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RAPPORTO ISTAT 2004 ''La diffusione di nuovi modelli familiari rappresenta forti cambiamenti sociali, che però non sono stati compresi''. Crescono gli occupati, ma 2,5 milioni di persone sono nella ''zona grigia'', cioè prossimi alla disoccupazione
E’ stata resa nota oggi la 13a edizione del “Rapporto annuale sulla situazione del Paese” dell’Istat, il principale strumento di analisi sugli aspetti economici, demografici e sociali, prodotto ogni anno dall'Isituto di statistica. Organizzato in quattro capitoli e arricchito da tavole statistiche e approfondimenti, il volume offre un'analisi dettagliata sulla congiuntura economica del Paese, l'andamento del sistema produttivo nel contesto europeo, il mercato del lavoro e le trasformazioni occorse all'interno delle strutture familiari.
“Il nostro Paese – afferma il Rapporto - attraversa un fase di perdurante stagnazione economica che fa aumentare le ‘incertezze’ sul futuro e il clima di sfiducia. Complessivamente l’Italia sembra ancora non saper guardare oltre le sfere individuali e avere una scarsa propensione a fare sistema (…). Si è portati a ritenere che i segnali sui possibili rischi per lo sviluppo economico e sociale del Paese e per la qualità della vita dei cittadini non siano stati colti nella loro reale portata”. “Lo studio della segmentazione del mercato del lavoro – precisa il Rapporto - ha consentito di mettere in evidenza le situazioni positive e quelle di precarietà, sia a livello individuale che per gruppi di famiglie disagiate. Le profonde trasformazioni delle famiglie e la diffusione di nuovi modelli familiari rappresentano forti cambiamenti sociali, che però non sono stati compresi e interpretati adeguatamente dai policy maker, dalle istituzioni e dalle imprese. I nuovi attori sociali e le nuove forme familiari esprimono infatti in gran parte domande e bisogni inediti, che richiedono risposte anch’esse inedite e innovative. L’affidamento alle reti familiari e la spinta a maggiori consumi e incrementi di reddito non possono costituire le uniche risposte. Meno che mai possono essere sufficienti a sollevare individui e famiglie dall’incertezza e dalla sfiducia”. Per l’Istat, dunque, “occorre offrire un quadro di orizzonti individuali sufficientemente certi, abbassare i costi del cambiamento e il rapporto costi/benefici del rischio di innovare, fornire prospettive di crescita valide e credibili per tutti, per le ragazze e i ragazzi, per le giovani coppie, per le donne e le madri lavoratrici, per i lavoratori extracomunitari, per gli imprenditori, per le nuove tipologie di famiglie”. Ecco, comunque, quanto evidenziato dal rapporto, soprattutto per quel che concerne gli aspetti ‘sociali’.
Responsabilità sociale d’impresa. I risultati di una nuova indagine sul tema della responsabilità sociale d’impresa con riferimento al 2003, mostrano che il 94,6% delle imprese con almeno 100 addetti ha adottato almeno una iniziativa di responsabilità sociale. Il trattamento selettivo dei rifiuti (adempimento richiesto dalla legge) è il tipo di iniziativa cui le imprese aderiscono più frequentemente (88,5% dei casi); seguono la riduzione delle emissioni inquinanti (62,7%), il rafforzamento della comunicazione interna (61,8%) e la promozione di cause sociali attraverso donazioni e sponsorizzazioni (56,5%).
