Inizia da oggi, una campagna per un riconoscimento del nostro Paese ad una grande italiana.

La professoressa Ida Bianco Silvestroni, che insieme al marito - Ezio Silvestroni - negli anni prebellici ha scoperto l'etiologia della talassemia, sino a quel momento descritta da Cooley.

La professoressa Bianco merita un alto riconoscimento del nostro Paese non solo per i suoi meriti scientifici ma anche e soprattutto per il suo impegno sociale.

Ha speso il resto della sua vita (oltre ad aggiornare i suoi studi e le sue ricerche) a battersi per la prevenzione dell'anemia mediterranea (conosciuta anche come talassemia, nelle sue diverse forme, o morbo di Cooley).

I risultati del suo impegno, con screening in età scolare e prematrimoniali sono facilmente ravvisabili nei dati forniti dalle diverse regioni italiane ed in particolar modo da quelle meridionali.

La professoressa Bianco ha ricevuto una grande quantità di riconoscimenti dal mondo scientifico ed accademico e i suoi studi sono adeguatamente considerati nei trattati di ematologia.

Non mi sembra però che il nostro Paese sia stato sufficientemente grato nei suoi confronti.

Cerco aiuto per avviare e portare avanti questa campagna.

Flavio Cocanari


La prof.Bianco-Silvestroni in una foto recente, sullo sfondo il ritratto del marito Ezio

 

Ida Bianco Silvestroni 
Un impegno concreto per il  riconoscimento al suo impegno per la prevenzione della talassemia

 a cura di Flavio Cocanari,
 responsabile nazionale politiche dell'handicap e del disagio sociale  CISL 

E' in corso nel nostro Paese una campagna per il riconoscimento dell'impegno professionale nel campo medico e scientifico della professoressa Ida Bianco Silvestroni, che insieme al marito - Ezio Silvestroni - negli anni prebellici scoprì l'etiologia della talassemia, conosciuta anche come anemia mediterranea, nelle sue diverse forme, o morbo di Cooley, sino a quel momento sconosciuta per quanto riguardava le cause e i metodi di prevenzione.

La professoressa Bianco merita un alto riconoscimento del nostro Paese non solo per i suoi meriti scientifici ma anche e soprattutto per il suo impegno sociale.

Ha speso la propria vita (oltre ad aggiornare i suoi studi e le sue ricerche) a battersi per la prevenzione di questa malattia, un tempo assai diffusa, soprattutto nelle regioni meridionali, nelle isole, Sardegna e Sicilia in particolar modo e in alcune zone paludose del Veneto. 

I risultati del suo impegno, che hanno portato a screening in età scolare e prematrimoniali, sono facilmente ravvisabili nei dati forniti proprio da quelle regioni italiane dove la malattia era particolarmente presente e insidiosa.

La professoressa Bianco, nel corso della sua lunga attività professionale, ha ricevuto molteplici riconoscimenti dal mondo scientifico ed accademico e i suoi studi sono stati  adeguatamente considerati nei trattati di ematologia.

Non ci sembra però che il nostro Paese sia stato fino a questo momento sufficientemente riconoscente nei suoi confronti da qui l'appoggio e l'impegno di tutti noi, quindi, affinché arrivi al più presto anche dalle autorità governative un alto riconoscimento che sappia elevarla agli onori dei grandi d'Italia.


Ezio Silvestroni durante il suo lavoro in una foto storica

Una foto storica di Ida Bianco Silvestroni
 in un dei suoi tanti momenti insieme ai piccoli pazienti

Il sito dell'Associazione nazionale per la lotta contro le microcitemie in Italia


SCOPERTA E SVILUPPI DELLE CONOSCENZE SULLE MICROCITEMIE (TALASSEMIE) IN ITALIA
Contributi di Ezio Silvestroni e Ida Bianco

The beginning

Ufficialmente le prime notizie riguardanti le malattie talassemiche compaiono nella letteratura nel 1925.

In quell’anno a Detroit, nel Michigan, due pediatri (Cooley e Lee, 1925) descrivono in una brevissima comunicazione all’American Pediatric Society 5 bambini con la cosiddetta "von Jaksch’ disease" or "pseudoleukemic anemia" nei quali segnalano, però, oltre alla splenomegalia "a peculiar mongoloid appearence" e alterazioni ossee che vengono definite per il loro aspetto radiologico "pathognomonic of this disease". Successivamente segnalano (Cooley et al., 1927; Cooley e Lee, 1932) la familiarità della malattia, la presenza in circolo di eritroblasti, da cui il nome, dato in seguito, di anemia eritroblastica, l’aspetto mongoloide della facies così evidente "that we wonder that is has not been noted before", e la provenienza dei malati esclusivamente dall’Italia e dalla Grecia.

Casi sicuramente riferibili a questa affezione erano stati però già segnalati in Italia molti anni prima della comunicazione di Cooley e Lee: anzitutto da Fede (1889) e subito dopo da Cardarelli (1890) che a Napoli la descrive in un’ampia relazione alla Reale Accademia Medico-Chirurgica di Napoli; più tardi da Di Cristina (1911), Caronia (1913), Francioni (1928), Auricchio (1928), Maccanti (1928) e poi Careddu in Sardegna nel 1929. In tutte queste osservazioni vengono segnalati in parte o al completo i caratteri specifici della malattia (facies mongoloide, naso a sella, cranio voluminoso, familiarità) ma se ne attribuisce genericamente la causa a rachitismo, malaria, lue, tubercolosi, senza giungere, attraverso questi rilievi, ad una precisa identificazione della malattia.

In base a tutte queste osservazioni raccolte in Italia sull’anemia splenica infantile prima del 1925, Frontali nel 1940 e il suo Allievo Careddu nel 1941 ritengono di dover rivendicare la priorità degli studiosi italiani nella scoperta della malattia, mentre il pediatra Dondi (1936-37) ritiene che in Italia siano mancati studi sistematici completi sulle manifestazioni specifiche della malattia, cioè proprio quelle che hanno permesso poi agli Autori americani di descriverla come "una sindrome nuova".

Con la diagnosi di morbo di Cooley la malattia viene descritta per la prima volta in Italia solo nel 1933: a Ferrara dal radiologo Castagnari (1933) in un caso già inviato però con la diagnosi di morbo di Cooley, dal pediatra Ortolani (1936).

Intanto in America in base alla provenienza pressoché costante dei malati da paesi mediterranei (Italia, Grecia, Siria) vengono proposti da Whipple e Bradford (1932) i nomi di "talassemia" o "anemia mediterranea" che rimangono da allora incontrastati (specialmente il primo) nella letteratura internazionale..

Nello stesso anno 1925 in cui in America viene descritta l’anemia di Cooley, in Italia, e precisamente a Ferrara, il medico Rietti descrive tre soggetti adulti (di cui due familiari) che hanno il quadro clinico dell’ittero emolitico costituzionale, pur non avendo mai avuto tipiche crisi emolitiche, e che presentano resistenze globulari aumentate anziché diminuite. Pur non riuscendo a spiegare questa anomalia e lungi dal mettere in dubbio la diagnosi di ittero emolitico, l’Autore ritiene piuttosto che le sue osservazioni "giustifichino i più gravi dubbi intorno alle idee dominanti sulla cosiddetta fragilità globulare dell’ittero cronico acolurico". Anche più tardi (Rietti, 1937), a proposito degli stessi tre casi, conferma che non si può dubitare dell’esistenza di una forma di ittero emolitico costituzionale con resistenza globulare aumentata. Greppi nel 1928 descrive altri due casi per i quali giudica "inevitabile" la diagnosi di ittero emolitico. Viceversa Micheli nel 1929, descrivendo un nuovo caso, afferma che le eccezioni (e cioè i casi con aumento anziché diminuzione della resistenza globulare) "non infirmano nemmeno in clinica, le regole e la regola nella splenomegalia emolitica costituzionale suona diminuzione delle resistenze osmotiche". Giudica anche, con felice intuizione, che l’insufficiente emoglobinogenesi presente nel malato sia "espressione probabile di un difetto costituzionale della sintesi dell’emoglobina".

Nella letteratura la malattia continua intanto ad essere denominata ittero emolitico con resistenza globulare aumentata (i.e.r.g.a.) o malattia di Rietti-Greppi-Micheli.

In America (Baltimora) nel 1940 Wintrobe et al., che ignorano la vasta letteratura italiana su questa affezione, la descrivono in alcune famiglie italiane come una malattia nuova con il nome di "familial hemopoietic disorder".

Le osservazioni successive mettono in luce dal 1925 fino ai primi anni ’40 vari aspetti comuni alle due affezioni.

Nei riguardi del quadro clinico appare subito evidente che le manifestazioni sono le stesse in ambedue le affezioni e differiscono soltanto per la loro diversa intensità (Dalla Volta, 1935; Frontali e Rasi, 1937; Chini, 1939; Wintrobe et al., 1940), tanto che più tardi Dameshek (1943) distingue una forma lieve aneritroblastica di malattia e una forma grave (l’anemia di Cooley).

Quanto alla causa delle due malattie molti Autori ritengono, sia per lo i.e.r.g.a. (Rietti, 1925 e 1946; Testolin et al., 1933; Testolin, 1936; Usseglio et al., 1934a-1934b-1935; Bettoni, 1935; Specie, 1941), sia per il morbo di Cooley (Frontali, 1934-35; Frontali e Rasi, 1939), che questa causa sia un fattore emolitico costituzionale; altri invece sostengono la presenza di un’alterazione primitiva dell’eritropoiesi (Micheli, 1929; Micheli et al., 1935a; Introzzi, 1935; Bufano, 1936 e 1942; Pontoni, 1942; Fornara, 1946), oppure l’intreccio di un fattore emolitico e di un fattore midollare (Dondi, 1936; Momigliano Levi, 1937).

