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Handicap e Scuola
L'integrazione possibile

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NON DIRE MAI GRAVE


Riziero Zucchi - Comitato per l'integrazione scolastica degli handicappati, Torino


Io penso che l'intervento di Mario Tortello, abbia data l'impostazione delle abilità che all'integrazione compete.

E' estremamente importante sottolineare che l'integrazione non viene attuata dagli esperti, l'integrazione viene realizzata da tutti: occorre considerare la dignità dei bidelli, la dignità delle cuoche, la dignità dei compagni, senza dimenticare la dignità dei genitori. A livello scientifico l'integrazione è un momento di confine, dove si creano nuove scienze, nuove competenze. Non a caso l'integrazione è una proposta per quella che noi possiamo chiamare la Paideia del terzo millennio.

Vi è un autore che ci fa vedere come queste problematiche non siano solo nostre, italiane, europee, ma siano a livello mondiale. E' Meil Postman, che negli anni 60 ha scritto il libro intitolato "L'insegnamento come attività sovversiva", e che ha studiato come i nuovi mass-media stiano distruggendo il concetto e l'essenza stessa dell'infanzia, nel libro "La scomparsa dell'infanzia". Ultimamente si occupa dell'educazione futura e in modo molto ma molto dichiarato parla di rischio di fine dell'educazione. Se noi non diamo nuove frontiere all'educazione, dice Postman, l'educazione lentamente scomparirà e diventerà imposizione. Sempre meno sarà importante l'educazione data dai genitori, sempre meno l'educazione dei docenti, i ragazzi verranno lasciati allo sbando, sparendo anche il concetto di infanzia e di necessità di educazione, il che vuol dire ritornare ad un nuovo medioevo a livello planetario.

 
La diversità come ricchezza


Postman propone nuove indicazioni che possono arricchire l'educazione e aprire nuove frontiere. Afferma che la frontiera più importante è la diversità. E' il proporre l'integrazione della diversità e della disabilità come una frontiera che darà senso alla scuola, all'educazione e soprattutto all'intervento della famiglia. Egli propone anche uno scenario importante scientifico, quello che è un paradigma, la seconda legge della termodinamica. L'energia è prodotta dalle differenze di potenziale: le differenze di quota, di altezza determinano i salti d'acqua, le differenze di potenziale determinano le scariche elettriche. Ora queste differenze di potenziale se non vengono utilizzate, umanizzate, se non vengono proposte in termini sociali possono essere pericolose e fare paura.

Se invece vengono umanizzate, utilizzate, vengono poste al servizio dell'uomo, diventano una grande fonte di energia, per cui la scarica elettrica si trasforma in energia elettrica utilizzabile. La differenza di potenziale, la diversità diventa possibilità di riproporre nuove energie all'educazione, così l'handicap va culturalmente proposto come diversità, come uno dei grandi propulsori, uno dei momenti significativi per l'educazione del terzo millennio. Ed è interessante vedere come l'impostazione che ha dato Mario Tortello al suo intervento mette la pedagogia in relazione al diritto. L'impostazione che io vorrei dare è vedere invece in che modo la pedagogia si propone nei confronti della medicina.

 

 

 

Una medicalizzazione che esclude


Uno dei grandi fallimenti dell'integrazione, se fallimenti ci sono stati, è stato determinato da una presenza eccessiva, costante della medicalizzazione. Io insegno e troppo spesso nelle classi vedo che non entrano persone con un nome, cognome e con una storia, come diceva Mario, ma entrano delle diagnosi. Quando a me venne detto "entra in classe un morbo di Duchenne" mi sono spaventato. Sono andato a vedere sull'enciclopedia medica e morbo di Duchenne voleva dire assistere ad una morte in diretta. Voleva dire che lentamente la mobilità sparisce, c'è l'atrofizzazione dei muscoli che non reagiscono più e questa persona lentamente muore. Allora il fatto che venisse proposta l'integrazione con una diagnosi in questi termini ha provocato ansia ma non solo in me, anche in tutte le persone; vedere in classe una persona lentamente morire, chiaramente provoca disagio. E' stato estremamente interessante notare come questo disagio ha cominciato a sciogliersi grazie alla rete di interventi che ha permesso a me come docente di rassicurarmi, di trasformare quello che era un grosso timore in una risorsa, di vedere come l'handicap ha una presenza all'interno dell'educazione.