Lavoro. La crescita dell’occupazione nell’ultimo decennio ha consentito solo in piccola parte di colmare la distanza ancora notevole che separa l’Italia dagli standard richiesti dall’Unione europea. Per l’Istat, il fenomeno della sottoccupazione nel 2004 ha riguardato quasi un milione di persone ed è per oltre la metà di natura strutturale. I tassi di sottoccupazione più alti si registrano in contesti, come il Mezzogiorno, che presentano tassi di disoccupazione elevati e di occupazione più bassi. La debolezza dell’apparato produttivo non genera soltanto barriere all’ingresso nell’occupazione, ma anche la sottoutilizzazione delle potenzialità produttive degli occupati. Circa metà dei sottoccupati si considera tale in modo abituale, mentre sarebbe disponibile e interessata a lavorare di più. “Le caratteristiche individuali dei disoccupati mettono in risalto situazioni più critiche per le donne, per i giovani, per i meno istruiti e per chi si pone per la prima volta alla ricerca di un lavoro – afferma il Rapporto -. L’analisi sul territorio mette in luce modelli talmente distanti da configurare diversi mercati del lavoro: il tasso di disoccupazione, pur essendo molto diminuito, è nel Mezzogiorno (15%) circa il triplo di quello del resto d’Italia. Inoltre, il contesto familiare dei disoccupati consente di cogliere elementi di difficoltà che sfuggono all’analisi delle situazioni individuali. Non trova conferma la lettura tradizionale di una disoccupazione essenzialmente giovanile inserita in un contesto familiare che aiuta ad affrontare i problemi connessi a questa condizione: la maggior parte dei disoccupati (oltre un milione e 100 mila persone) vive in famiglie con difficoltà economiche, come testimoniano le condizioni lavorative degli altri membri presenti in famiglia. E per di più l’incidenza sul totale dei disoccupati con responsabilità familiari è pari a circa il 44 per cento”.
Sempre secondo l’Istat, nel 2004 i disoccupati di lunga durata in Italia sono 935 mila, quasi il 50% del complesso dei disoccupati. È un fenomeno fortemente differenziato tra i soggetti e sul territorio; il tasso di disoccupazione di lunga durata è del 3,8%, ma arriva al 5,3% per le donne e all’8,2% nel Mezzogiorno e tende inoltre ad aumentare al crescere dell’età. “Nell’ambito dell’inattività – si legge nel Rapporto - è possibile distinguere due segmenti di popolazione che presentano diversi livelli di contiguità con il mercato del lavoro: coloro che se ne collocano decisamente al di fuori e coloro che presentano elementi di prossimità con l’area della disoccupazione, in relazione a comportamenti di ricerca del lavoro e di disponibilità a lavorare. In termini di potenziale partecipazione al mercato del lavoro, la rilevanza di questa “zona grigia” risalta già a partire dalla sua consistenza: oltre due milioni e mezzo di persone, cioè più dei disoccupati. Inoltre, la presenza nell’area della inattività di un gran numero di studenti suggerisce due considerazioni: nell’immediato contribuisce in misura significativa allo stock degli inattivi che non cercano lavoro e non sono disponibili; nel medio periodo, il consolidarsi di strategie di investimento in formazione può preludere a un innalzamento delle competenze a disposizione del mercato del lavoro”.
La situazione dei laureati a tre anni di distanza dal conseguimento del titolo fa però sorgere interrogativi sulla capacità del sistema di assorbire le competenze maturate nel corso degli studi. Infatti, dopo il conseguimento del titolo, soltanto la metà dei giovani trova sbocchi professionali coerenti con il livello di competenze acquisito, con responsabilità che verosimilmente sono da attribuire sia alla organizzazione dell’offerta formativa universitaria (che però è stata recentemente modificata e ampliata), sia alla mancanza di una chiara domanda da parte delle imprese. Nell’ultimo anno la riduzione della disoccupazione, che si è manifestata di pari passo con il rallentamento della dinamica espansiva dell’occupazione, è da ricondurre principalmente all’uscita dal mercato del lavoro delle classi di età più giovani e della componente femminile del Mezzogiorno, con conseguente incremento dell’area dell’inattività. Le difficoltà del mercato del lavoro, legate al limitato tasso di crescita dell’economia, hanno quindi avuto ripercussioni negative soprattutto sulle categorie più vulnerabili.