Tra i caratteri ematologici quello più spesso esplorato in questi anni, senza tuttavia che gli Autori riescano a spiegarlo, è l’aumento della resistenza globulare osmotica che è costante nei malati di i.e.r.g.a. e frequente nei loro familiari. In questa inutile ricerca passano più volte sotto gli occhi degli osservatori (Greppi et al., 1930; Scotti Douglas e Dondi, 1931; Greppi, 1935; Rietti, 1937) soggetti sani che hanno tutti i caratteri ematologici di quell’anomalia ereditaria che Silvestroni ed io scopriremo alcuni anni dopo e chiameremo "microcitemia". Ma questi soggetti non suscitano l’attenzione degli studiosi né il loro interesse a proseguire le ricerche.

In queste indagini viene usato per lo studio della resistenza globulare osmotica il metodo di Simmel che permette di esplorare frazionatamente l’andamento della resistenza globulare in una serie di soluzioni saline scalarmente diluite. Anche noi impiegheremo più tardi questo metodo, che diverrà poi preziosissimo in tutte le nostre ricerche sulle talassemie.

Senza nessun orientamento sulle cause che lo determinano viene dunque spesso segnalato tra i caratteri familiari in ambedue le malattie un aumento della resistenza globulare osmotica e, più di rado, il quadro ematologico completo della microcitemia (Testolin e Angelini, 1933; Usseglio e Massobrio, 1934; Usseglio e De Matteis, 1934; Usseglio et al., 1935). Stranamente però in uno dei pochi casi in cui la microcitemia è chiaramente descritta con tutti i suoi caratteri nei due genitori di un malato di morbo di Cooley (Micheli et al., 1935b) il fatto viene considerato dagli Autori solo un curioso riscontro, una "coincidenza" e da Ferrata semplicemente un "fattore ambientale". Anche Wintrobe et al. (1940) descrivono nei due genitori di un malato di morbo di Cooley, che segnalano in appendice ai loro casi di "familial hemopoietic disorder", il quadro completo della microcitemia in ambedue i genitori. Ma anche in questo caso l’osservazione viene soltanto riferita e non promuove nessun’altra ricerca.

In Italia nel 1937 Angelini, allievo di Frontali, segnala nei genitori di 6 malati di morbo di Cooley una aumentata resistenza globulare osmotica e una lieve iperbilirubinemia, ma ritiene che queste siano manifestazioni di una diatesi unica ad impronta emolitica.

Nel 1937 Frontali e Rasi descrivono due casi di i.e.r.g.a. ma non esaminano i familiari; due anni dopo (1939) descrivono 12 malati di morbo di Cooley ma non esaminano in nessun caso i familiari (pur citando le precedenti ricerche di Angelini), e concludono che la malattia è causata da una diatesi iperemolitica.

Chini et al. nel 1939 esaminano, senza nessun preciso orientamento, molti e disparati caratteri nei familiari di un adulto affetto da morbo di Cooley e trovano aumento o diminuzione della resistenza globulare, iperemolisi non costante, iperplasia midollare eritroblastica, alterazioni scheletriche, facies mongoloide e concludono che questi dati documentano "la vastità e l’intensità dell’impronta morbosa" che i portatori trasmettono ai loro discendenti. Nei riguardi dell’ereditarietà ritengono "di oscuro significato" la presenza, segnalata da alcuni Autori "di stimmate morbose in ambedue i genitori dei malati" e nel loro caso giudicano che soltanto la madre sia trasmettitrice della tara.

Più chiaramente indirizzate all’interpretazione del meccanismo genetico che dà origine al morbo di Cooley sono invece le ricerche di Caminopetros in Grecia (1938) che riscontrando iperresistenza globulare osmotica nei genitori dei malati (ma solo in 8 famiglie su 31 in ambedue i genitori) ipotizza una trasmissione ereditaria recessiva della malattia attraverso questi soggetti sani, e le ricerche di Gatto (1942) a Palermo, che, avendo trovato in 8 famiglie di malati di morbo di Cooley la presenza in ambedue i genitori dei malati di iperresistenza osmotica e di microciti, espone chiaramente l’ipotesi che i malati di morbo di Cooley siano i soggetti omozigoti per un fattore ereditario trasmesso da ambedue i genitori. In nessun caso però queste importanti osservazioni suscitano l’interesse degli Autori e promuovono altre ricerche. Restano isolate e dimenticate nella letteratura e in qualche caso (Gatto, 1951) torneranno di nuovo alla luce solo dopo le nostre ricerche.

Queste erano dunque le osservazioni raccolte sulla malattia di Rietti-Greppi-Micheli e sul morbo di Cooley in Italia e nel nord America fino al 1942. Era emersa la forte somiglianza clinica fra le due malattie, si era scoperta, sia pure attraverso un solo carattere (la resistenza globulare osmotica aumentata) la presenza di un fattore ematologico ereditario comune ad entrambe. Se, sulla base di questi rilievi, le ricerche fossero state sviluppate sistematicamente e con chiare direttive, forse sarebbe emersa già da allora la gravità del problema della microcitemia in Italia e si sarebbe chiarito il meccanismo genetico che dà origine al morbo di Cooley. Ma tutto questo non è avvenuto.

Un incontro casuale: la microcitemia

Io ho conosciuto Ezio Silvestroni nel 1939 nella Clinica Medica dell’Università di Roma, allora diretta dal Prof. C. Frugoni. Da allora ho lavorato con lui fino alla sua scomparsa, nel 1990. Poi ho continuato da sola a dirigere quel Centro di Studi della Microcitemia, che noi stessi avevamo creato in Roma nel 1954.

Nel 1942 stavamo completando uno studio sul comportamento della resistenza globulare osmotica nei malati di cancro. Tra i soggetti normali di controllo ne trovammo alcuni che presentavano un insolito quadro ematologico caratterizzato costantemente da iperglobulia, ipocromia, ridotto volume globulare, resistenza globulare osmotica aumentata, evidenti alterazioni della morfologia eritrocitaria. Ecco, a confronto, l’esame della resistenza globulare osmotica in un soggetto normale e nel primo caso identificato di portatore sano di questa tara ematologica.

L’esame, eseguito con il metodo di Simmel e cioè con una serie di soluzioni saline scalarmente diluite a partire dalla soluzione fisiologica, dimostra che in una di queste soluzioni (la 0,4 che ha una concentrazione salina di 0,36%) i globuli rossi del soggetto normale sono tutti emolizzati, mentre quelli del portatore sano della tara ematologica restano in parte non emolizzati. La differenza fra le due condizioni è evidente ad occhio nudo ed entro pochi minuti. Con questa semplicissima ma preziosa tecnica, che noi abbiamo poi semplificato (Silvestroni e Bianco, 1945a) ed impiegato sempre in associazione con lo studio della morfologia eritrocitaria, abbiamo condotto tutte le nostre ricerche diagnostiche ed epidemiologiche sulle talassemie.

Fin dalle prime osservazioni (7 portatori dell’anomalia su 400 soggetti sani) apparve subito evidente che i caratteri ematologici di questa tara erano sempre presenti contemporaneamente nel portatore e si trasmettevano ereditariamente in blocco dai genitori ai figli.

Era stata dunque identificata con tutti i suoi caratteri la tara ematologica che caratterizza il portatore sano dell’anomalia. Desidero qui ricordare, con molta gratitudine il Prof. Guido Vernoni, Direttore dell’Istituto di Patologia Generale dell’Università, che nelle difficoltà e nelle incertezze della fase iniziale delle ricerche, fu per noi amico e guida preziosa.

Nonostante le gravissime difficoltà degli anni di guerra, noi riuscimmo il 26 novembre 1943 a presentare all’Accademia Medica di Roma i risultati di questa nostra prima ricerca. Rilevammo subito già in questa comunicazione che i caratteri ematologici dei soggetti erano identici a quelli segnalati, più o meno completamente, nei familiari dei malati di i.e.r.g.a. e nei malati stessi. Prospettammo quindi l’ipotesi che l’anomalia fosse il fattore ereditario dal quale ha origine questa malattia.

L’ipotesi fu dapprima esplorata da Silvestroni (1944) attraverso un esame analitico della letteratura (Rietti, 1946; Greppi, 1928; Wintrobe et al., 1940; Testolin e Angelini, 1933; Testolin, 1936; Usseglio e Massobrio, 1934; Usseglio e De Matteis, 1934; Usseglio et al., 1935) e subito dopo confermata con osservazioni personali (Silvestroni e Bianco, 1946a) nelle quali lo studio completo delle famiglie dei malati di i.e.r.g.a., dimostrò per la prima volta che la microcitemia è costantemente presente almeno in uno dei due genitori del malato. E poiché questa tara ematologica ha origine da un’alterazione primitiva dell’eritropoiesi e non da un fattore emolitico primitivo, Silvestroni ritenne giusto (Silvestroni, 1944) classificare la malattia fra le anemie e non fra gli itteri emolitici costituzionali, e propose di darle il nome di anemia microcitica costituzionale (oggi talassemia intermedia).

Nel 1945 attraverso lo studio di altri 88 portatori dell’anomalia, alla quale diamo il nome di microcitemia (Silvestroni e Bianco, 1945b), e che è oggi la talassemia minima o trait talassemico, confermiamo tutti i caratteri ematologici già segnalati in questi soggetti (Silvestroni e Bianco, 1945c). La ricerca pubblicata in Italia nel 1945 viene riportata da Wintrobe già nella II edizione del suo Trattato di Ematologia (Wintrobe, 1946) e poi, insieme con un’altra nostra pubblicazione (Silvestroni e Bianco, 1949), anche nella III edizione del 1951.

