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Conclusioni Per prevenire e superare le situazioni di disagio di tanti giovani è certamente importante l’intervento dello Stato, delle Regioni, delle Province, degli Enti locali: ma è principalmente necessario che la comunità, nel suo insieme, si senta in prima persona responsabile dello sviluppo umano dei suoi membri più giovani, senza delegare totalmente ai servizi un compito che è principalmente suo. E’ venuto il momento di riconoscere che né il diritto né l’organizzazione amministrativa sono da soli in grado di assicurare un compiuto processo di sviluppo del soggetto in età evolutiva. In realtà, una serie di fondamentali bisogni del soggetto in formazione non possono essere esauditi dal giudice o dai servizi ma possono essere appagati solo da un incontro tra chi si affaccia alla vita e un "altro", adulto, capace di ripiegarsi su di lui, di coglierne la richiesta di aiuto, di lasciarsi coinvolgere in un cammino comune, di dare risposte in qualche modo esaustive alle domande non verbalizzate del ragazzo. Se, ad esempio, alla base di tante difficoltà del bambino, e di tante incompiutezze del processo formativo, vi è un inascoltato bisogno di affetto, un bisogno di autonomia protetta, un bisogno di speranza, una risposta esaustiva a questi bisogni non può venire né dal diritto né da una organizzazione sociale, per quanto perfetta essa possa essere. Il diritto può indicare quale può essere il più opportuno comportamento da tenere e sanzionare comportamenti scorretti e può organizzare strumenti di sostegno: non può, esso, costruire quelle relazioni effettivamente strutturanti di cui il ragazzo ha bisogno per crescere. La illusione che la felicità possa essere donata agli uomini solo dai servizi sociali costituisce una pericolosa mistificazione. Ciò significa che il fisiologico disagio giovanile – e ancor di più quel disagio che porta a comportamenti devianti – potrà essere contrastato e superato solo nella misura in cui, attraverso la costruzione e la diffusione di una nuova cultura dell’infanzia e dell’adolescenza, si realizzino relazioni più significative ed appaganti tra mondo degli adulti e mondo dell’infanzia: non sembra purtroppo che in questi ultimi anni siano stati fatti in questo senso significativi progressi. Anzi sembra che si debba notare qualche pericoloso regresso. L’attenzione che in questi ultimi anni si è sviluppata verso i soggetti in formazione è divenuta, paradossalmente, non interesse verso il bambino-persona ma interesse verso il bambino-risorsa da cui l’adulto pretende solo gratificazioni personali: i genitori attendono da lui solo l’appagamento dei propri desideri; i mezzi di comunicazione di massa utilizzano i bambini e le storie dei bambini per aumentare le tirature o l’audience, incuranti degli effetti devastanti di questi interventi, la pubblicità usa il bambino per imporgli comportamenti e acquisizioni di cose con la minaccia; il mercato del lavoro lo utilizza per assicurarsi a bassissimo costo prestazioni economicamente assai utili; molti adulti usano il bambino come oggetto di piacere sessuale non solo nei paesi del terzo mondo ma anche in Italia; gli stessi operatori dell’infanzia talvolta utilizzano il bambino come una risorsa terapeutica per adulti in difficoltà e non è inesistente il caso di associazioni o iniziative che si proclamano funzionali alla tutela dell’infanzia ma che utilizzano l’immagine dolente del bambino principalmente per drenare rilevanti risorse economiche. Ma se si perde il senso del bambino come valore in se, e se lo si riduce a strumento di gratificazione per l’adulto, il rapporto adulto-bambino diviene necessariamente inquinato e il ragazzo non potrà non risentirne. Inoltre, la cultura appena abbozzata del costante sostegno al ragazzo – affinché possa compiutamente svolgere il suo itinerario iniziatici – e della solidarietà tra le generazioni sta per venire soppiantata da una cultura dell’appropriazione del bambino da parte dell’adulto (si incomincia a parlare di un diritto di qualunque adulto ad avere comunque un figlio e si ritorna alla insindacabilità dei comportamenti genitoriali perché "il figlio è mio e lo gestisco io") e da una cultura del reciproco egoismo delle generazioni, per cui il ragazzo percepisce come insignificante il genitore e questi come poco interessante il figlio e la comunicazione va inaridendosi. Va anche aumentando il disimpegno genitoriale: molti adulti – segnati da una civiltà che ha cercato di espellere dal proprio orizzonte