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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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In Europa, il sommerso cresce più del PIL ufficiale

In tutta l’area dell‘euro il sommerso cresce più dell’economia ufficiale. In particolare nei Paesi che, per ragioni diverse, hanno più difficoltà a rimuovere le rigidità e i costi provenienti da un sistema di protezione sociale molto pesante, come Germania ed Italia, il ricorso al lavoro nero tende a crescere.

Le stime ufficiali valutano pari al 14,7% la quota del Pil (al 1999) derivante da attività che sfuggono al fisco o impiegano lavoro irregolare. Sulla base di indagini recenti, effettuate dal Censis, a tale quota va aggiunta un’ulteriore componente, non osservata dall’Istat, pari al 5,1% del Pil, e ciò porta le attività economiche sommerse a costituire in Italia una quota che rasenta il 20% (per l’esattezza 19,8%).

Ove ulteriori verifiche portassero a una conferma di una produzione sommersa pari a oltre 59miliardi di euro (oltre 115.000 miliardi di lire), esclusa dall’attuale calcolo del Pil, si riprodurrebbero le condizioni che, per ben due volte negli ultimi venticinque anni, hanno portato ad una rivalutazione dei nostri conti.

Con le politiche per l’emersione si tenta il recupero delle attività irregolari. Il significativo abbattimento per tre anni degli oneri contributivi offre al Sud quella riduzione del costo del lavoro più volte richiesto, mentre la dichiarazione da parte delle aziende della pregressa irregolarità rappresenta per i lavoratori l’inclusione entro norme di tutela, seppur stemperate da una incombente licenziabilità.

Sono state effettuate prime proiezioni relative al potenziale gettito di questo provvedimento che dovrà contribuire a contenere il disavanzo a partire dal 2002. La base di partenza non può che essere la segmentazione dell’economia sommersa.

Il disegno di legge si rivolge principalmente a imprenditori emersi con dipendenti irregolari, tuttavia il sommerso si compone di:

- imprese a regolarità limitata (evasione parziale e elusione fiscale, uso scorretto della flessibilità e dell’outsourcing, fuori busta ecc.) (le volpi);

- imprese con regolarità strettamente necessaria (iscrizione registro ditte e partita Iva) con una notevole quota di dipendenti in nero ed una rilevante evasione fiscale (i camaleonti);

- unità produttive piccole (attorno ai 5 addetti) ad elevato grado di occultamento totale, collocate in luoghi di lavoro impropri e difficilmente individuabili (le talpe);

- micro-imprese o unità di lavoro individuali con, ma più spesso senza partita Iva, in aree ad elevata volatilità dei settori più disparati dalle nuovetecnologie ai servizi domestici (il formicaio).

Per passare dalle tipologie alle quantità si fa fondamentalmente riferimento
alle stime ufficiali sul lavoro non regolare e recentemente (giugno 2001) aggiornate dall’ISTAT.

Ogni progetto di emersione presuppone una seppur minima organizzazione aziendale (un imprenditore più o meno regolare con lavoratori irregolari): il modello di riferimento resta il piccolo capannone manifatturiero o artigiano.

In realtà anche i dati ufficiali evidenziano una situazione ben diversa. Infatti, anche se consideriamo le unità lavorative (ovvero la standardizzazione di tutti gli effettivi rapporti di lavoro in unità teoriche equivalenti ad un lavoratore a tempo pieno) troviamo come settori maggioritari i servizi domestici (17,2% del totale), i trasporti (12,0%), l’agricoltura e pesca (11,9%) e il settore alberghiero e dei pubblici esercizi (11,4%). Questi primi quattro settori per importanza superano abbondantemente la metà dei lavoratori irregolari, mentre l’industria manifatturiera pesa per l’8,6% e le costruzioni, con solo il 6,9% del totale, risultano evidentemente sottovalutate (tab.1).