Il nostro laboratorio in tutti gli anni della nostra permanenza in Clinica, è stato una modestissima stanza, senza finestre, al piano terreno dell’Istituto, il cui solo apparecchio scientifico era un microscopio.

Alla comunicazione del 1943 all’Accademia Medica di Roma era presente il pediatra Frontali (Frontali, 1943) il quale chiese a Silvestroni, ricordando probabilmente le ricerche del suo Allievo Angelini, se non riteneva possibile che le alterazioni ematologiche segnalate in alcune famiglie, potessero predisporre oltreché allo i.e.r.g.a. anche al morbo di Cooley. Silvestroni rispose che, tenendo conto di due aspetti (paese di provenienza dei malati e familiarità) comuni alle due affezioni, che non si poteva escludere che dalla stessa anomalia costituzionale non potesse avere origine, oltreché il cosiddetto i.e.r.g.a., anche il morbo di Cooley.

L’evidente importanza dell’argomento ci spinse a proseguire subito le ricerche. Nell’estate 1945, partendo dagli indirizzi avuti dagli Ospedali e dalle Cliniche Universitarie, raccogliemmo in tutta Roma una casistica di malati di morbo di Cooley. Ma i risultati (Silvestroni e Bianco, 1945b) non furono quelli attesi, anzitutto perché in una parte dei casi (5 famiglie su 38) la diagnosi era sbagliata e poi perché nelle rimanenti risultò, si, sempre presente la microcitemia ma, proprio come già segnalato da Caminopetros, non sempre in entrambi i genitori dei malati. Non raggiungemmo quindi una soluzione del problema genetico del morbo di Cooley e continuammo le ricerche. Nell’estate del 1946 rispondendo ad un invito del Prof. Ortolani, Direttore dell’Istituto Provinciale per l’Infanzia di Ferrara, ci recammo per la prima volta a Ferrara con il nostro semplicissimo ma efficiente laboratorio "da campo". Siamo tornati a Ferrara per altri 15 anni consecutivi sempre durante i mesi estivi (invece delle vacanze), per lo studio di famiglie microcitemiche, di aspetti clinici del morbo di Cooley, dell’incidenza della distribuzione geografica della microcitemia.

Questo quindicennio dal 1946 al 1960 è stato per noi un fecondo e sereno periodo di lavoro. Le nostre fatiche erano ampiamente compensate dall’assistenza cordiale e fruttuosa del Prof. Ortolani e dei suoi Assistenti, dalla generosa ospitalità dell’Amministrazione Provinciale di Ferrara e dalla grande disponibilità della popolazione ferrarese alla quale va, senza retorica, il merito di aver reso realizzabile in quegli anni una così grande mole di lavoro e il raggiungimento di tanti positivi risultati.

Nello stesso anno 1946 noi abbiamo riferito in una comunicazione all’Accademia Medica di Roma (Silvestroni e Bianco, 1946b) di aver trovato nella prima casistica di malati di morbo di Cooley raccolta a Ferrara la presenza in 38 famiglie su 40 della microcitemia in ambedue i genitori dei malati e in altre due in uno solo. Il problema genetico del morbo di Cooley poteva dirsi da quel momento già risolto: la malattia aveva chiaramente origine dalla condizione omozigotica per la microcitemia, anche se bisognava ancora trovare una spiegazione per i casi discordanti con questa interpretazione. Queste eccezioni hanno continuato a ripresentarsi puntualmente anche in seguito, ma sempre molto rare, nelle complessive casistiche di altre 120 famiglie di malati di morbo di Cooley (Silvestroni e Bianco, 1947a; Silvestroni e Bianco, 1947b; Silvestroni e Bianco, 1948), ed hanno trovato spiegazione negli anni successivi (v. oltre).

Il 1946 fu anche l’anno in cui, terminato il conflitto mondiale, si riaprirono gli scambi culturali dei paesi europei con i paesi d’oltreoceano e si scoprì che anche negli Stati Uniti erano state condotte, spesso prendendo proprio lo spunto dalle precedenti ricerche di Caminopetros, di Angelini e di Gatto, analoghe indagini in famiglie di italiani e greci con malati di morbo di Cooley (Smith, 1943; Dameshek, 1943; Valentine e Neel, 1944).

Il quadro ematologico dei portatori sani dell’anomalia viene sempre descritto con esattezza e completezza. Gli Autori indicano con un termine nuovo, ma unico ("talassemia minor") la condizione sia dei portatori sani sia dei malati della forma lieve di malattia (la nostra anemia microcitica costituzionale). Le conclusioni sul problema genetico non sono però sempre concordanti fra i vari Autori. Secondo McIntosh e Wood (1942) la malattia potrebbe essere causata dall’interazione di due fattori dominanti non alleli. Secondo Smith (1942) la malattia grave e quella lieve potrebbero essere espressioni di un fattore dominante variamente espresso. Dameshek (1943) e Valentine e Neel (1944) in base allo studio rispettivamente di 4 e di 3 famiglie con un figlio malato di morbo di Cooley, propendono invece per l’ipotesi eterozigote-omozigote già proposta da Caminopetros nel 1939. Vi sono dunque, fra gli studiosi americani come fra quelli italiani della stessa epoca, iniziali incertezze e divergenze di interpretazione che scompariranno solo in seguito ad altre, più ampie ricerche.

E’ certo che nella letteratura italiana degli anni di guerra i lavori degli Autori americani non erano conosciuti. Lo stesso Neel ne ha dato atto in pubblicazioni nelle quali ha citato nostri lavori (Neel, 1949) e in corrispondenza privata con noi in cui ha affermato l’assoluta indipendenza fra i nostri e i suoi lavori. Non ci sono mai state contestazioni di priorità né altre divergenze tra noi e questi studiosi con alcuni dei quali (Caminopetros, Dameshek, Wintrobe) abbiamo avuto anzi incontri e colloqui cordiali in occasione di loro visite a Roma.

Genetica delle microcitemie

Noi abbiamo studiato il comportamento ereditario della microcitemia complessivamente su circa 1100 famiglie con un genitore microcitemico e uno normale e su circa 200 con entrambi i genitori microcitemici. Da queste e dalle precedenti ricerche di altri Autori è emerso, come si è visto, il comportamento mendeliano dominante della tara, documentato dalla presenza dei due distinti fenotipi previsti dalla legge: quello del portatore eterozigote sano e quello dell’omozigote gravemente malato.

Vi erano però due fatti contrastanti con questa regola: i rari casi di malati di morbo di Cooley con un solo genitore microcitemico, che in gran parte hanno trovato poi spiegazione quando si è scoperta l’esistenza di varietà silenti di microcitemia, che allora erano riconoscibili solo attraverso una osservazione esperta ed attenta (Silvestroni, Bianco e Vallisneri, 1949); e la presenza di una terza categoria di soggetti, descritti soprattutto nella letteratura italiana e cioè i malati di anemia microcitica costituzionale, che hanno gravità intermedia tra quella dell’omozigote gravemente malato e quella dell’eterozigote sano, e che compaiono di solito in famiglie con un solo genitore microcitemico (Silvestroni e Bianco, 1946a). Questi casi, inspiegabili in base alla legge mendeliana della dominanza, hanno trovato anch’essi spiegazione nei decenni successivi. Anzitutto la scoperta della malattia microdrepanocitica (Silvestroni e Bianco, 1945c; Silvestroni e Bianco, 1946c), malattia che ha un quadro clinico molto simile a quello dell’anemia microcitica costituzionale (v. oltre), ha dimostrato che il genitore non microcitemico può essere portatore di un altro difetto ematologico ereditario [ le nostre "sindromi Cooley-simili" (Silvestroni e Bianco, 1948)] . Poi si è scoperto che il genitore apparentemente normale è, ancora più spesso che nel morbo di Cooley, portatore di una talassemia silente. Infine è stata proposta, in via puramente speculativa, da Silvestroni nel 1949, al 50° Congresso della Società Italiana di Medicina Interna, l’ipotesi dell’esistenza di "geni modificatori" capaci di attenuare o aggravare l’espressione del gene microcitemico principale: un’ipotesi che ha trovato più tardi brillante conferma nella dimostrazione della proprietà della a talassemie, se associate all’omozigosi per b microcitemie, di attenuare il quadro fenotipico della malattia.

Ricerche epidemiologiche

Nel periodo 1946-1960, contemporaneamente alle ricerche cliniche e genetiche, abbiamo condotto indagini anche sulla distribuzione geografica delle microcitemie in Italia (Silvestroni e Bianco, 1960; Silvestroni e Bianco, 1961): nel Delta Padano abbiamo esplorato 38 località ed esaminato 44.000 soggetti, trovando frequenze del 7% nella parte più interna del territorio e del 18-19% nelle località alla foce del Po; in Sicilia abbiamo esplorato 28 località ed esaminato 7.500 soggetti, trovando nei paesi più interni frequenze del 4-5% e lungo la costa frequenze del 10-12%; nel Salento abbiamo esaminato 4.000 soggetti in 5 località trovando frequenze dal 5 all’11%; nella Sardegna meridionale abbiamo esaminato complessivamente in 6 località 4.000 soggetti e trovato frequenze dal 17 al 27%. In Sardegna una ricerca successiva (Carcassi, 1961) nella parte centrale e settentrionale dell’isola ha segnalato frequenze quasi sempre del 20%, e un’altra in Calabria (Cavalcanti e Brancati, 1957) ha messo in luce frequenze dal 4 al 14% con punte massime del 20%.

Nel 1948 noi abbiamo esplorato anche tutte le principali città delle regioni centrali e meridionali d’Italia, trovando ovunque frequenze dell’1-2%.

