei contenuti da garantire con i livelli, definendo le condizioni di «inclusione» o di «esclusione». La regola fondamentale per l'inclusione è rappresentata dalle prove di efficacia. Pertanto vanno incluse nei Lea «le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate». I criteri di esclusione sono corrispondenti, e cioè intervengono quando non sono disponibili prove di efficacia tali da giustificare un certo intervento e di conseguenza un certo consumo di risorse. Nei criteri di esclusione entrano anche prestazioni efficaci, ma che sul piano etico non rappresentano priorità da garantire su base universalistica, ad esempio le cure estetiche non derivanti da eventi traumatici. La sede dinamica per decidere queste cose è costituita dal Piano nazionale (comma 10). Esso è chiamato, su base periodica (tecnicamente triennale ma di fatto a cadenza più estesa e discrezionale), a definire le aree prioritarie di intervento, i livelli essenziali di assistenza sanitaria da assicurare, le linee guida per meglio assicurare l'applicazione dei livelli essenziali di assistenza sulla base di criteri e indicatori comuni di verifica.
Quest'ultimo aspetto è stato meglio definito con il Decreto interministeriale 12 dicembre 2001 «Sistema di garanzie per il monitoraggio dell'assistenza sanitaria», cioè per il monito raggio dell'attuazione dei livelli essenziali di assistenza sanitaria e socio sanitaria nelle diverse regioni. A queste coordinate definitorie possono essere aggiunti alcuni contenuti dell'articolo 3-septies del d.lgs n. 229/99, che tratta di integrazione sociosanitaria e di livelli essenziali integrati. A tale proposito esso parla di necessità di precisare «i criteri di finanziamento delle stesse per quanto compete alle unità sanitarie locali e ai comuni», di rendere cioè certo e consolidato l'apporto che i due responsabili del finanziamento dei Lea integrati - le regioni e i comuni - devono definire di comune intesa, anche grazie all'individuazione di livelli uniformi di assistenza per le prestazioni sociali a rilievo sanitario (comma 4), da finanziare sulla base di quote capitarie correlate ai livelli essenziali di assistenza. Quando la legge n. 328/00 parla di livelli essenziali lo fa in termini di universalità di accesso (art. 2), di esigibilità del diritto, di valutazione del bisogno per conciliare universalismo e selettività, di impegno per la tutela dei soggetti più deboli. Il quadro complessivo delle garanzie viene delineato dall'art. 22, in cui si identificano i bisogni meritevoli di maggiore tutela sociale, e cioè le misure di contrasto della povertà e di sostegno al reddito, le misure economiche per favorire la vita autonoma e la permanenza a domicilio di persone totalmente dipendenti o incapaci di compiere gli atti propri della vita quotidiana, gli interventi di sostegno per i minori in situazioni di disagio, le misure per il sostegno delle responsabilità familiari, le misure di sostegno alle donne in difficoltà, gli interventi per la piena integrazione delle persone disabili, gli interventi per le persone anziane e disabili utili a favorire la loro permanenza a casa, le prestazioni integrate di tipo socio-educativo per contrastare dipendenze da droghe, alcol e farmaci, l'informazione e consulenza alle persone e alle famiglie per favorire la fruizione dei servizi. Questo quadro trova ulteriore esplicitazione al comma 3 dell' art. 16 per quanto riguarda le azioni di sostegno alla famiglia, attraverso «a) l'erogazione di assegni di cura e altri interventi a sostegno della maternità e della paternità responsabile; b) politiche di conciliazione tra il tempo di lavoro e il tempo di cura; c) servizi formativi e informativi di sostegno alla genitorialità; d) prestazioni di aiuto e sostegno domiciliare, anche con benefici di carattere economico, in particolare per le famiglie che assumono compiti di accoglienza, di cura; e) servizi di sollievo, per affiancare nella responsabilità del lavoro di cura la famiglia, e in particolare i componenti più impegnati nell'accudimento quotidiano delle persone bisognose di cure particolari, ovvero per sostituirli nelle stesse responsabilità di cura durante l'orario di lavoro; f) servizi per l'affido familiare». Il quadro descrittivo dei livelli essenziali di assistenza proposto dalla legge n. 328/00 si arricchisce di contenuti erogativi e organizzativi identificati come «requisiti essenziali di offerta» per ogni sistema di welfare locale, e cioè (comma 4, art. 22): «a) servizio sociale professionale e segretariato sociale per informazione e consulenza al singolo e ai nuclei familiari; b) servizio di pronto intervento sociale per le situazioni di emergenza personali e familiari; c) assistenza domiciliare; d) strutture residenziali e semiresidenziali per soggetti con fragilità sociali; e) centri di accoglienza residenziali o diurni a carattere comunitario». Come si può notare, questa legge non si preoccupa di qualificare i livelli in termini di significato e strategia (l'aveva appena fatto il d.lgs n. 229/99) e non si pone il problema dei criteri di inclusione e di esclusione e della sostenibilità, che è in parte affrontato nel Piano sociale nazionale 2001-2003.