l’idea della morte perché si è incapaci di elaborare il lutto – hanno timore di investire effettivamente troppo su un ragazzo che, appena giunto a un minimo di autonomia è pronto a lasciarci e che può non corrispondere ai nostri progetti; non pochi genitori sono paralizzati dal timore – in una società che non sa più vivere una esperienza di donazione gratuita perché solo legata allo schema del dare per avere – di sacrificare troppo la propria vita per un soggetto esigente che non sempre darà quelle gratificazioni e quelle ricompense che possano giustificare il sacrificio della propria assoluta libertà. E’ ancora da notare che la cultura dei diritti non è stata sufficiente,mente coniugata, come sarebbe stato necessario, con la cultura dei doveri: si è dato l’impressione al bambino, ma non solo a lui, che tutto gli sia dovuto e che egli nulla debba agli altri ed alla società. Ma non si aiuta il ragazzo a liberarsi dai propri condizionamenti e dalle proprie onnipotenze, e quindi non si svolge un’opera veramente educativa, se nella famiglia, nella scuola, nella società si esaspererà la libertà del ragazzo e i suoi conseguenti diritti sottacendo che, in una vita basata sulle relazioni, alcune limitazioni alla libertà e ai diritti sono funzionali non solo al godimento pieno dei diritti di tutti ma anche alla crescita della personalità individuale e sociale. E non può non essere guardata con preoccupazione la crescita nella nostra società della malattia contagiosa della irresponsabilità che si coniuga spesso con una sorte di amore omertoso verso l’infanzia; per cui qualsiasi comportamento dei propri figli viene giustificato perché la responsabilità è sempre di altri o si tratta comunque di bagattelle. Va infine sempre più illanguidendosi la funzione educativa degli adulti, convinti che il ragazzo abbia solo bisogno di libertà e che l’educazione debba considerarsi sinonimo di manipolazione. In realtà bisogna riconoscere che nella società complessa di oggi, chi cresce ha bisogno non solo di molte informazioni ma anche di educazione, e cioè, secondo l’etimo e-ducere, di qualcuno che si "ponga accanto" per aiutare ad uscire dalle proprie insufficienze: non si diviene adulti perché si conosce il mondo ma solo se si hanno gli strumenti per affrontarlo e superarne le difficoltà e le carenze. Mai come oggi, per sopravvivere e non naufragare nella vita, è indispensabile costruirsi una personalità non facilmente condizionabile, non ripiegata narcisisticamente su se stessa, non predisposta per insicurezza al continuo cambiamento, non bisognosa della approvazione degli altri, non dominata dal bisogno del possesso per ritenersi valida, non tentata continuamente dalla fuga. Per costruire questa compiuta personalità il ragazzo non può essere lasciato solo: ha bisogno dell’aiuto di un adulto capace di porsi in ascolto, di capirne bisogno e potenzialità, di decifrarne le reali richieste. Di un adulto capace di superare stereotipi e pregiudizi, disposto a non restare sempre identico a se stesso ma a saper crescere insieme al ragazzo. Di un adulto che sia comprensivo ma che non si riduca a mero "amico" dei figli: il ragazzo ha assoluto bisogno di una relazione verticale che porti non solo alla possibilità e appetibilità della identificazione con la figura di adulto ma anche alla possibilità di conflitti e di momenti di allontanamento e di tensione. Con fantasmi di padri non si cresce; senza chiari punti di riferimento si annega; senza una compressione delle infantili onnipotenze non ci si struttura. Il difficile compito dell’educatore è quello di saper essere nel contempo prescrittivo ma non intrusivo; autorevole ma non autoritario; capace di sapere accettare l’allontanamento facendosi però percepire come sempre pronto ad accogliere e sollecitare il ritorno. Costituisce una miscela esplosiva per tanti giovani la sussistenza di forti condizionamenti sociali e di proposte educative assai deboli; di grandi opportunità riconosciute e di scarse valutazioni della loro congruità per la propria autentica crescita in umanità; di una apparente libertà a cui non si accompagna una "liberazione"; di una sostanziale solitudine perché gli adulti sono scomparsi in quanto sostituiti talvolta solo da "bambini putrefatti". Gli adulti di oggi sono veramente capaci di riappropriarsi della propria funzione? Sapranno essere autenticamente adulti, imperfetti, ma adulti. Per superare il disagio del crescere è questa la prima, ineludibile, condizione. |
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