Da tutte queste ricerche è emersa per la prima volta una mappa dettagliata dell’incidenza della microcitemia in Italia con i suoi densi focolai meridionali, insulari e del Delta Padano, che è rimasta sostanzialmente invariata da allora; si è potuto calcolare che in Italia esistono circa 2.500.000 portatori sani di microcitemia; e soprattutto, si è avuta la prima, evidente dimostrazione delle dimensioni sociali del problema della microcitemia in Italia e della conseguente necessità di adeguati provvedimenti (Silvestroni, 1961).

La localizzazione geografica dei focolai talassemici italiani ha permesso anche di ipotizzare una causa della persistenza di questi focolai con così alta incidenza, nonostante la perdita di geni che avviene ad ogni generazione attraverso i malati di morbo di Cooley che non si riproducono. Le nostre ricerche mettevano in luce per la prima volta una suggestiva coincidenza di distribuzione macrogeografica delle microcitemie e della malaria e questo dato, segnalato (v. Modiano et al., 1986) in un Simposio del 1948 a Pallanza dal genetista Montalenti al genetista Haldane, permise a questo di ipotizzare che una maggiore resistenza alla malaria perniciosa potesse essere stata nei secoli il fattore selettivo positivo per l’eterozigote microcitemico in confronto all’omozigote sano.

Gli anni fra il 1942 e il 1960 sono stati per noi anni di fecondo ma durissimo lavoro. A Roma negli anni di guerra abbiamo sofferto privazioni, fame e bombardamenti in una città già stremata dalle sofferenze della guerra e poi oppressa dalla dura dominazione nazista; dopo il 1946 abbiamo dovuto affrontare le grandi fatiche delle campagne estive di lavoro con tutti i disagi, le difficoltà, i pericoli di una vita da pionieri, particolarmente intensi nelle regioni dell’Italia meridionale. Non abbiamo avuto nessuna parentesi di vacanza o di riposo per 20 anni. Di tutto questo periodo conserviamo però anche il ricordo assai gradito dei lunghi soggiorni a Ferrara, allietati dall’amicizia fraterna, oltreché dall’aiuto impareggiabile del Prof. Ortolani, del Dr. Vallisneri e di tutti i medici dell’Istituto Provinciale per l’infanzia.

La malattia microdrepanocitica

Nel novembre 1944 una giovane donna originaria della provincia di Roma ci sembrò per il suo quadro clinico una malata di anemia microcitica costituzionale. Nel suo sangue però risultò presente il fenomeno falciforme che fu riscontrato anche nel padre. La madre era morta ma il quadro ematologico della paziente, del tutto simile a quello dell’anemia microcitica costituzionale, e la presenza della microcitemia in alcuni parenti della madre ci fecero diagnosticare in primo tempo che la malata fosse affetta da una singolare associazione di anemia microcitica costituzionale e di anemia drepanocitica (Silvestroni e Bianco, 1945d), ma subito dopo lo studio completo di altre famiglie dimostrò che la malattia è causata dalla presenza nel malato di due anomalie eritrocitarie: la microcitemia e la falcemia. Questo aspetto valse alla malattia il nome di malattia micro-drepanocitica (Silvestroni e Bianco, 1946c). Per molti anni la malattia è stata denominata nella letteratura "malattia di Silvestroni e Bianco", oggi è la talassodrepanocitosi. Era il primo caso al mondo, mai contestato, di una malattia dovuta all’associazione della microcitemia con un’Hb strutturalmente abnorme, di cui furono segnalate, subito dopo, molte altre varietà (microc/Hb C; microc/Hb D; microc/Hb O Arabia). Con la scoperta di questa nuova malattia si era dunque aperto un nuovo capitolo dell’ematologia: quello delle associazioni microcitemico-emoglobiniche che danno origine a malattia e che sono state per questo denominate "associazioni interagenti" (v. oltre).

Intanto nel 1949 Pauling et al. segnalano che l’emoglobina presente nella sickle cell anemia (poi denominata Hb S) ha una mobilità elettroforetica minore di quella dell’Hb abnorme a causa di "defective hemoglobin molecules" e per questo definiscono la malattia "a molecular disease". Questa importante scoperta dà il via agli studi elettroforetici dell’Hb nell’uomo. Applicando questa indagine alle sindromi talassemiche, noi troviamo che nella malattia microdrepanocitica l’Hb adulta è soltanto (o quasi soltanto) Hb S: è la prima dimostrazione che in presenza di un gene microcitemico e uno non microcitemico è compromessa solo l’espressione del gene microcitemico (compromissione "allele-specifica") ed è anche la prima segnalazione di una eterozigosi mista microcitemico-emoglobinica "interagente": cioè di una eterozigosi per due difetti molecolari ad uno stesso locus globinico. In queste condizioni l’Hb abnorme, se presente, come nella malattia microdrepanocitica, in altissima quota, può esprimere tutte le sue proprietà funzionali, e, se queste sono abnormi, causare malattia. E’ ciò che avviene, appunto, nella malattia microdrepanocitica, che ha un quadro clinico grave, assai simile a quello dell’anemia drepanocitica. La dimostrazione che un quadro clinico evidente può avere origine dall’associazione nel malato di un difetto microcitemico e un difetto emoglobinico strutturale, ha dato spiegazione, come si è detto, dell’esistenza di famiglie di malati di anemia microcitica costituzionale nelle quali un solo genitore è microcitemico.

La malattia fu subito descritta oltreché in Italia, anche in molti altri paesi del bacino mediterraneo e del nord America. 10 anni dopo la sua scoperta se ne conoscevano già più di 90 casi di cui 64 descritti in Italia da Silvestroni e Bianco (1955). La maggior parte dei casi risultava originaria dalla Sicilia orientale ove successive ricerche hanno confermato (Schilirò et al., 1981) che la malattia microdrepanocitica è ancora più frequente dell’anemia drepanocitica.

1943-1949: risposta degli studiosi italiani alle nuove conoscenze

I risultati delle nostre ricerche suscitano subito interesse ma anche contestazioni e contrasti tra noi e gli studiosi dell’epoca.

Nel 1946 Rietti tornando sull’argomento della malattia di Rietti-Greppi-Micheli conclude, dopo un’ampia revisione della letteratura, che la classificazione dello i.e.r.g.a. fra le anemie anziché fra le splenomegalie emolitiche, che Silvestroni ha proposto, non può accogliersi senza riserve; e che a suo parere viceversa è "inevitabile" allargare il capitolo delle splenomegalie emolitiche per inserirvi anche lo i.e.r.g.a. ed altre malattie affini.

Chini in un lavoro compilato nel 1941, aggiornato nel 1944 ma pubblicato per motivi bellici solo nel 1946 (Chini, 1946) ipotizza, dopo un riesame di tutta la letteratura, che dallo i.e.r.g.a. possa derivare per cause ancora sconosciute il morbo di Cooley. Ritiene che se verrà confermata la presenza di stimmate ematologiche in ambedue i genitori del malato di morbo di Cooley, non si potrà non dare importanza a questo fatto. Due anni dopo torna su questo argomento (Chini, 1948) per affermare invece di essersi sentito autorizzato fin dal 1941 ad ammettere che "l’ereditarietà bilaterale" di una tara ematologica "doveva essere considerata come uno dei fattori fondamentali nella patogenesi del morbo di Cooley" e che questa ipotesi, confermata poi dalle ricerche di Gatto (1942) e di Autori americani (Dameshek, 1943; Valentine e Neel, 1944) è accettata "solo in parte da Silvestroni e Bianco". A questo proposito egli cita solo le nostre prime e non conclusive ricerche del 1945 (Silvestroni e Bianco, 1945b) e non quelle successive (Silvestroni e Bianco, 1946a; Silvestroni e Bianco, 1947a; Silvestroni e Bianco, 1947b) che avevano dimostrato già definitivamente l’omozigotismo della tara ematologica nel morbo di Cooley. In questo lavoro del 1948 l’Autore riferisce anche di avere "presunto" fin dal 1939 la grande diffusione di questa tara in alcune popolazioni, che è stata poi documentata dalle ricerche di Neel e Valentine (1945) nella popolazione italiana del nord America e "successivamente", anche da noi in Italia.

Solo nel 1949 in un lavoro riassuntivo sulle "mediterranean hemopathic syndromes" Chini e Malaguzzi Valeri inseriscono, a proposito della trasmissione bilaterale della tara ematologica nel morbo di Cooley, anche i nostri due nomi al termine di un lungo elenco di altri ricercatori.

In quegli anni del dopoguerra Chini veniva spesso a Roma da Bari in visita al Prof. Frugoni e riceveva direttamente da noi informazioni sulle nostre ricerche ed estratti delle nostre pubblicazioni.

Agli evidenti tentativi di Chini di dimostrare, tacendo quanto più possibile i nostri contributi, di avere già visto lui tutto ciò che in realtà era emerso dalle nostre ricerche, noi non abbiamo mai risposto ufficialmente. E’ stato arbitro e giudice tra noi il nostro comune maestro Frugoni che in colloqui diretti e nelle annotazioni scritte di suo pugno in lavori di Chini (1948) e del suo allievo Muratore (1947) non ha mancato di riconoscere imparzialmente, l’importanza e la priorità dei risultati delle nostre ricerche.

Dopo un lungo silenzio, anche Gatto (1951) riprende la parola per rivendicare in base alla sua precedente ricerca del 1942 la priorità nel riconoscimento dei portatori eterozigoti della tara ematologica e della obbligatorietà dell’omozigosi per questa tara nel morbo di Cooley. Rileva di aver segnalato nel 1942 anche l’importanza dell’esistenza nella popolazione dei portatori eterozigoti della tara, "la cui frequenza già allora poteva stimarsi discreta" (ma che né lui né Chini hanno mai studiato direttamente nella popolazione).