 
La forza non mi è venuta dalla diagnosi, dalla medicalizzazione; la forza mi è venuta dai ragazzi. Io ho la fortuna di avere un'educazione che mi ha permesso di vedere i ragazzi, i compagni di classe, come pieni di dignità educativa. Ho avuto la possibilità di chiedere a loro aiuto; la reazione dei ragazzi non è stata di andare a vedere subito in una enciclopedia cosa vuol dire morbo di Duchenne. Hanno chiesto: "Ma come si chiama? Quali sono i suoi interessi? Dove abita? Quale cantante gli piace? Dove va a passare il suo tempo libero?". Questo atteggiamento mi ha sconvolto perché è stato, in termini molto concreti un rovesciamento. Si è passati da una medicalizzazione che produceva timore ad una integrazione prodotta dai pari. Allora questa persona, io parlo di un evento di quattro anni fa, adesso sta facendo il quinto anno e sosterrà l'esame di maturità.

Io non ho assistito ad una morte in diretta, ho assistito ad una persona consapevole della propria condizione che normalmente diceva: "Io quattro o cinque anni fa andavo in bicicletta, adesso ho la carrozzina," ma che vive intensamente, momento per momento, regalando al docente e ai compagni una voglia di vivere, di esprimersi, un senso della vita vissuta in ogni sua situazione che ha arricchito tutti.


Una importante presenza educativa


Credo che questa dimensione positiva dell'handicap vada collegata con una serie di possibilità dell'integrazione di tipo preventivo. Io mi occupo oltre che di handicap anche di prevenzione delle tossicodipendenze e di problemi di prevenzione in genere.


La presenza di Guido all'interno della classe ha provocato una serie di interventi sollecitati da lui come risorsa che hanno determinato momenti di prevenzione. Prendiamo ad esempio il problema della tossicodipendenza. Noi sappiamo, dall'esperienza di Don Ciotti, che un ragazzo con problemi di tossicodipendenza non è in grado di dare o ricevere aiuto, si affida solo alla sostanza e il suo problema è solo la stessa, le emozioni gli vengono dalla sostanza. L'unica vera prevenzione non è naturalmente il metadone o la medicalizzazione, la prevenzione è sottolineare che le emozioni vengono dal rapporto diretto con le persone. Le emozioni vengono dall'autoaiuto, vengono dal fatto di poter dare e ricevere solidarietà. Ora Guido è nella sua classe e dimostra, con la sua presenza, la necessità di ricevere aiuto, dà ai compagni la possibilità di recuperare la propria essenzialità cioè di dare loro una ragione di vita, e questa è prevenzione.

 
Un altro problema che vediamo nelle classi è quello dell'anoressia, che viene risolto con lunghissime terapie, con grandi spaventi da parte dei genitori, con terapie anche farmacologiche o contenitive. La presenza di Guido che lentamente si sta accartocciando sulla sua sedia a rotelle, costituisce invece un centro di attenzione, di affetto. Eppure la sua corporeità non è una corporeità accettabile secondo le mode; non è Claudia Shiffer che vogliono imitare le compagne, è una umanità sofferente anche nel corpo. Ci sono degli stigmi anche concreti, corporei. Però lui è la testimonianza che una persona, con dei limiti, con un look non positivo può essere invece centro di rapporti umani. E' la testimonianza che la ragazzina un pò grassottella, la ragazzina che ha qualche difetto può essere accettata lo stesso, se Guido viene accettato.

La sua presenza diventa una presenza estremamente educativa all'interno della classe. Ci rendiamo conto che la presenza di un gravissimo, di una persona che si era presentata con una diagnosi di tipo luttuoso diventa un centro concreto di vita all'interno della classe. Penso che occorre ampliare i limiti della medicalizzazione e dare sempre maggior peso ad una scienza che come la medicina è profondamente in crisi. Stiamo attenti, quando io parlo di crisi ne parlo dal punto di vista etimologico: crisi vuol dire scelta, non ne parlo dal punto di vista epistemologico. Anzi c'è sempre più bisogno di pedagogia in termini positivi. Sia la medicina che la pedagogia stanno cercando nuovi equilibri; la medicina sembra essersi dedicata al profitto a livelli industriali.

