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PASQUA DI RESURREZIONE In questi giorni siamo stati scossi, soprattutto per la risonanza del bombardamento mediatico, da due avvenimenti entrambi drammatici: la vicenda della cittadina americana in coma da svariati anni e la malattia del papa. La prima vicenda ha visto contrapposti i due fronti quello favorevole all’eutanasia ( anche se è stato giustamente osservato che in questo specifico caso non si possa parlare propriamente di eutanasia, date le condizioni di non morte cerebrale) e quello della difesa della vita. Giustamente è stato polemicamente fatto notare che i Conservatori americani che si stanno battendo per la vita di questa persona sono i più strenui sostenitori della pena di morte. Giustamente molti genitori di persone con disabilità hanno fatto presente che le condizioni della cittadina americana non sono molto dissimili da quelle di molti loro figlioli, per la cui vita e la cui integrazione sociale possibile essi si sono battuti e continuano a battersi. La seconda vicenda, come è ovvio, assume anche profonde connotazioni religiose, talora però eccessive. Insistere, come taluni hanno fatto, sul valore della sofferenza del papa, mi sembra un’ingerenza profonda nella sua intimità e nel suo senso di vivere il valore salvifico della sofferenza in senso cristiano. Non mi sembra corretto esaltare mediaticamente il valore della sua sofferenza che è un valore profondamente personale, inquadrato in una visione mistica della vita che non si può sbandierare come un prodotto pubblicitario. Io ho sempre sostenuto che, di fronte al mistero del dolore, occorre sospendere il giudizio pubblico, come giustamente ci insegna il libro di Giobbe, dove il protagonista giustamente rimprovera tutti quelli che si sforzano di dimostrargli perché è giusto ed ha un senso che egli soffra. Ed anche il mistero più profondo della Morte di Gesù merita molto più rispetto delle facili spiegazioni misticheggianti che solitamente si leggono e sentono. Non per nulla, il testo della messa recita, dopo la consacrazione “ questo è il mistero della fede”. Voler dare per forza una risposta, talora di comodo, al mistero della sofferenza, è una grave tentazione che talora viola la privacy delle persone sofferenti. Anche fra gli Ebrei, qualcuno discute se non sia il caso di sostituire il termine “Olocausto” con altro più laico. Infatti “Olocausto” significa sacrificio ed i sacrifici hanno , tradizionalmente, un senso religioso ed una finalità, mentre qui si è trattato di un’immane tragedia dovuta alla depravazione della stirpe umana senza alcun senso e finalità salvifica. Il voler attribuire alla sofferenza un valore salvifico astratto mi ha sempre lasciato assai perplesso. Infatti anche i fondamentalisti islamici che si fanno esplodere credono di sacrificare la loro vita per un bene superiore con le conseguenze per il valore della vita propria e degli altri che è sotto gli occhi di tutti. Personalmente sono fra quelli che credono che il sacrificio, specie umano, sia un retaggio del passato preistorico. Non per nulla il vecchio testamento descrive l’episodio del mancato sacrificio di Isacco, proprio come esempio della volontà di Dio che siano superati in perpetuo i sacrifici umani come propiziatori della divinità. Giustamente i profeti della Bibbia dicono che Dio non ama i sacrifici, ma vuole la conversione dei cuori. Non per nulla Gesù ha contestato la logica ferrea dell’applicazione inumana della legge , dichiarando che è il Sabato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato e per questa radicale contestazione è stato condannato a morte. Giustamente i credenti in Gesù hanno proclamato la gioia della sua Resurrezione e san Paolo scrive che se Gesù non fosse risorto vana sarebbe stata la Croce e vana sarebbe la nostra fede. In questi giorni in cui a livello mediatico si pone tanto, in modo compiaciuto, l’accento sul valore della sofferenza , mi permetto di proporre di riflettere sul valore salvifico della resurrezione non solo di Gesù ma di tutti quanti sono schiacciati dal peso del dolore fisico e psicologico, sforzandoci, ciascuno nel nostro piccolo, di contribuire ad alleviarlo in chi lo subisce. Ciò è quanto fanno le famiglie delle persone con disabilità e le stesse persone con disabilità fisica e sensoriale, che lottano per il superamento dell’handicap e l’integrazione nella società e nelle comunità religiose come membri attivi ed a pieno titolo. Salvatore Nocera |
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