Nel 1947 Momigliano Levi, allievo di Micheli, che in passato ha già studiato lo i.e.r.g.a., dopo una minuziosa analisi della letteratura conclude che quell’anemia ematologica che Silvestroni e Bianco ritengono di avere per primi individuata in soggetti sani era già ben nota nella letteratura precedente e allora si chiede: "in che cosa consiste ciò che di veramente nuovo hanno posto in rilievo Silvestroni e Bianco ?". A suo parere hanno operato "il distacco puro e semplice" dello i.e.r.g.a. "dalle splenomegalie emolitiche per includerlo nel capitolo delle anemie" senza neppure avere elementi veramente dimostrativi a sostegno di questo inquadramento. Conclude riaffermando la sua vecchia concezione che in questa malattia abbiano un ruolo determinante non solo il fattore anemico costituzionale ma anche un fattore emolitico.

Alla esplicita domanda e alle contestazioni di Momigliano Levi (1947) noi rispondiamo (Silvestroni e Bianco, 1947c) riassumendo tutto ciò che di veramente nuovo le nostre ricerche hanno messo in luce: la scoperta e la completa descrizione della tara ematologica con tutti i suoi caratteri (e non la sola iperresistenza osmotica) in soggetti sani; la presenza dell’anomalia in tutte le regioni italiane e la sua frequenza altissima nel Delta Padano (il solo territorio fino ad allora esplorato); confermiamo la nostra classificazione dello i.e.r.g.a. fra le anemie avendo dimostrato che il fattore costituzionale che dà origine alla malattia è un’alterazione dell’eritropoiesi e non un fattore emolitico; e che anche l’inefficacia della splenectomia e i reperti anatomo-patologici confermano la sostanziale differenza eziopatogenetica di questa affezione dall’ittero emolitico costituzionale.

Nel 1949 anche Frontali descrive nuovamente i suoi due casi di i.e.r.g.a. del 1936 insieme con un caso di morbo di Cooley. Non esegue esami ematologici dei genitori (pur citando le precedenti ricerche del suo allievo Angelini nei familiari di questi malati); giudica che le nostre ricerche abbiano dato "una maggiore risonanza" alle sue osservazioni dimostrando "la grande diffusione" nelle stesse regioni da cui provengono i malati di quella "peculiarità costituzionale" che noi abbiamo denominato "microcitemia". Conclude infine che la causa costituzionale sia dello i.e.r.g.a. che del morbo di Cooley non sia soltanto questa anomalia ematologica ma anche un’iperemolisi che è causata però dalla minore durata di vita delle emazie.

Fra il 1946 e il 1948 altri due ricercatori (Marmont e Bianchi, 1947; Marmont e Bianchi, 1948) ritengono di aver dimostrato che la schistomicrocitosi e l’iperglobulia presenti nelle sindromi talassemiche non sono caratteri primari della microcitemia, come noi affermiamo, ma soltanto la conseguenza di un fenomeno regressivo di frammentazione delle emazie nel sangue circolante. Silvestroni risponde, nella discussione al 50° Congresso Soc. It. Med. Int. del 1949, che il microcitemico sano ha iperglobulia e microcitosi ma non schistocitosi, e che nei malati di i.e.r.g.a. o di morbo di Cooley la presenza di micro-eritroblasti e micro-reticolociti documenta l’origine midollare della schistomicrocitosi.

Nel 1948 un gruppo di assistenti del Prof. Magrassi, cattedratico di Clinica Medica a Sassari e, come noi e Chini, allievo del Prof. Frugoni, segnala (Leonardi et al., 1948), in base a ricerche eseguite nella popolazione sarda, la presenza non della microcitemia con il complesso di alterazioni ematologiche strettamente connesse tra loro, che noi abbiamo "schematizzato", ma di un grande polimorfismo di caratteri ematologici (aumento o diminuzione della resistenza globulare osmotica, volume globulare basso o alto, iperglobulia o anemia).

L’anno dopo Magrassi e il suo allievo Leonardi (Magrassi e Leonardi, 1949) affermano che in base alle loro osservazioni viene "automaticamente a cadere l’interpretazione di Silvestroni e Bianco che la microcitemia si debba considerare espressione di una mutazione del sistema eritropoietico" e ritengono invece molto più accettabile l’origine della microcitosi dalla frammentazione globulare segnalata da Marmont e Bianchi.

Nei riguardi del problema genetico del morbo di Cooley, Magrassi, che non accetta la teoria dell’omozigotismo per la microcitemia come causa della malattia, sostiene che noi accettiamo "semplicisticamente" questa teoria pur essendo contraddetti dalle nostre stesse indagini: si riferisce ovviamente anche lui alle solite nostre indagini preliminari del 1945 (Silvestroni e Bianco, 1945b) senza citare (anche se siamo ormai nel 1949) quelle successive e definitive (Silvestroni e Bianco, 1946b; Silvestroni e Bianco, 1947b; Silvestroni e Bianco, 1948), che hanno dimostrato con assoluta certezza l’origine della malattia dall’omozigotismo per la microcitemia.

Alle contestazioni di Magrassi e della sua Scuola noi abbiamo risposto solo più tardi attraverso la documentazione analitica di tutti i risultati delle nostre ricerche, che fece parte della relazione al 50° Congresso della Società Italiana di Medicina Interna del 1949.

In sostanza in questa fase delle conoscenze nessun ricercatore (salvo Frontali nella ricerca del 1949) accetta nei riguardi dell’iperemolisi la nostra concezione che nello i.e.r.g.a. e nel morbo di Cooley l’iperemolisi sia semplicemente una manifestazione secondaria alla malformazione eritrocitaria. Nei riguardi della microcitemia le opinioni sono divise tra coloro che ritengono la microcitemia un fatto già ben noto nella letteratura precedente, e non quindi una nostra scoperta, e coloro che viceversa ne negano l’esistenza, almeno con il caratteristico quadro ematologico con cui noi l’abbiamo descritta. Infine, anche riguardo alla genetica del morbo di Cooley i giudizi sono diversi: secondo alcuni noi non accettiamo (ovviamente sbagliando) la teoria dell’omozigotismo; secondo altri l’accettiamo ma per ultimi tra tutti i ricercatori.

Accanto a tutte queste voci dissenzienti, la letteratura registra in quegli anni solo il giudizio positivo del pediatra Fornara su tutte le nostre ricerche (Fornara, 1947), e l’ampia citazione della scoperta della microcitemia nella monografia "Morbo di Cooley" di Maggioni e Ascenzi (1948).

1949: il 50° Congresso della Società Italiana di Medicina Interna

Preceduti da questi contrasti e contestazioni, noi affrontiamo il 31 ottobre 1949 il Congresso nel quale Silvestroni ha il compito di illustrare ufficialmente, per la prima volta, le nostre ricerche sulle microcitemie e le malattie microcitemiche, sulla falcemia e le malattie falcemiche (Silvestroni, 1949).

Silvestroni svolge una esauriente relazione, parla anche della terapia trasfusionale che sta già praticando con successo ai malati, e della prevenzione del morbo di Cooley che si può attuare evitando il matrimonio fra microcitemici.

Concludendo i lavori della mattinata il Prof. Di Guglielmo, nuovo Direttore della Clinica Medica, sottolinea (Di Guglielmo, 1949) "quanto lavoro è stato compiuto nell’ultimo decennio per iniziative esclusivamente personali e quale prezioso contributo è stato portato".

Inaspettatamente, dei tanti studiosi che avevano per vari aspetti contestato il nostro lavoro, sono presenti al Congresso solo il Prof. Frontali e la coppia Marmont-Bianchi.

In discussione (50° Congresso Soc. It. Med. Int, 1949: Discussione, pag. 52-92) la maggior parte degli interventi riguarda la relazione di Silvestroni. Il genetista Montalenti concorda con la nostra interpretazione che la microcitemia sia dovuta ad una singola coppia di geni. L’antropologo Sergi, convinto dell’importanza dei nostri risultati, chiede che l’esame per la microcitemia sia reso obbligatorio nelle scuole. Il Prof. Ortolani che, come pediatra in un territorio fortemente colpito dal morbo di Cooley, conosce molto bene le grandi difficoltà o addirittura l’impossibilità di fare una diagnosi precoce, esprime tutto il suo apprezzamento per la possibilità che noi soli gli abbiamo dato di fare una diagnosi precoce e sicura del morbo di Cooley, esaminando con il semplicissimo test di Simmel i genitori del malato e addirittura di prevedere con questo esame se una coppia corre il rischio di avere figli malati di morbo di Cooley o no. "Già questo solo fatto –afferma Ortolani- dimostra l’importanza degli studi di Silvestroni e Bianco".

Di parere ben diverso è invece il Prof. Frontali che dopo essersi congratulato con il Prof. Silvestroni che ha confermato con estese ricerche l’esistenza della microcitemia già scoperta dalle ricerche sue e di Angelini, contesta proprio la validità della ricerca della microcitemia nei genitori del malato come mezzo rapido e sicuro di diagnosi: perché –egli dice- questa presenza non è costante e quando manca nella madre indica che la regola dell’omozigotismo non è assoluta; quindi è meglio affidarsi ai metodi diagnostici tradizionali e cioè attendere la comparsa delle manifestazioni specifiche della malattia. Quanto all’iperemolisi, invece, Frontali, come ha già affermato per la prima volta in un lavoro dello stesso anno (Frontali, 1949), ammette finalmente che nelle malattie microcitemiche questa manifestazione sia conseguenza solo della minore durata di vita di emazie geneticamente alterate. Silvestroni risponde, riguardo alla priorità della scoperta della microcitemia, che solo le ricerche di Bianco e sue hanno documentato la grande frequenza e importanza di questa anomalia e chiarito i suoi rapporti con le malattie microcitemiche, mentre delle ricerche di Angelini, Frontali stesso non parlò affatto nel Congresso di Napoli del 1940, che trattava appunto del morbo di Cooley. Quanto ai casi in cui la madre di un malato di morbo di Cooley non risulta microcitemica, Silvestroni riferisce in base alla sua personale esperienza che molto spesso si tratta soltanto di forme molto lievi di microcitemia.