La pedagogia a sostegno della medicina


Uno dei grossi problemi della crisi della medicina è il fatto che manca il centro umano. Molte volte a livello medico noi non siamo altro che una serie di diagnosi, in cui si perde l'unità della persona, la voglia di vivere della persona. Manca il collegamento, manca il momento della persona che reagisce. Io vorrei parlare, dato che non sono medico, con la voce dei medici. Ora non lontano da qua, a Spoleto, abbiamo il Festival dei due Mondi. E' interessante perché accanto al festival dei due Mondi è stato dato spazio alla scienza, in particolare alla medicina. Ogni anno viene proposta l'edizione di "Spoleto Scienza" che è estremamente importante perché presenta le indicazioni più attuali della medicina. Vi è stata la presenza di scienziati come Sacks, Edilman ecc. Nella loro testimonianza la medicina afferma la sua necessità di pedagogia. Vorrei leggere qualche parte degli atti di "Spoleto Scienza". Traggo la citazione dal convegno del 1994, pubblicati da Laterza il cui titolo è: "In principio era la cura", Bari, 1995. Il testo recita: "Negli ultimi venti anni è stata favorita una visione patologizzante della società dell'individuo. Tutti i problemi, i disagi, le contraddizioni sono state interpretate come patologie. Alla luce di queste problematiche sarebbe interessante chiarire cosa voglia dire curare. Il significato originale di curare è prendersi cura, esaminare, analizzare, farsi carico responsabilmente di eventi di crisi. Per costume ideologico noi siamo portati a vedere il concetto di cura, non nella sua natura di processo o di scambio comunicativo".
Pensiamo all'attività che ha fatto Guido portatore della malattia di Duchenne, il suo è stato un intervento di cura, di terapia nei confronti dei compagni, terapia naturalmente educativa. Continua Spoleto Scienza: "In un approccio che faccia riferimento ad un paradigma scientifico non positivista (...), perché non attribuire al curare anche il significato di crescere? Ma non a caso nella storia di ciascun individuo le prime cure che si incontrano sono le cure materne e sappiamo quanto siano importanti perchè esse consistono proprio nella trasformazione da parte della madre dei messaggi, delle emozioni che provengono dal bambino, ....".


Una nuova cultura dell'handicap


Per rafforzare questo messaggio vorrei ricollegarmi ad un altro momento, quello della soggettività dell'handicap, Mario Tortello faceva riferimento a Claudio Imprudente. Claudio Imprudente è un handicappato gravissimo, che in questi giorni a Torino e in altre parti d'Italia tiene corsi di aggiornamento a docenti e ad operatori. Eppure Claudio Imprudente non si muove, non parla, ma i suoi interventi sono ascoltati e hanno un'attenzione che deriva dal fatto che lui presenta il suo handicap come testimonianza. Non si propone come una diagnosi, ma si attiva in modo educativo e interattivo. Claudio Imprudente parla di nuova cultura dell'handicap, parla di nuovo atteggiamento, parla di rivoluzione culturale che riguarda non solo i normodotati ma soprattutto l'atteggiamento degli handicappati che si devono manifestare con la loro soggettività. Soggettività vuol dire che l'handicap propone se stesso e le proprie esperienze. Vi sono testimonianze di handicappati che valgono molto di più di tante lezioni teoriche. Uno degli handicappati, ad esempio, dei quali vorrei occuparmi, handicappato gravissimo , è Cristopher Brown. Non so se qualcuno di voi ha visto il film, incredibilmente positivo perché basato sulla sua autobiografia, "Il mio piede sinistro". Cristopher Brown aveva un handicap tale da non potersi muovere, era un groviglio di ossa, di nervi, di tendini, eppure Cristopher Brown è diventato un artista, un grande scrittore e si è sposato. Ha avuto quindi una vita completamente normale anzi ha dato qualcosa di più agli altri. Nelle prime pagine della sua autobiografia edita da Mondadori, c'è una testimonianza preziosissima. "I medici alla mia nascita dissero a mia madre che il mio caso era irrimediabile, che io non avrei mai, nel modo più assoluto, potuto essere normale".


Noi sappiamo invece che da questa persona che doveva vegetare sono nati dei libri, dei quadri, una biografia degna di essere vissuta e di essere proposta ad esempio. Qual è il miracolo di questa trasformazione? Il miracolo di questa trasformazione consiste nella strategia della fiducia della madre. Lui dice: "Mia madre si ribellò a questa diagnosi, non l'accettò nel modo più assoluto. Mi propose come gli altri otto ragazzi che aveva, come una persona normale e mi pensò adulto e fece un progetto di vita. Qualsiasi cosa io facevo non la riproduceva come momento patologico, la riproduceva invece come momento normale".