Strategie e metodi
Il Piano sanitario nazionale 1998-2000 Nel definire il sistema delle garanzie il Psn 1998-2000 parla dei livelli di assistenza in termini di un processo decisionale articolato in alcuni <<momenti >>: - la selezione e l'esplicitazione dei principi e dei valori guida delle politiche; - le funzioni e le aree di attività proprie dei livelli di assistenza; - gli interventi e le prestazioni da assicurare; - i criteri di valutazione dell'appropriatezza delle scelte: dei cittadini e dei prescrittori; - l'entità del finanziamento, a quel tempo riferito alla quota capitaria coerente con la stima del fabbisogno; - la valutazione di congruità a partire dal confronto tra bisogni rilevati e offerta disponibile; - gli strumenti per governare l'erogazione dei livelli di assistenza (standard e strategie per garantirli). Come si può notare, si tratta di un processo decisionale necessariamente dinamico, che deve tener conto delle disponibilità economiche, dell' evoluzione delle conoscenze, delle innovazioni tecnologiche, delle condizioni di efficacia, grazie alla condivisione di linee guida basate sulle evidenze scientifiche disponibili. In particolare per quanto riguarda il primo punto, relativo ai principi e valori ispiratori delle politiche di welfare solidale e universalistico, il Psn 1998-2000 sintetizza quelli che hanno ispirato il dibattito e le scelte politiche a partire dalla legge n. 833/78, e cioè: il principio della dignità umana, a prescindere dalle diversità e dalla posizione sociale della persona; il principio della tutela preventiva, che giustifica e valorizza le azioni di prevenzione necessarie a non pregiudicare la salute personale e collettiva; il principio del bisogno, cioè necessità etica e strategica di anteporre alle risposte di welfare una sistematica valutazione del bisogno; il principio della solidarietà nei confronti dei soggetti più vulnerabili, anche in questo caso per motivi etici e strategici al fine di coniugare ragioni di giustizia con ragioni di solidarietà; il principio dell'efficacia e dell'appropriatezza degli interventi, che privilegia gli interventi di cui si conosca l'efficacia; il principio dell'efficienza produttiva, che privilegia le condizioni organizzative che la favoriscono; il principio dell'equità, che, soprattutto in un assetto federalistico delle responsabilità erogative, diventa la chiave di lettura e di valutazione della capacità dei sistemi regionali di welfare di garantire uguali opportunità di accesso e di assistenza, a parità di bisogno. Per questo da molte parti si sollecitano azioni di riequilibrio e di riallocazione delle risorse: dalla cura alla prevenzione, dagli interventi indifferenziati ai gruppi di popolazione più a rischio, dall'assistenza ospedaliera all'assistenza domiciliare e territoriale. Sotto questa luce viene posto anche il problema del rapporto tra gratuità e partecipazione al costo del servizio. Se da una parte si afferma il principio che le prestazioni vanno garantite senza oneri a carico dell'utente al momento della fruizione del servizio, si è in certi casi pensato che il pagamento di una quota limitata del costo del servizio o della prestazione (in forma di ticket) avrebbe potuto rivelarsi utile: per promuovere la consapevolezza dell' onere economico comunque sotteso alla garanzia di un diritto e per scoraggiare consumi opportunistici e non necessari. Questa strategia si è rivelata efficace quando l'entità della partecipazione di fatto non è diventata un ostacolo all'utilizzo di servizi necessari da parte del cittadino ed è stata bilanciata dalla gratuità comunque garantita a persone e a famiglie con basso reddito. Un'ulteriore condizione di efficacia delle strategie solidaristiche basate sui livelli essenziali di assistenza è rappresentata dalla questione «uniformità effettiva», che richiede 1'eliminazione non solo delle barriere economiche all'utilizzo delle prestazioni, ma anche il superamento di altre barriere, che di fatto limitano l'ambito effettivo delle garanzie. In particolare due sono i principali fattori di disuguaglianza: l'inadeguata presenza e offerta di strutture e servizi nei territori regionali e la presenza di ostacoli e barriere all'accesso per carenza di informazioni, per mancanza di orientamento e accompagnamento dei soggetti più deboli, per i tempi di attesa non giustificati.