Nei giorni successivi al Congresso i giornali riportano ampiamente i lavori di questa 3a giornata, che viene definita "la più interessante e certo la più vivace di tutto il Congresso", ma segnalano anche i contrasti e le contestazioni di alcuni dei presenti riguardo ai risultati del nostro lavoro.

Collaborazione con genetisti

Dopo il Congresso del 1949 il Prof. G. Montalenti, allora Direttore dell’Istituto di Genetica dell’Università di Napoli, essendo molto interessato allo studio delle microcitemie, ottiene dalla Rockfeller Foundation contributi per proseguire le ricerche. Dall’inizio degli anni ’50 noi incominciamo a svolgere in collaborazione con Montalenti e i suoi allievi, ricerche genetiche sulle microcitemie. La più importante di queste è ancora una volta un’indagine sul comportamento ereditario della microcitemia che viene condotta (Bianco et al., 1952) con criteri statistici su tutta la nostra casistica di circa 1.100 famiglie con un genitore microcitemico e uno normale e circa 200 con i genitori entrambi microcitemici, la quale conferma definitivamente i precedenti risultati. Nel 1959 però solo il Prof. Montalenti riceve dall’Accademia dei Lincei il Premio Nazionale per la Botanica e la Zoologia per il "vasto gruppo di ricerche sulla genetica della microcitemia" e per la "raccolta di una grande quantità di dati". Con questo giudizio ci viene ovviamente negato ogni merito nello svolgimento delle ricerche e anche nella semplice raccolta dei dati.

Qualche anno dopo il Prof. Puntoni ci presenta come candidati per il Premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei, che però non ci viene assegnato. In una lettera ad uno dei Commissari del Premio il Prof. Puntoni elenca con esattezza tutte le nostre ricerche e contesta con validi argomenti anche la precedente assegnazione del Premio per la Botanica e la Zoologia al Prof. Montalenti.

Problemi e sviluppo dei lavori negli anni ’50 e ’60

Silvestroni ha partecipato fra il 1948 e il 1952 a 4 concorsi per cattedra universitaria ma nonostante il valore indiscusso del suo curriculum e della sua produzione scientifica non è mai riuscito vincitore.

Conclusa questa amara vicenda, Silvestroni si dedica alla realizzazione di un progetto di organizzazione su base governativa della lotta contro le microcitemie. Di fronte alle Autorità Sanitarie dell’epoca egli ha il solo ma valido appoggio delle nostre ricerche, della dimostrazione delle dimensioni sociali del problema delle microcitemie in Italia e della conseguente urgenza di avviare misure di assistenza e prevenzione.

Nel 1953 egli chiede all’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità, l’istituzione di un Centro per l’assistenza dei malati di morbo di Cooley, lo studio e la profilassi della malattia. La proposta è accolta ma occorre trovare una sede per il futuro Centro. Chiediamo aiuto al Prof. Puntoni, Preside della Facoltà Medica e Direttore dell’Istituto d’Igiene dell’Università di Roma, il quale ottiene l’autorizzazione ad ospitare il futuro Centro in alcuni locali del piano seminterrato dell’Istituto d’Igiene ed ottiene dall’ACIS il consenso per l’istituzione ufficiale di un Centro di Studi delle Microcitemie e delle Anemie Microcitemiche in Roma. Il Centro viene creato e sotto la direzione di Ezio Silvestroni entra in funzione alla fine del 1954 e diviene, poco dopo, il nostro unico posto di lavoro: per me, anzi, l’unico per tutta la vita.

Nel 1957, infatti, il Prof. Condorelli, nuovo Direttore della Clinica Medica, non conferma nel loro ruolo di Assistenti universitari i 9 assistenti delle precedenti scuole di Frugoni e Di Guglielmo, perché –egli dice- la loro preparazione scientifica non è adeguata all’indirizzo della sua scuola. Noi restiamo senza lavoro e senza stipendio. Insieme con altri due colleghi io inizio però il ricorso contro questo provvedimento, che dopo 7 anni di continui e spesso inspiegabili rinvii, si risolve finalmente a nostro favore. Chiaramente noi non possiamo riprendere il nostro posto di Assistenti in Clinica; quindi io mi dimetto e continuo a lavorare solo al Centro della Microcitemia. Così l’aspirazione ad una carriera universitaria è finita per sempre per Silvestroni e per me.

Intanto però la nostra attività al Centro della Microcitemia si espande. Nella seconda metà degli anni ’50, eseguendo sistematicamente lo studio elettroforetico dell’Hb noi esploriamo con una vasta serie di ricerche la presenza e la diffusione di Hb abnormi in Italia (Silvestroni e Bianco, 1963). Troviamo soltanto la presenza sporadica di alcune varietà emoglobiniche, una presenza non rara dell’Hb L (oggi Hb Hasharon) nel ferrarese ed una statisticamente rilevante, come si è già detto, dell’Hb S in Sicilia. Siamo i primi in Italia a studiare il quadro emoglobinico in tutte le sindromi microcitemiche. Nell’anemia microcitica costituzionale con Hb H dimostriamo (Silvestroni et al., 1960a) l’esistenza di due frazioni emoglobiniche rapide, che vengono giudicate da altri un errore di tecnica, ma nelle quali invece noi segnaliamo (ancor prima che si conosca la composizione globinica di queste frazioni) una sostanziale differenza: la più rapida (che oggi sappiamo essere un tetramero di catene b ) ha, all’esame in UV, il comportamento dell’Hb A e la seconda (Hb Bart’s e cioè un tetramero di catene g ) ha il comportamento dell’Hb F. In 4 famiglie di Hb L studiate a Ferrara (Silvestroni et al., 1960b) troviamo che la quota di Hb L è di solito alta se il soggetto ha il quadro ematologico di una microcitemia con quota normale di Hb A2 (oggi a microcitemia) e bassa se ha il quadro di una b microcitemia o un quadro ematologico normale. Anche queste osservazioni sono in anticipo sui tempi e avranno spiegazione solo qualche decennio più tardi.

Identifichiamo (Silvestroni e Bianco, 1957) soggetti sani con un quadro emoglobinico caratterizzato dalla presenza isolata di Hb A2, che è stato sempre confermato nella letteratura successiva, ma che non ha avuto ancora una spiegazione definitiva a livello molecolare.

Diamo anche inizio alle prime operazioni di screening fra gli alunni delle scuole elementari e ad interventi di divulgazione nella popolazione adulta, dei concetti fondamentali della prevenzione della malattia.

Tutte le nostre pubblicazioni di quei decenni sull’epidemiologia delle microcitemie in Italia, sulle Hb abnormi e sull’organizzazione della lotta contro le microcitemie, portano quasi sempre i nostri soli due nomi e danno vita al binomio "Silvestroni-Bianco" che gli studenti dell’epoca trovano anche nei loro libri di testo. In quegli anni compaiono spesso su quotidiani e settimanali articoli che parlano del nostro Centro e del nostro lavoro. In uno di questi un altro genetista, il Prof. Buzzati Traverso, espone (Buzzati Traverso, 1951) su un settimanale i più importanti risultati delle nostre ricerche, dalla scoperta della microcitemia alla dimostrazione della sua grande diffusione in Italia e al definitivo chiarimento del comportamento ereditario dell’anomalia, sottolineando l’indipendenza dei nostri lavori da quelli contemporanei di Autori nord americani. Illustra anche la suggestiva ipotesi storica, che le nostre ricerche permettono di prospettare, di una remota provenienza della microcitemia in Italia dalla Grecia (Silvestroni et al., 1952).

Il nostro test rapido di studio della resistenza globulare osmotica in un’unica soluzione si diffonde ampiamente. Da Ferrara il Dr. Vallisneri scrive a questo proposito a Silvestroni: "la vostra regola è sempre più solida e malgrado le ostinate resistenze tutti sono costretti a vedere il sole, anche mettendosi un paio di occhiali affumicati".

Intanto il Centro (che è ancora l’unico in Italia ad assicurare assistenza e cura ai malati) perfeziona ed estende la sua attività soprattutto nel settore della terapia trasfusionale. Ma in questo è ancora più efficace l’aiuto che viene dall’Ospedale S. Eugenio dove Silvestroni, divenuto nel 1958 Primario Ematologo, crea il primo reparto di degenza per i malati di morbo di Cooley, al quale incominciano subito ad affluire malati dalle regioni meridionali ed insulari d’Italia, che in breve tempo formano una schiera di circa 300 malati. Molti di questi malati sono oggi quelli più anziani dei malati ancora viventi.

Tutto questo segnala drasticamente all’opinione pubblica e alle Autorità Sanitarie l’impellente necessità di estendere a tutte le regioni italiane più colpite dalla microcitemia quella organizzazione già creata in Roma e in qualche altra città (Ferrara, Cosenza, Napoli, Palermo, Cagliari), tramite istituzione di locali Centri della Microcitemia. Nel 1961 Silvestroni traccia, sulla base della propria esperienza, le direttive per la creazione di una completa organizzazione e dei relativi servizi. Anche i tempi sono maturi. Il DPR n. 249 dell’11/2/1961 dello stesso anno 1961 indica le norme che il Ministero della Sanità fissa per l’erogazione di contributi ad Enti ospedalieri impegnati nella lotta contro le malattie sociali.