Il significativo momento di riabilitazione di Cristopher Brown è quando prende il gessetto e fa quello che forse uno con una mentalità patologizzante avrebbe visto come uno sgorbio. La mamma, che lo pensava adulto, vide invece una M, e da questo segno parte tutta la riabilitazione. Attenti, riabilitazione di carattere medico. La medicina è una scienza, il prendere come base quella che è la strategia della fiducia dei genitori non vuol dire rifiutare la medicina, vuol dire invece prenderla in mano ed utilizzarla dal punto di vista umano. La medicina attualmente è in crisi perché ragiona poco sulla persona, ma la medicina è una scienza. Purtroppo il fatto che la medicina non si rivolga a quelle che sono le soggettività delle persone, le capacità riabilitative personali, fa in modo che ci sia il proliferare di una serie di paramedicine. Perché c'è questa nuova frontiera che io chiamerei anche di tipo pedagogico alla quale la medicina deve agganciarsi, ma la medicina non cerca questo.


C'è un libro di Cosmacini, uno storico della medicina, in cui viene proposta questa necessità; il libro è intitolato "La qualità del tuo medico" e sottotitolato "Per una filosofia della medicina". Un altro testo che io consiglierei è un volume di un grande filosofo, Gadamer: "Dove si nasconde la salute". Egli rivendica la necessità da parte dell'individuo di riappropiarsi e guidare la medicina; ed è quello che tutto sommato ha fatto la mamma di Cristopher Brown.

 
Perché la riabilitazione è determinata dalle cure dei medici che hanno accettato di essere guidati dalla soggettività dell'handicappato stesso e dalla soggettività della sua famiglia; cioè c'è stato un felice incontro che ha promosso un momento riabilitativo estremo: la riabilitazione di Cristopher Brown. Miracolo? Non direi, è stato solo un atteggiamento scientificamente corretto. Medicina e pedagogia si sono unite. E questo concetto credo che vada riproposto anche collegandoci alle indicazioni di Claudio Imprudente contenute nel libro edito da Cappelli intitolato "E se gli indiani fossero normali". Egli afferma: "Noi dobbiamo operare questa rivoluzione cioè dobbiamo vedere che l'handicap e i problemi di un handicappato gravissimo hanno una serie di risorse incredibili che vanno sfruttate socialmente, in caso contrario queste risorse si rivolgono contro il disabile e contro la società". Un handicappato gravissimo che non vede espresse le proprie competenze, che non vede una rete di rapporti, una rete di risorse che lo valorizzino, chiaramente rischia di implodere.
Ai vecchi tempi la società contadina prendeva l'handicappato gravissimo e lo rinchiudeva nel pollaio, lo rinchiudeva nella porcilaia con un senso di sofferenza e di vergogna che non ci deve essere nel modo più assoluto. Quante volte abbiamo avuto un minimo di rancore contro certa gente che diceva: - I genitori dei ragazzi handicappati si vergognano - . Non è affatto vero, è un atteggiamento sociale che va cambiato. Ma è chiaro allora che di fronte ad un caso come quello di Claudio Imprudente dobbiamo cambiare atteggiamento cioè dobbiamo promuovere una misura culturale che valorizzi noi e l'handicappato.


L'handicap come risorsa


Queste cose sono state dette tanto tempo fa. Nel 1934 una persona che è stata chiamata il Mozart della pedagogia e della psicologia, che si chiama Vygotskiy, scriveva testi che adesso sono raccolti in un volume intitolato "Fondamenti di difettologia" e parlava di quella che era la compensazione dell'handicap. E' molto importante perché credo che la compensazione sia un elemento che ci dà una serie di indicazioni epistemologiche per una corretta integrazione. Vygotskiy sostiene che l'handicappato non è una persona inferiore, ha in sé una serie di risorse ma risorse che non sono di tipo assistenziali o di tipo pietistico, risorse reali che derivano da una compensazione dell'organismo, una compensazione che non è però di tipo materialistico. Non è la compensazione del cieco che ha una tattilità migliore, oppure del sordo che ha una visività migliore. La compensazione è qualcosa di molto più profondo.