Il modello italiano di welfare continua a basarsi sulla disponibilità della famiglia. Aumentano i ''care giver'' ma diminusicono i nuclei familiari aiutati, ad eccezione di quelli con persone non autonome o con madre occupata
Il modello italiano di welfare continua a basarsi sulla disponibilità della famiglia nei confronti dei segmenti più deboli di popolazione. I forti legami di solidarietà continuano a concretizzarsi in aiuti per assistere gli anziani (19%) e i bambini (25%), fare compagnia, accompagnare o dare ospitalità (28%), fornire aiuti domestici (23%), dare un sostegno economico (18%), effettuare prestazioni sanitarie (12%), aiutare nello studio (10%) o nel lavoro (11%). “Il numero di individui coinvolti attivamente nelle reti di aiuto informale è andato crescendo nel corso degli ultimi venti anni , con un ovvio marcato invecchiamento dell’età media dei ‘care giver’ e con una prevalenza di donne. Sono aumentate le persone che forniscono aiuto, soprattutto nella classe di età 65-74 anni, tra le persone con titolo di studio più elevato e tra quelle che occupano posizioni professionali più alte (forniscono aiuto gratuito il 34 per cento dei dirigenti, imprenditori e liberi professionisti, il 28 per cento degli impiegati e il 19 per cento degli operai). Si organizza nell’ambito delle associazioni di volontariato l’8” delle persone che forniscono questi aiuti (erano meno del 6% nel 1998)”.
Nonostante l’aumento dei ‘care giver’, le famiglie aiutate sono diminuite, passando dal 23% del 1983 al 17 del 2003. La riduzione è generalizzata, con l’eccezione delle famiglie con persone con gravi problemi di autonomia e di quelle con madre occupata. Al contrario tra le famiglie con anziani quelle aiutate diminuiscono considerevolmente (dal 29 al 18% in venti anni). Il sostegno rivolto agli anziani proviene da una rete più articolata che in passato, e vede la condivisione del carico tra più attori (rete informale, operatori pubblici e privati). Questa dinamica, già evidente tra il 1983 e il 1998, è proseguita anche negli ultimi cinque anni con un incremento per i servizi offerti dalle istituzioni pubbliche, che oggi riguardano circa un quarto del totale delle famiglie con anziani aiutate (rispetto al 17% del 1998), contro il 36% degli aiuti privati e il 67% della rete informale. Anche le famiglie con bambini ricevono aiuti da una pluralità di attori: i servizi pubblici (12 per cento dei casi, in aumento rispetto al passato), quelli privati (25 per cento) e la rete informale (77 per cento). Una funzione fondamentale è svolta dai nonni non coabitanti, ai quali viene affidato il 36 per cento dei bambini con meno di 13 anni.
Accanto al sostegno della rete, per le famiglie con bambini con meno di 2 anni, sono gli asili nido a svolgere una funzione sempre più importante. Negli ultimi cinque anni i bambini che frequentano il nido sono aumentati da 140 mila a 240 mila. Il nido è sempre più spesso considerato dai genitori una esperienza educativa, ma la quota di bambini che vanno al nido è ancora al di sotto del 20 per cento e nel 43 per cento dei casi si tratta di un nido privato. L’incremento della domanda del servizio di asilo nido è stato dunque soddisfatto prevalentemente dalle strutture private, con costi piuttosto elevati (in media 273 euro al mese a fronte di 145 per i nidi pubblici). È importante ricordare che, secondo i risultati della rilevazione continua sulle forze di lavoro, una capillare diffusione di strutture e servizi a sostegno delle famiglie potrebbe influenzare la disponibilità di 724 mila donne (il 3,8 per cento della popolazione femminile tra 15 e 64 anni) a modificare la propria condizione nel mercato del lavoro, passando, tra le occupate, da un regime orario part-time a uno full-time (160 mila), oppure muovendosi da una situazione di inattività a una di ricerca di occupazione (564 mila).
Cambiano le famiglie: perde terreno il modello tradizionale e crescono single e genitori soli, coppie di fatto, celibi e nubili, famiglie ricostituite (5 milioni in tutto, il 23% del totale). Donne ancora gravate dal lavoro domestico
“I mutamenti sociali e demografici degli ultimi due decenni hanno cambiato profondamente le famiglie. Le fasi del ciclo di vita si dilatano e si trasformano, determinando di conseguenza cambiamenti nelle strutture, nelle relazioni e nelle reti delle famiglie. Soggetti sociali nuovi o per lo meno differenti vanno prendendo consistenza”. Si afferma: “Non è soltanto diminuita la dimensione media delle famiglie, in relazione alla bassissima fecondità. Il miglioramento delle condizioni di salute negli adulti e negli anziani ha modificato i tempi e i modi della transizione alla vecchiaia, conferendo agli individui maggiori opportunità per ridefinire scelte, ruoli, rapporti e percorsi di vita. La maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha portato a nuovi modelli di relazioni familiari, a rapporti meno gerarchici del passato e a nuovi bisogni, in gran parte ancora insoddisfatti. I cambiamenti vanno di pari passo con il generale processo di semplificazione delle strutture familiari, che vede ridursi il peso delle famiglie con più generazioni (quelle, ad esempio, in cui sono presenti almeno un figlio e un genitore, oppure un nonno e un nipote): tra il 1993 e il 2003 diminuiscono, in particolare, le coppie con figli (dal 48 al 42 per cento) e aumentano le persone sole (dal 21 al 26 per cento)”. Il miglioramento dei livelli di sopravvivenza fa sì, inoltre, che le persone che vivono in coppia condividano una parte sempre più lunga della vita: gli anziani tra i 74 e gli 85 anni che vivono ancora in coppia sono passati dal 40 al 48 per cento negli ultimi dieci anni.