Con eccezionale rapidità Silvestroni ottiene nello stesso anno 1961 dal Consiglio Superiore di Sanità la qualifica di malattie sociali per tutte le sindromi microcitemiche e, con l’aiuto del Prof. Puntoni, fonda nel novembre 1961 l’Associazione Nazionale per la lotta contro le Microcitemie in Italia che assume la gestione del Centro. Nel 1963 l’Associazione ottiene una convenzione novennale con il Ministero della Sanità per il finanziamento del Centro della Microcitemia di Roma, degli altri già creati e di quelli che verranno istituiti.

In pochissimi anni nasce una vasta rete di 16 Centri (Silvestroni e Bianco, 1968; Silvestroni e Bianco, 1975), con sede nelle regioni più fortemente microcitemiche, che rapidamente iniziano la loro attività secondo gli indirizzi suggeriti dall’Associazione. Questa organizzazione riceve l’encomio dell’OMS e viene presa a modello dal Governo greco. I 4 Congressi che negli anni ’60 l’Associazione organizza con la collaborazione dell’Istituto Italiano di Medicina Sociale dimostrano che la produzione scientifica sulle microcitemie è ancora in prevalenza italiana e si svolge per la massima parte nei Centri. Riassumendo tutte le attività del Centro di Roma il Prof. Puntoni scrive già nel 1959 (Puntoni, 1959a; Puntoni, 1959b): "questa è l’opera coraggiosamente intrapresa da anni, con silenzio ma con tenacia, con rigore di metodi ma con evidenti risultati, dal Centro della Microcitemia e dalle sue sezioni: opera squisitamente profilattica che si inquadra tra i concetti più elevati della prevenzione". Qualche anno dopo, quando la rete nazionale di Centri è completa e già funzionante, scriverà che l’organizzazione sanitaria creata da noi "onora altamente la nostra nazione", e che i nostri Centri sono "i soli promotori di quella trasformazione culturale delle popolazioni indispensabile per la prevenzione". A Vibo Valentia nel 1969 Silvestroni riferisce che nel Lazio, per la prima volta al mondo, i malati raggiungono già quasi tutti l’adolescenza o la giovinezza: "un miracolo che ancora tutti ignorano". Un’indagine successiva (Bianco, 1986) conferma che nel Lazio il prolungamento di vita dei malati è in anticipo rispetto a tutte le altre regioni italiane.

Intanto verso la metà degli anni ’50, viene scoperto il vasto e denso focolaio microcitemico del sud-est asiatico, e questa drammatica scoperta trasferisce di colpo l’interesse degli studiosi e la ricerca sulle talassemie (questo è il nome che viene usato ormai correntemente nella letteratura per le sindromi microcitemiche) sul piano internazionale. Le periodiche conferenze promosse dall’Accademia delle Scienze di New York documentano l’interesse di tanti nuovi studiosi per questo campo di ricerca e in particolare di alcuni: Lehman e Weatherall in Gran Bretagna, Fessas in Grecia, Wasi in Thailandia.

Le conoscenze sulle talassemie crescono rapidamente in tutti i paesi talassemici. Gli studi raggiungono il livello globinico grazie ad una nuova tecnica messa a punto da Weatherall e Collaboratori (Clegg et al., 1968), che permette di analizzare con esattezza il difetto fondamentale dei geni talassemici e cioè la riduzione o l’assenza di sintesi delle catene globiniche da parte del gene microcitemico.

Alla fine degli anni ’60 otteniamo dal Comune di Roma la concessione di un terreno nell’ambito dell’Ospedale "L. Spallanzani" di Roma, per la costruzione di un ospedale-asilo (oggi si direbbe ospedale con day hospital) per i malati di anemia mediterranea. Otteniamo anche un mutuo dal Ministero dei Lavori Pubblici e il progetto per la costruzione è già pronto. Ma in Italia nascono nuovi gravi problemi, che ci impediscono di realizzare questo programma.

Gli anni ’70 e ’80

All’inizio degli anni ’70 viene infatti introdotto in Italia l’ordinamento regionale. La legge che lo istituisce decreta il trasferimento dei compiti della prevenzione delle malattie dallo Stato alle Regioni. Scade anche la nostra convenzione con il Ministero della Sanità.

Nella difficile fase d’inizio della loro attività le Regioni non riescono ad affrontare i nuovi compiti di prevenzione delle malattie. Di conseguenza tutti i Centri della Microcitemia, che sono ancora le sole strutture in cui si svolge l’assistenza dei malati, cessano di funzionare, in attesa di riprendere il proprio lavoro alle dipendenze della Regione, con grave danno per i malati.

Anche il Centro di Roma resta senza finanziamenti e quasi inattivo per due anni, e incomincia a licenziare il personale. Le difficili condizioni del momento impediscono di dare inizio al progetto di costruzione dell’Ospedale, che viene quindi definitivamente abbandonato. Nello stesso momento riceviamo anche la notizia che nell’Istituto d’Igiene, in cui il Centro ha ancora sede, verrà creato un Centro Universitario per la lotta contro le microcitemie che sostituirà il nostro (che è solo un Centro privato) e che ovviamente non sarà più diretto da noi. Un grave imprevisto impedisce però la realizzazione di questo piano.

Alla la fine del 1974 riusciamo ad avere dalla Regione Lazio il primo, modesto contributo per la prevenzione del morbo di Cooley e nell’ottobre del 1975, dopo una fase di riorganizzazione, diamo inizio allo screening dei microcitemici nella scuola media. In pochi anni il nostro rapporto con la Regione Lazio si consolida, i finanziamenti aumentano, riusciamo a trasferirci dai locali ormai insufficienti dell’Istituto d’Igiene, ad altri più ampi, dove possiamo organizzare nuovi e più attrezzati laboratori e riattivare tutto il nostro lavoro.

In questi stessi anni un grande fervore di studi e di interventi organizzativi si sviluppa anche nel resto dell’Italia. Sul piano organizzativo emerge la rifondazione dei vecchi Centri della Microcitemia e la creazione di altri nuovi. Tra questi hanno particolare rilievo per la loro eccellente attività, il Centro di Ferrara, diretto dal Prof. Vullo che prosegue e sviluppa ampiamente tutte le attività già avviate negli anni ’60; il Centro di Cagliari, diretto dal Prof. Cao, che qualche anno dopo disporrà anche del moderno e attrezzato Istituto per le microcitemie creato per iniziativa di Ezio Silvestroni e del Prof. Macciotta, allora Direttore del Centro. Seguono molti altri Centri nell’Italia meridionale, poi in Piemonte, Lombardia, Liguria.

Sul piano medico si approfondisce la conoscenza di molti aspetti clinici delle malattie talassemiche soprattutto ad opera del Centro di Ferrara; si perfezionano il regime trasfusionale e la terapia ferrochelante; vengono redatti i primi protocolli terapeutici che divulgano rapidamente i canoni essenziali della terapia fra tutti i Centri di assistenza. La qualità e la durata di vita dei malati migliorano notevolmente. Molti di essi raggiungono l’età adulta, si sposano, hanno figli.

Due nuovi Centri (quello di Pesaro del Prof. Lucarelli e quello di Pescara diretto dal Prof. Torlontano) incominciano ad eseguire con successo il trapianto di midollo osseo. Nascono molte Associazioni di genitori dei malati che affiancano attivamente il lavoro dei medici.

Accanto a tutte queste nuove attività, l’avvenimento predominante degli anni ’70 è però l’avvio e il rapidissimo sviluppo degli studi molecolari nelle talassemie, che porta alla scoperta di centinaia di difetti che rendono microcitemici i geni globinici b , a , g e d . Vengono individuate le varietà più frequenti di talassemia nei vari territori e così anche in Italia la mappa delle talassemie passa dal livello ematologico ed emoglobinico delle fasi precedenti a quello molecolare, e cioè all’ultimo e più approfondito livello di analisi. La possibilità di scoprire con certezza i difetti talassemici del DNA dei geni globinici dà (v. oltre) un decisivo impulso anche all’applicazione della diagnosi prenatale. In tutte queste ricerche è all’avanguardia in Italia il Centro di Cagliari.

Gli studi molecolari richiedono però apparecchiature e materiali d’uso molto costosi e ormai ben lontani da quei pochi e semplicissimi mezzi che erano stati sufficienti all’inizio per lo svolgimento delle ricerche sulle talassemie. Nonostante le difficoltà finanziarie anche noi incominciamo ad attrezzarci per questi studi, ma nel 1985 un nuovo ostacolo mette ancora una volta in pericolo la vita stessa del Centro e blocca queste iniziative.

Fino a quell’anno gli introiti finanziari del Centro provenivano in piccola parte dal contributo della Regione Lazio per le attività di prevenzione e in parte predominante dal rimborso da parte del Servizio Sanitario Nazionale delle spese per gli esami diagnostici. Nel 1985 un improvviso provvedimento dell’Assessorato Regionale alla Sanità crea un totale arresto del rimborso di queste prestazioni. Noi restiamo per un anno senza finanziamenti e senza nessun aiuto, nonostante il clamore di un’intensissima campagna di stampa. Riceviamo soltanto un nuovo invito a cedere il nostro Centro all’Università, ma non accettiamo, anche perché siamo in attesa di un intervento della Regione Lazio che risolva il nostro problema. Ci giunge nel frattempo un inatteso ma provvidenziale rimborso di precedenti prestazioni da parte dell’Assessorato Regionale agli Enti Locali che ci permette di sopravvivere. Poco dopo, per iniziativa dell’Assessore Regionale alla Sanità dell’epoca, on. V. Ziantoni, e con la determinante collaborazione di due eccellenti funzionarie, le Dr.ssa M.P. De Luca e M.C. Claudi, viene elaborato un nuovo testo di convenzione che assicura all’Associazione un finanziamento annuo globale, direttamente dalla Regione Lazio, per tutte le sue attività. Questa nuova, vantaggiosa convenzione entra in vigore il 1° luglio 1987. L’Associazione diviene da quel momento una struttura sanitaria ufficialmente riconosciuta e finanziata dalla Regione Lazio.