 
Il deficit fa in modo che venga ristrutturata tutta la personalità per cui la natura compensa in modo completo, attraverso anche questa ristrutturazione neurologica, le capacità della persona. L'handicappato va considerato in termini evolutivi, va visto come una risorsa per risolvere nuovi problemi, perché la sua diversità esprime risposte che noi normali non abbiamo.
Le multinazionali dell'alimentazione stanno costituendo grandi erbari per tesaurizzare la biodiversità. L'erbaccia che abbiamo sempre disprezzato diventa fondamentale. Noi abbiamo privilegiato le graminacee, ma a causa di questo si può perdere ogni giorno una specie botanica. Certe vengono riconosciute erbacce utili. Vi è un erba che si trova solo in Polinesia la cui molecola di sintesi costituisce una cura contro l'ipertrofia prostatica. Si è scoperto che occorre garantire la biodiversità.


Facciamo un altro esempio preso nel mondo animale. L'esempio delle giraffe. Se non ci fosse stata la giraffa handicappata dal collo lungo non si sarebbe creata la nicchia ecologica che ha permesso alle giraffe di brucare le altissime acacie e quindi di mantenersi come specie. Noi non siamo lamarkiani, non pensiamo che la giraffa abbia prolungato il proprio collo con uno sforzo. E' nata la giraffa handicappata, la giraffa diversa che ha promosso invece la salvezza della sua specie. Ed è interessante perché questa concezione evoluzionistica è stata, adesso, accettata dalla Chiesa. La valorizzazione della diversità viene sottolineata anche da un testo sapienziale come quello della Bibbia. Vi ricordo il salmo che dice: "La pietra d'angolo scartata dai costruttori è diventata invece la pietra di fondazione". Pietra scartata diventa pietra d'angolo. Allora lo scarto è una risorsa reale. Lo sottolinea Vygotskiy. "Gli handicappati sono risposte diverse a problemi diversi, sono risorse per il futuro".


Il maggior autore di libri sull'origine dell'universo è Hawking che si è occupato della teoria del big bang e dei buchi neri. Egli è handicappato, accartocciato come una foglia secca sulla propria sedia automatica. La malattia genetica di Hawking è una malattia che si è manifestata quando lui aveva venti anni. Adesso ha cinquantaquattro anni ma la ricerca di Hawking è avvenuta in un momento in cui il suo handicap aveva raggiunto il vertice. Egli scrive che gran parte delle sue intuizioni le deve anche all'handicap, alla compensazione dell'handicap. Le ricerche di Hawking sono basate su calcoli stechiometrici. Quando non ha più potuto usare le mani e ha usato il plotter, le sue potenzialità sono aumentate perché poteva inserire immagini tridimensionali in uno schermo. Da quando non ha più potuto usare il plotter ha dovuto trasferire nella immaginazione tutti i calcoli e tutte le figure che poi dettava alle altre persone. Un suo collaboratore sottolinea: "Quando si hanno delle capacità diverse si possono anche risolvere dei problemi diversi".


Hawking dimostra che l'handicap se valorizzato può diventare una soluzione di problemi che altri non possono risolvere. Sarebbe illusorio dire che ogni handicappato può risolvere fondamentali problemi perché li ha risolti Hawking. Dietro a lui c'è tutta la rete di collegamento della facoltà di Combridge. Scienziati hanno costruito protesi e strumenti ma soprattutto c'è stata una richiesta della sua intelligenza, una fiducia nella sua capacità di intervenire, di tutta una comunità scientifica che gli ha permesso di dare risposte.


Ma se l'handicappato viene chiuso nella porcilaia, se l'handicappato viene chiuso nell'auletta, se l'handicappato non viene integrato, in che modo potrebbe sviluppare queste risorse incredibili? Questa consapevolezza c'era da tempo. Mi limiterei a citare il libro di Leonardo da Vinci, libro di pittura che è stato attualmente pubblicato da Carlo Pedretti.


Leonardo parla della pittura e nel momento più alto chiama in aiuto gli handicappati. Il genio di Leonardo si manifesta attraverso l'espressività. La Gioconda è il vertice dell'arte perché Leonardo è riuscito ad esprimere attraverso la pittura l'ambiguità, il sommo dell'espressività. Nel libro di pittura egli dice: "Pittore stai attento la tua pittura può essere due volte morta. Può essere morta una volta perché interamente fatta di pigmenti inorganici, ma può essere morta anche perché le immagini non hanno espressività". Pensiamo ad esempio un pittore anteriore a Leonardo, Piero della Francesca la cui pittura non è espressiva. Lo stesso autore della Primavera di Botticelli non ha espressività. Ma da Leonardo in poi comincia invece la rivoluzione che porterà poi al manierismo e all'espressività più completa.