Il modello tradizionale di coppia coniugata con figli perde terreno, mentre crescono di importanza nuove forme familiari: single e genitori soli non vedovi, coppie di fatto di celibi e nubili, coppie in cui almeno uno dei partner proviene da una precedente esperienza coniugale. Si tratta, nel 2003, di oltre 5 milioni di famiglie (circa il 23% del totale), con un incremento di 5 punti percentuali rispetto a dieci anni prima. I single non vedovi sono più di 3 milioni: in maggioranza (oltre il 53%) sono uomini con un’età media di 46 anni (contro i 52 delle donne); tra gli uomini in questa condizione prevalgono i giovani (25-44 anni), tra le donne le anziane (65-74 anni). I genitori soli (celibi, nubili, separati o divorziati) sono circa 930 mila (erano 623 mila dieci anni prima); in nove casi su dieci si tratta di madri sole, per lo più separate o divorziate. Per effetto di una crescente precocità delle separazioni coniugali, i nuclei di genitori soli con figli minori aumentano, passando da 360 mila a 563 mila. Tra i fenomeni emergenti vi è l’aumento delle unioni di fatto, cioè delle coppie non coniugate, che sono passate da 227 mila del 1993 a 555 mila nel 2003. Aumenta in particolare la quota di unioni costituita da celibi e nubili (sono il 48% nel 2003 contro il 30% di dieci anni prima). “È una scelta fatta sempre più spesso da giovani – afferma l’Istat -: il 44% delle donne e il 33% degli uomini, infatti, ha meno di 35 anni. L’Italia si avvicina così sempre più al modello europeo di convivenza, dove la componente giovanile ha un peso fondamentale. Inoltre, la convivenza in libera unione, che in Italia si caratterizzava in passato prevalentemente come fase preparatoria al matrimonio, rappresenta oggi anche una alternativa al matrimonio. Negli ultimi cinque anni diminuisce, dal 42 al 32 per cento, la quota di coppie in libera unione in cui i partner sono decisi a sposarsi, mentre aumenta, dal 18 al 25 per cento, quella di chi non prevede il matrimonio”.
Le famiglie ricostituite (quelle in cui almeno uno dei partner proviene da un precedente matrimonio) sono 724 mila nel 2003. Il 44% è senza figli e il 35% ha solamente figli in comune. Cresce inoltre (dal 66 al 72%) la quota di famiglie ricostituite in cui è presente almeno un separato o divorziato. Un ulteriore elemento di cambiamento riguarda la crescente presenza di famiglie straniere, dovuta, oltre che all’intensificarsi dei flussi migratori, alla stabilizzazione della popolazione immigrata. Le famiglie con almeno un componente straniero sono quasi triplicate nel decennio intercensuario 1991-2001 (passando da 235 mila a 672 mila) e sono aumentate sia per effetto dei ricongiungimenti familiari, sia per la costituzione di nuovi nuclei nel nostro Paese.