Il Piano sociale nazionale 2001-2003 Anche il Piano sociale nazionale fa propria la strategia della sostenibilità e definisce le risposte con riferimento alle risorse del Fondo sociale nazionale e alle risorse ordinarie già destinate dagli enti locali alle politiche sociali. Per definire i livelli essenziali vengono utilizzate tre dimensioni: le aree di intervento; le tipologie di servizi e prestazioni; le direttrici per l'innovazione nella costruzione della rete, precisando che «La prima dimensione (aree di intervento) contribuisce a rispondere al quesito Livelli essenziali per chi? Per rispondere a quali bisogni? La seconda dimensione (tipologie di servizi) contribuisce a rispondere al quesito Livelli essenziali per erogare quali prestazioni e servizi? La terza dimensione (direttrici per l'innovazione) contribuisce a risponde al quesito Livelli essenziali garantiti come? Con quali criteri organizzativi e di erogazione dei servizi e delle prestazioni?». Ai fini della distribuzione del fondo viene individuata una soluzione basata sul bilanciamento della dimensione «aree di intervento» con quella della distribuzione territoriale delle risorse, a partire da macro indici ricavati mettendo in rapporto la popolazione complessiva con la popolazione obiettivo, ottenendo in questo modo quote capitarie «corrette» sulla base di indici di fabbisogno regionale. Nel fare questo si tiene conto di un problema proprio dell'area sociale, che viene definito «avvio della riforma». Si tratta in sostanza di riservare una quota di risorse per facilitare l'avvio dei mutamenti previsti dalla legge n. 328/2000 e dal Piano sociale, prevedendo «il finanziamento di azioni e progetti specificamente destinati all'avvio del sistema integrato di interventi e servizi. Devono essere elaborati dalle regioni o dagli enti locali», con lo scopo di creare una dotazione di minima di servizi in ogni territorio, facilitando l'associazione degli enti locali, così da realizzare un governo collaborativo dei sistemi locali di welfare entro ambiti territoriali omogenei. La sintesi di questa strategia è rappresentata dallo schema di riparto del Fondo sociale nazionale sintetizzato nella tavola 3.4.3 del Piano nazionale, che rappresenta un esempio di come si può analogamente procedere su scala regionale.
La raccomandazione costante del piano è quella di integrare le politiche ai diversi livelli, in particolare con quelle per la casa, quelle socio-educative e formative. A tutto questo si aggiunge un'indicazione strategica, che si collega all'attuazione delle carte per la cittadinanza sociale. Il piano afferma che la carta dei servizi sociali deve essere «intesa e realizzata» come «carta per la cittadinanza sociale». Essa è tale quando «non si limita a regolamentare l'accesso ai servizi», ma «si concentra sulle persone che hanno bisogno di accedere ai servizi» e crea le premesse per facilitare l'incontro tra diritti e doveri sociali, cioè: «viene a caratterizzarsi come percorso progettuale finalizzato a conseguire gli obiettivi di promozione della cittadinanza attiva, consapevole nella popolazione, nelle istituzioni e nei servizi. Il termine cittadinanza si collega strettamente ai diritti che ogni persona ritiene le debbano essere riconosciuti nella vita quotidiana e nelle situazioni di bisogno. La logica dei diritti sociali nella carta per la cittadinanza si collega strettamente con la logica dei doveri, o meglio ancora dell'incontro tra diritti e doveri sociali».
Conclusioni
Le precedenti considerazioni hanno messo in evidenza gli aspetti relativi alla definizione dei livelli essenziali di assistenza in quanto diritti a cui far corrispondere contenuti assistenziali di erogazione. Ma la riflessione e la ricerca stanno cercando di collegare fra loro i problemi propri dei loro contenuti con i problemi propri del sistema di garanzie per renderli esigibili, farne cioè dei veri livelli essenziali di assistenza e di cittadinanza sociale. Non a caso il Piano sociale nazionale 2001-2003, parlando delle carte per la cittadinanza sociale, le ha indicate, per ora in termini generali, come una strada promettente e da esplorare. Ci sono già esperienze su questo tema, anche se quasi esclusivamente in Toscana. Altre potranno svilupparsi, se sapranno darsi le condizioni necessarie per affrontare i Lea come meritano, e cioè governando le loro tre dimensioni costitutive (finanziamento, organizzazione della rete di risposte, indici di efficacia), nonché impegnando unitariamente i diversi soggetti istituzionali e sociali a fare verifica sistematica e partecipata sulla loro attuazione.
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