Leonardo consiglia non solo di dare espressività al volto, ma anche espressività ai movimenti. E lui dice ancora: "Tu pittore hai dei maestri. Hai dei maestri che meglio di altri riescono ad adeguare ai pensieri i movimenti, ai sentimenti il volto".

 
E quali sono questi maestri? I sordi. Aggiunge: "Osservate i sordi, imparate dunque dai sordi. I sordi sono i maestri dell'espressività". Che questo sia importante lo dimostra il fatto che lo dice ben quattro volte nel Libro di pittura.


Quindi ci rendiamo conto che la consapevolezza che il gravissimo è una risorsa completa era già presente a livello storico. Potremmo citare anche Sant'Agostino. C'è un libro bellissimo intitolato "De Magistro", in cui Sant'Agostino sostiene che la lingua dei segni dei sordi è una lingua a tutti gli effetti e non una mimica come molti ancora adesso pensano. Se l'handicap come risorsa viene rivendicata a livello scientifico noi questo concetto di risorsa lo possiamo anche utilizzare nelle nostre classi per l'integrazione dei gravissimi.

 
Crescere attraverso l'integrazione

 
Io non posso non riportare delle esperienze dirette aldilà delle teorie. Credo ad esempio che ci sarà un grosso momento di sviluppo dell'integrazione se i CST (Centri socio-terapeutici dove vengono inseriti i gravissimi) verranno collegati con la scuola.

Un grande momento di crescita anche personale è avvenuto tre anni fa quando un Centro socio-terapeutico della provincia di Torino chiese alla mia scuola di integrare due ragazzi che non si muovevano. Il mio istituto è un istituto professionale per la grafica e la pubblicità. Due educatrici estremamente coraggiose mi hanno avvicinato e mi hanno chiesto di integrare questi due ragazzi. Noi sapevamo che la legge ci obbligava a prenderli ma nella scuola superiore (come nelle altre scuole) ci sono ancora strumenti dissuasivi sia nei confronti delle famiglie che degli educatori ecc.... Basta cominciare a descrivere le difficoltà o ad usare una serie di tecniche verbali. Noi abbiamo chiaramente detto: "Nadia e Giuseppe non li vogliamo, perché il nostro è un istituto per la grafica e la pubblicità. Loro non si muovono.

 
A che cosa ci servono?". E la risposta degli educatori ci ha veramente colpito. "Ma loro possono guardare". E la visività è l'essenza del nostro istituto. Loro vedono, giudicano e imparano. Solo che noi abbiamo ribattuto che Nadia e Giuseppe non erano interattivi e allora loro hanno richiesto l'integrazione almeno per poche ore. Poi invece c'è stato un soprassalto d'orgoglio della scuola, se l'integrazione di Nadia e Giuseppe doveva esserci, la volevamo per tutte le ore. Non solo, ma si doveva trattare di un'integrazione naturalmente e chiaramente valutata. Doveva essere un'integrazione completa. Nadia e Giuseppe dovevano anche essere interattivi. Ci sono state molte polemiche, siamo stati anche un pò cattivi con questo Centro socio-terapeutico, che allora sollecitato dalla scuola ha cominciato un progetto chiamato "Progetto comunicazione". L'avvenimento più importante dell'integrazione è naturalmente la comunicazione.
Questo progetto però prevedeva un elemento estremamente importante che era il volontariato dei nostri ragazzi all'interno del Centro socio-terapeutico. A Torino come in ogni grande città vi è una micro criminalità diffusa, grande presenza di droga e l'unico momento significativo è quello della prevenzione.


Si sconfigge la microcriminalità dando un senso alla vita dei ragazzi. Si tratta di prevenire la noia, prevenire il senso di inutilità, dare uno scopo ai ragazzi. Allora nel momento in cui cominciava quello che era il progetto comunicazione, alcuni ragazzi hanno incominciato ad andare nel Centro socio-terapeutico come volontari, chiaramente supportati dalla scuola e sostenuti dal centro. Abbiamo così visto crescere nei ragazzi la dignità perché loro sapevano non di accettare un compagno, ma di andare in modo attivo a crescere come volontari in questo Centro socio-terapeutico. Una serie di rapporti positivi nel centro, gli educatori e i disabili hanno determinato un innalzarsi del livello dei ragazzi stessi.