È aumentata in misura rilevante (dal 44 del 1991 al 55 per cento del 2001) la quota di famiglie costituite da un solo nucleo (coppie con o senza figli o nucleo monogenitore). Le trasformazioni delle strutture familiari si intrecciano con quelle dei comportamenti e dei ruoli nelle diverse età della vita, sia all’interno della famiglia, sia nell’ambito della rete di relazioni interfamiliari. “I giovani celibi e nubili tra i 25 e i 34 anni che vivono ancora nella famiglia di origine passano dal 26 al 35% in dieci anni, superando ormai la quota dei loro coetanei che vivono in coppia con figli (che diminuiscono dal 42 al 28%). Questa prolungata permanenza dei figli adulti, celibi e nubili, all’interno della famiglia è stata favorita dall’allungamento dei tempi formativi e da rapporti tra le generazioni sempre più paritari. In tempi recenti a questi fattori sembrano aggiungersi, come in un più lontano passato, la difficoltà di ingresso nel mondo del lavoro, la dilatazione dei tempi necessari al conseguimento di una posizione lavorativa stabile e i problemi legati alla disponibilità di un’abitazione autonoma. Tuttavia, il fenomeno sta rallentando e, soprattutto, stanno cambiando le motivazioni: sono in calo i giovani che dichiarano di stare bene in famiglia; mentre sono in aumento quelli che attribuiscono la permanenza in famiglia a problemi di ordine economico (difficoltà di trovare un lavoro stabile, di acquistare o affittare un’abitazione). Infine aumenta, ancorché in misura contenuta, il gruppo di coloro che non intendono rinunciare ai vantaggi (materiali e immateriali) che derivano dallo stare in famiglia”.
Cambia anche il modello di condivisione degli impegni familiari, ma più lentamente di quanto non stia avvenendo sul piano delle strutture, e per effetto dei comportamenti delle donne, più che di quelli degli uomini. Secondo l’indagine multiscopo sull’uso del tempo, condotta a distanza di 14 anni dalla precedente, le donne, soprattutto quelle con figli, continuano a essere fortemente gravate dal lavoro familiare. “Per le donne in coppia di 25-44 anni – afferma il Rapporto Istat - il tempo complessivamente dedicato al lavoro familiare si comprime un po’ rispetto a 14 anni prima, e si osserva una redistribuzione interna: considerando solo le attività prevalenti, dedicano più tempo ai figli piccoli (28 minuti in più), che tuttavia sono meno numerosi che in passato, e riducono l’impegno nei servizi domestici (51 minuti in meno)”. La riduzione del tempo di lavoro familiare da parte delle donne è una tendenza generalizzata. Nonostante ciò permane un forte carico di lavoro familiare su quelle che lavorano, in particolare quelle con figli piccoli. “Le occupate di 25-44 anni che vivono in coppia dedicano al lavoro extradomestico sei ore e mezza (circa due ore in meno degli uomini occupati), al lavoro familiare cinque ore (quasi tre ore in più) e al tempo libero due ore e mezza (quasi un’ora in meno). L’assenza di un partner, inoltre, consente alle madri sole di risparmiare una parte non trascurabile di lavoro domestico, mediamente quasi due ore in meno rispetto alle donne in coppia con figli anche a parità del numero di figli”. Qualche cambiamento, seppure di minore entità, si osserva anche nell’universo maschile. Aumenta la partecipazione degli uomini al lavoro familiare (dal 72 al 77%), soprattutto se la donna lavora e in presenza di un figlio piccolo, e cresce anche la durata media delle attività, anche se soltanto di 16 minuti. In generale cresce il tempo dedicato al lavoro extradomestico e, in particolare, quello dedicato agli spostamenti sia per gli uomini che per le donne (complessivamente di circa 50 minuti al giorno), mentre diminuisce per entrambi il tempo libero (di circa mezz’ora). In sintesi, il 77 per cento del tempo dedicato al lavoro familiare è ancora a carico della donna (contro l’85 per cento del 1988-1989) mostrando il persistere di una significativa disuguaglianza di genere, pur con qualche segnale di riequilibrio. Quando la donna lavora, la condivisione dei carichi di lavoro familiare è solo leggermente meno sbilanciata.