La nuova stabilità finanziaria ci permette di riavviare e sviluppare tutte le nostre attività e di trasferirci in nuovi locali, in cui viene organizzato anche un settore specifico per gli studi sul DNA. Questi studi si sviluppano rapidamente, grazie alla completa attrezzatura del Centro e all’opera di validi Collaboratori di cui il Centro ora dispone e con i loro risultati pongono in pochi anni il Centro fra i più avanzati del settore in tutta Italia. Lo studio del DNA globinico nelle coppie a rischio viene eseguito regolarmente nei nostri laboratori. Viene definita la distribuzione delle varietà molecolari di microcitemia nel Lazio (Cappabianca et al., 1995; Foglietta et al., 1995); si scopre la notevole frequenza di alcune varietà silenti di b microcitemia (Bianco et al., 1997a) e di talassemie intermedie molto lievi (Bianco et al., 1997b), rimaste fino ad allora confuse fra le semplici eterozigosi b talassemiche. Viene messa a punto una nuova, validissima tecnica (Foglietta et al., 1996) per lo studio delle a talassemie, che viene subito adottata in molti laboratori. Io personalmente raccolgo in due volumi, rispettivamente nel 1991 (Bianco Silvestroni, 1992) e nel 1998 (Bianco Silvestroni, 1998), tutte le più aggiornate conoscenze sulla genetica, l’epidemiologia, la clinica e la prevenzione delle malattie talassemiche.

La prevenzione dell’anemia mediterranea

La prevenzione dell’anemia mediterranea è sempre stata uno dei nostri maggiori obbiettivi fin da quando le nostre ricerche hanno segnalato le dimensioni sociali del problema delle microcitemie in Italia e la possibilità di evitare la nascita di figli malati evitando la procreazione tra microcitemici. Questa prevenzione pre-concezionale però, sebbene molto facile a parole, era in realtà difficilmente raggiungibile in pratica in un’epoca in cui la malattia era ancora completamente sconosciuta sia alla popolazione che ai medici. Le difficoltà erano dunque molto grandi e di gran lunga superiori alle possibilità di qualsiasi iniziativa privata. Per questo Silvestroni aveva già sollecitato in passato l’intervento delle Autorità Sanitarie, ed ottenuto fin dagli anni ’50 e ’60 la partecipazione dell’Alto Commissariato per l’Igiene e la Sanità e poi del Ministero della Sanità.

Negli anni ’70 l’intervento più idoneo per la divulgazione delle conoscenze nella popolazione generale e soprattutto fra i giovani, risulta ancora l’attuazione di un piano organico di informazione e di screening fra adolescenti e giovani. Proprio in questa direttiva i Centri della Microcitemia degli anni ’60 avevano già avviato gli screening nella scuola media (Silvestroni e Bianco, 1968); e a Roma noi avevamo eseguito negli anni ’60 e ’70 con ottimi risultati un analogo screening fra gli studenti universitari (Del Vecchio et al., 1970). Infine nell’ottobre 1975 diamo inizio allo screening annuale nelle scuole medie di 1° grado di tutta la regione.

Nel 1975 si scopre però che esiste anche un’altra possibilità di prevenire l’anemia mediterranea. In America infatti si dimostra (Kan et al., 1977) che si può diagnosticare la malattia nel feto (la cosiddetta diagnosi prenatale) e, di conseguenza, si può evitare la nascita del figlio ammalato interrompendo la gravidanza. La nuova strategia viene subito accolta con grande favore dai giovani talassemici, che così non hanno più nessuna limitazione nella scelta del proprio coniuge (o compagno), ed hanno egualmente il vantaggio di evitare la nascita di figli malati di anemia mediterranea.

La favorevole accoglienza di questa strategia fa apparire di colpo inutili i faticosi screening scolastici e crea una divergenza di opinione fra gli studiosi. Da un lato c’è la nostra strategia che pur accettando e prospettando alle coppie a rischio come mezzo di prevenzione anche la diagnosi prenatale, lascia tuttavia al suo posto centrale e preminente nel piano di prevenzione lo screening scolastico e post-scolastico dei giovani microcitemici. Noi riteniamo infatti più giusto, anche sul piano morale, offrire ai giovani microcitemici tutti i mezzi di prevenzione disponibili e quindi, oltre alla prevenzione post-concezionale, anche quella pre-concezionale. Dall’altro lato c’è la strategia degli studiosi che invece giudicano sufficienti per raggiungere la prevenzione, la sola ricerca delle gravidanze a rischio, la diagnosi prenatale e l’aborto selettivo dei feti ammalati.

I metodi di diagnosi prenatale dell’epoca hanno ancora evidenti difficoltà tecniche per la raccolta del sangue fetale e la diagnosi di talassemia, che io segnalo nel 1977 al Congresso della Società Italiana di Ematologia di Torino (Bianco, 1977), ma che verranno riconosciute solo 10 anni più tardi. In questo Congresso il mio punto di vista viene aspramente contestato, però soltanto fuori dell’aula, al termine della seduta. Intanto la letteratura ripresenta (Editoriale, 1980), per scoraggiare nuove iniziative, i risultati negativi di vecchi screening per la falcemia in negri americani e per la talassemia in Grecia, volendo con ciò dare "a salutary lesson for entusiasts"; vengono giudicati inutili ai fini della prevenzione gli screening scolastici eseguiti dai Centri della Microcitemia; si prospetta il pericolo di danni psicologici per i giovani che verranno diagnosticati microcitemici; si aprono vivaci contestazioni anche sui test diagnostici impiegati negli screening. E’ assai evidente una manovra di emarginazione nei nostri confronti da parte della scienza ufficiale: siamo spesso esclusi dai Congressi in cui si parla di prevenzione; se riusciamo ad intervenire suscitiamo evidente imbarazzo e freddezza negli Organizzatori; ma più spesso non riusciamo a prendere la parola, mentre poi riusciamo facilmente ad ascoltare nel corridoio i commenti negativi o addirittura ironici sul nostro operato. Anche la stampa registra, dopo i Congressi sulla prevenzione, la sensazione che venga "lasciata volutamente in ombra, e non si sa perché, la prevenzione tramite screening dei portatori".

Intanto i nostri screening procedono regolarmente, senza inconvenienti e con ottimi risultati.

Oggi queste divergenze sono superate. Le critiche sono cessate. Si è riconosciuta anche la validità dei vecchi screening scolastici ai fini di una più rapida accettazione della prevenzione post-concezionale. Lo screening scolastico è giustamente considerato oggi un’importante operazione culturale e divulgativa di massa, che non solo rispetta i diritti della minoranza, rendendo possibile anche la prevenzione pre-concezionale, ma è preziosa per la stessa prevenzione post-concezionale, poiché assicura alla coppia a rischio un’applicazione consapevole, tempestiva e corretta dell’intero iter della diagnosi prenatale e dell’eventuale aborto.

Gli screening scolastici si eseguono oggi in quasi tutti i territori microcitemici italiani e di molti altri paesi.

Quanto ai risultati di prevenzione, una recente inchiesta del Ministero della Sanità (Gualano e Quintavalle, 1995) indica che i livelli di prevenzione oscillano nelle varie regioni italiane dal 50 al 100%.

Nel Lazio le nostre periodiche pubblicazioni (Silvestroni et al., 1978; Bianco, 1988) ed i nostri Congressi (VI Congresso Intern. di Roma, 1980; Convegno di Roma, 1994) documentano lo sviluppo progressivo del piano di prevenzione. Gli archivi del Centro raccolgono oggi (1999), 44.000 microcitemici in età fertile. Dal 1992 non è più nato nel Lazio nessun malato salvo 2 del 1999, non causati però da inefficienza del piano di prevenzione. Non è ancora possibile stabilire con esattezza se a questo risultato concorra una quota di prevenzione pre-concezionale. Per ora possiamo soltanto segnalare, come semplice dato preliminare, un calo dell’incidenza della malattia nel Lazio dal 17,69/100.000 nascite del quadriennio ‘75-’78 al 12,78 del quadriennio ‘95-’98. Le cause di questa riduzione dell’incidenza della malattia sono però ancora tutte da esplorare.

Conclusioni

Con l’esattezza dei ricordi e la documentazione dei fatti che può avere un testimone oculare e un protagonista, ho ripercorso brevemente la storia delle microcitemie in Italia e la parte che in questa storia hanno avuto, nel corso degli ultimi 60 anni, i contributi di Ezio Silvestroni e miei. Abbiamo superato in questi decenni, come privati cittadini, numerose e continue difficoltà ma siamo riusciti a mantenere in vita quel Centro della Microcitemia di Roma che noi stessi abbiamo creato nel 1954, e che svolge incessantemente da allora attività socio-sanitaria di diagnosi, assistenza e prevenzione delle malattie microcitemiche, senza scopi di lucro e a beneficio di tutta la popolazione. Questo Centro è oggi per il Lazio e per molte altre regioni d’Italia, un qualificato Centro di riferimento per tutti i problemi delle talassemie.

Debbo dare atto che negli ultimi 25 anni la sopravvivenza e le attività del Centro sono state assicurate dall’aiuto concreto ed ininterrotto della Regione Lazio. Esprimo quindi il mio più vivo ringraziamento ai Presidenti della Giunta Regionale e agli Assessori Regionali alla Sanità del Lazio che si sono succeduti in questi decenni, e un particolare ringraziamento all’attuale Assessore Regionale alla Sanità On. Lionello Cosentino per la sua disponibilità e grande sensibilità per tutti i nostri problemi.