 
L'elemento magico è stato quando al Centro socio-terapeutico hanno scoperto che Nadia e Giuseppe potevano comunicare. La diagnosi di Nadia era una diagnosi di spasticità diffusa, di movimenti scomposti. Giocando con Nadia, agitandola, toccandola i compagni hanno scoperto che Nadia muoveva il ginocchio sinistro volontariamente. Nadia per venti anni aveva cercato di comunicare con il mondo esterno e questa comunicazione era stata vista solo come spasticità diffusa. Si è scoperto che Nadia poteva comunicare. Nadia è stata messa su una sedia a rotelle, le è stata applicata una sbarretta e un microchip e muovendo il ginocchio poteva già rispondere a domande con si o no. Allora noi abbiamo avuto la testimonianza che Nadia poteva essere in prima persona un soggetto attivo all'interno della scuola. L'integrazione di Nadia chiaramente è iniziata già quando i ragazzi hanno cominciato a presentarsi come volontari in questo Centro terapeutico e ancor più nel momento in cui ci si è occupati della famiglia. Noi abbiamo scoperto, e questo è stato importante, che i ragazzi parlavano di queste cose in famiglia e che i genitori erano curiosi di quello che succedeva e i genitori hanno chiesto di andare anche loro nel Centro socioterapeutico.

Il primo momento di integrazione reale è stato quando si è organizzata una piccola assemblea dei genitori e della classe in cui sarebbe arrivata Nadia; essi hanno parlato tra di loro e hanno poi invitato i genitori di Nadia. Il momento di accoglienza per i ragazzi è stato così un momento di valorizzazione. Loro facevano dei lavori di scrittura creativa, hanno fatto una serie di poesie e prose su Nadia e per Nadia. Quando Nadia è entrata per la prima volta nella scuola hanno consegnato, a lei e ai suoi genitori, un testo che parlava di lei. In anticipo Nadia era già nei loro cuori e nelle loro coscienze. Allora questa integrazione è stata un momento di valorizzazione altissima perché i ragazzi si sono resi conto che avevano delle capacità attive, delle specialità comunicative e perché no anche delle possibilità riabilitative.


Il ruolo fondamentale dei pari


Ci rendiamo conto dell'importanza dei ragazzi. I ragazzi sono curiosi, interessati, non hanno i pregiudizi che abbiamo noi, ma hanno una curiosità naturale che molte volte noi abbiamo bloccata. Ricordo quando una psicologa venne in classe perché avevamo un ragazzo con una diagnosi di epilessia che dava fastidio alle ragazze. Venne una volta questa psicologa, quando il ragazzo non c'era e ha detto: "Mi raccomando accettate quello che fa, non parlate, state attenti"; i ragazzi si sono ribellati. Hanno detto: "Daniele (questo è il suo nome) si comporta male e noi glielo diciamo in faccia".

Accettare la sua epilessia è il rispetto della sua presenza. Ci siamo resi conto che il concetto di malattia molte volte giustificava una serie di comportamenti abnormi. Troppe volte ho sentito dire: lasciamoli stare, lasciamoli gestire la propria diversità. Noi ci siamo resi conto che tutte le volte che i ragazzi e le ragazze mettevano Daniele difronte alle sue responsabilità non c'erano crisi di epilessia. Quando invece c'era la falsità, il momento di confusione e di ipocrisia ritornava l'epilessia. Daniele ha cominciato così a capire se stesso. E' stato molto utile, per me, ad esempio chiamare un amico con diagnosi di epilessia, felicemente sposato, presidente di distretto, a parlare della sua esperienza. Esiste una terapia farmacologica. Se questa terapia viene rispettata si può andare avanti e ad un certo punto si può rispondere alle sfide molto importanti della vita.

Quella che è stata la pedagogia dei pari si è in questo caso sommata alla pedagogia dell'handicap. Un handicappato stesso, epilettico grave, ha parlato della sua esperienza e ha fatto partecipi gli allievi di un percorso estremamente interessante.