Mutamenti importanti interessano anche le reti sociali in cui la famiglia è inserita, alle quali le famiglie fanno riferimento, specie nei momenti di difficoltà. Con l’evolversi del ciclo di vita la rete dei parenti o dei contatti invecchia, si assottiglia e si diradano le relazioni con altre figure di parenti, oltre ai figli, ai fratelli e ai nipoti. Di conseguenza, alcuni segmenti di popolazione diventano più vulnerabili: in particolare le madri sole (la loro rete familiare è circa la metà di quella delle coniugate), gli anziani celibi e nubili e separati o divorziati che vivono soli. Gli anziani soli (celibi e nubili) possono contare in media su appena due parenti e addirittura oltre il 50 per cento non ha parenti su cui contare. Tra gli anziani vedovi di 75 anni e più il rapporto con i figli rappresenta la risorsa più importante, in maggior misura per le donne.
La crescita occupazionale dell'ultimo biennio è da ricondurre al crescente inserimento di lavoratori extracomunitari; ma il loro lavoro si caratterizza per l'alta mobilità e per più basse retribuzioni
Come è noto, la crescita occupazionale complessiva dell’ultimo biennio è da ricondurre principalmente al crescente inserimento di lavoratori extracomunitari, che ha avuto una forte accelerazione per effetto della regolarizzazione dei rapporti di lavoro subordinato instaurati dalle imprese con extracomunitari privi di permesso di soggiorno. La crescita si concentra nel settore delle costruzioni, ma anche in alcuni settori dei servizi (imprese di pulizia eccetera). L’incremento è leggermente inferiore nell’industria in senso stretto, che però continua a essere il settore che assorbe la quota maggiore. Il lavoro degli extracomunitari si caratterizza anche per l’elevata mobilità: il tasso di permanenza dei regolarizzati nel posto per il quale è stata presentata la domanda di regolarizzazione è molto basso (circa il 38% a dicembre 2003). Inoltre, le retribuzioni pro capite dei lavoratori extracomunitari risultano inferiori a quelle del totale dei dipendenti; il differenziale, peraltro, si amplia nel 2003.
L’analisi qui presentata mette in risalto l’esistenza di un vasto potenziale di lavoro inutilizzato o sottoutilizzato. Alla luce della nuova documentazione offerta nel Rapporto, emergono due fenomeni diversi: la presenza di aree e segmenti di piena occupazione accanto ad altri in cui la disoccupazione si concentra; l’esistenza di una vasta area di “inattività” che verosimilmente nasconde nella bassa partecipazione fenomeni di disoccupazione “occulta”. “Appaiono necessari – afferma l’Istat - servizi per l’integrazione e la qualificazione dei lavoratori extracomunitari. Essi costituiscono una componente importante della crescita occupazionale dell’ultimo periodo, ma sono prevalentemente impiegati in posti a forte intensità di lavoro, basse qualifiche, lavorazioni rischiose e nocive; retribuiti meno dei lavoratori italiani; più soggetti a precarietà quanto alla durata dei contratti e alla permanenza nel posto di lavoro. Inoltre, la stabilizzazione delle famiglie degli immigrati richiede politiche di integrazione e di istruzione, rivolte soprattutto ai loro figli”.
Ammortizzatori sociali. Un’ulteriore indicazione riguarda gli ammortizzatori sociali. Afferma il Rapporto: “L’analisi del contesto familiare dei disoccupati rivela che, accanto ai ‘giovani disoccupati’ che ancora vivono in famiglie che li sostengono, esiste più di un milione di disoccupati con responsabilità familiari o che vive in famiglie con difficoltà economiche. La considerevole segmentazione del mercato del lavoro trova infine conferme nell’analisi della remunerazione dei dipendenti. Le differenze fra le retribuzioni lorde individuali del settore privato extragricolo nel 2002 riflettono la diversa produttività delle imprese e dei posti di lavoro, nonché le caratteristiche degli individui (quali il livello di istruzione). A parità di altre condizioni, vi sono comunque elevate differenze territoriali (i dipendenti del Mezzogiorno sono retribuiti circa il 10% in meno di quelli del Centro-nord), tra i lavoratori con contratto a tempo determinato e a tempo indeterminato (pur avendo contratti di lavoro che formalmente dovrebbero garantire loro la stessa remunerazione) e di genere (con un trattamento sfavorevole per le donne, in media di circa l’11%, a parità di posto di lavoro). Nonostante l’obiettivo dell’Ue di ridurre drasticamente il differenziale di trattamento economico tra uomini e donne, questa rimane una caratteristica sistematica dei mercati del lavoro di quasi tutti i paesi”.
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