Abbattere i pregiudizi, costruire l'integrazione


L'ultimo elemento che io vorrei proporre è la consapevolezza, la coscienza del valore dei gravissimi e della loro integrazione per noi docenti. Noi pensiamo molte volte che l'integrazione dei gravi o dei gravissimi sia solo un'integrazione di tipo sociale, socio relazionale. Niente di più sbagliato. La sola presenza del ragazzo nella scuola non è integrazione, la presenza del ragazzo nell'auletta handicap non è integrazione. L'integrazione si realizza all'interno della classe e in tutte le ore, facendo in modo che l'integrazione abbia un percorso di tipo didattico; essa viene realizzata ed è terapeutica se viene proposto uno scenario all'handicappato. Se l'handicappato viene solo mantenuto in classe lui ne ha coscienza. Una delle cose più gravi che avvengono è che molte volte alla diagnosi di handicap viene anche collegata una diagnosi di deficit di tipo psichiatrico e psicologico. L'ex ministro Antonio Guidi, spastico grave, diceva che molte volte gli altri pensavano che lui non fosse solo spastico ma anche stupido, e il momento più alto d'integrazione lui l'ha avuto con una persona che gli si è avvicinata e gli ha chiesto la strada. Questo che cosa vuol dire? Vuol dire che molte volte noi normododati aggiungiamo handicap ad handicap.

Non pensiamo invece che ci sia questa grossa capacità e soprattutto che ci sia questa grossa consapevolezza da parte dell'handicappato di essere handicappato. Eppure quante volte abbiamo visto l'allievo handicappato inserito che non manifestava se stesso, perché era consapevole, intimorito da una diagnosi o intimorito dalla paura degli adulti. Nel momento in cui invece abbiamo proposto un percorso di tipo didattico, un percorso di tipo cognitivo l'handicappato si è liberato dai suoi timori.


Un percorso educativo-didattico può essere fatto per qualsiasi tipo di handicap. Per merito dell'integrazione si raggiunge una vera e propria individualizzazione dell'insegnamento.
Per Nadia e Giuseppe abbiamo proposto un percorso cognitivo. Abbiamo preparato una serie di test a cui potevano rispondere si o no. E pensare che c'era stata la psicologa che si era spaventata e aveva detto: "Prendiamo Nadia e vediamo se intellettivamente è capace". In anticipo c'era già il pregiudizio. E' stato interessante quando un bambino ha detto: "Ma guardate che Nadia capisce tutto". La pedagogia dei pari ci permette di intervenire laddove molti dei nostri pregiudizi ci bloccherebbero. E Nadia adesso fa i suoi compiti in classe, Nadia con la sua sbarretta e con il suo microswitch (che costa poi pochissimo) risponde ad una serie di test con si o no. Nadia è estremamente felice e tra l'altro fa i suoi temi, ha proposto indicazioni sulle fotografie, ha fatto una campagna pubblicitaria. Insomma c'è stato un collegamento attivo all'interno della classe perché Nadia era inserita in una rete di rapporti che magari non è analoga a quella di Hawking, ma è una rete di rapporti normali che la aiutano a inserirsi nella normalità. E quello che è interessante è che Nadia è rifiorita anche dal punto di vista corporeo, il fatto di rimanere all'interno della classe, di dimostrare una serie di capacità ha fatto si che lei cominciasse ed avere più appetito, a dimostrare delle necessità che prima non aveva. E non parliamo poi del beneficio per tutta la classe.
Io penso che questa consapevolezza non è nata adesso. C'è un marchigiano, che vorrei citare, che nel 1821 scriveva queste cose. Aveva uno scartafaccio dove metteva i suoi pensieri tutti i giorni e nel momento in cui parla delle capacità più alte dell'uomo cita gli handicappati. Lui dice: "Le meravigliose facoltà che acquistano i sordi, i ciechi o nati o divenuti sono una gran prova di quanto le nostre facoltà e quelle dei viventi derivano dell'assuefazione e di quanto sia sviluppabile, pieghevole, modificabile, duttile e conformabile la natura umana". Parlando degli handicappati dice che essi non testimoniano la grandezza dell'handicappato, ma testimoniano la grandezza dell'uomo. Questo egli lo scriveva il 27 agosto del 1821, ma è un'idea che circola in tutte le fasi dello scartafaccio. Dice ancora: "Osservate l'incredibile abilità che acquistano i ciechi nella musica o in altro, i sordi nell'intendere per segni e tanta facilità e prontezza con cui essi sebbene acerbi, d'intelletto tardissimo, arrivano a quello con cui molta maggior fatica e tempo arrivano o ancora non arrivano i sani, sebbene di grande ingegno. E poi ditemi di che cosa consiste il talento se non di quelle circostanze e se l'uomo non sia capace di cose incredibili".


Questo Giacomo Leopardi diceva degli handicappati.


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