Il lavoro irregolare (misurato in termini di posizioni lavorative e cioè di
relazioni attive o di contratti di lavoro impliciti o espliciti) è prevalentemente dipendente, infatti gli irregolari sono per il 79,9% dipendenti e il 20,1% indipendenti. Anche su questa valutazione ufficiale si evidenzia una sottostima in quanto sembra poco realistico che solo il 10,4% degli indipendenti presenti condizioni di irregolarità.

Precedenti indagini, riconfermate in una verifica più recente, hanno portato
il Censis a stimare in 5milioni i lavoratori sommersi; su incarico del Ministero per il Welfare, il Censis ha avviato un nuovo sistema di stima che porterà in primavera ad una misurazione più precisa ed attuale.

Il sommerso cresce più dell’economia ufficiale: fra il 1992 e il 1999 le unità
di lavoro irregolari sono aumentate dell’11%, il tasso di irregolarità del lavoro dipendente è salito dal 21,4% al 23,7% con agricoltura e pesca, edilizia e trasporti in maggiore espansione, mentre i comparti dell’industria manifatturiera vedono andamenti costanti o in diminuzione (tab. 3).

In agricoltura diminuiscono le posizioni lavorative totali ma quelle irregolari crescono dal 52% al 63%; anche il tessile-abbigliamento vede una diminuzione complessiva ma l’irregolarità resta stabile; situazione stazionaria nel settore del legno e arredo, dove si registra il più elevato tasso di irregolarità dell’industria manifatturiera pari al 16,4%, stabile in tutti gli anni ’90; crescono, invece, le posizioni lavorative nella meccanica e cala il tasso di irregolarità dal 5% al 4,4%; in calo l’occupazione nelle costruzioni ed in aumento i dipendenti irregolari nel ’99 pari almeno al 22,2%. Nell’industria si può concludere che il calo occupazionale, derivante da crisi nella competitività, produce un allargamento del lavoro nero. I servizi, in crescita quanto a posizioni lavorative, registrano un livello relativamente costante dell’irregolarità con punte massime dell’82,4% nel lavoro domestico (ma qui non sono estranee al fenomeno le norme restrittive sull’immigrazione), nel settore turistico con il 61,5% e dei trasporti pari al 42,7%, l’unico in cui il sommerso aumenta significativamente la sua quota percentuale nel decennio. Il trasporto è anche quello che ha un tasso di irregolarità elevatissimo anche fra i lavoratori autonomi pari al 55,7%, perfino superiore a quello dei
dipendenti.

All’articolazione settoriale corrisponde una forte differenziazione territoriale.
Dal punto di vista localizzativo il sommerso si concentra in aree a forte asimmetria rispetto ai tradizionali insediamenti produttivi e gli stessi confini amministrativi.
La direttrice napoletana – casertana, ovvero il comprensorio pugliese Salentino (da Mesagne-Francavilla Fontana a Corsano, Casarano), le diverse realtà siciliane come Mazzara e Trapani, Gela o l’area etnea sono altrettanti ambiti territoriali dove si intreccia economia emersa e in nero, in taluni casi sommerso ed economia
criminale. Volendo riportare a livelli più generali la mappa regionale del rischio di sommerso emerge con chiarezza una predominanza meridionale ed in particolare di Calabria, Sicilia e Campania che, fatto 100 l’incidenza media del sommerso in Italia, superano abbondantemente del 50% il valore di riferimento nazionale; si tratta di tre regioni in tendenziale ulteriore espansione quanto ad economia sotterranea. Seguono Basilicata (indice 140), Puglia (indice139) e Molise (indice 138) tutte regioni tendenti alla stabilità. All’estremo opposto si trovano regioni come il Veneto, Lombardia e Trentino Alto Adige, con una tendenza in forte crescita per quanto riguarda il sistema lombardo (tab. 4).

La connotazione meridionale per il sommerso degli anni 2000 è confermata dalla proiezione sulla realtà familiare del lavoro precario ed irregolare: sono, infatti, 3milioni950mila pari al 16,7% le famiglie con almeno un componente che percepisce un reddito precario o in nero. Ammontano a 600mila le famiglie che vivono di solo lavoro nero, ma se a questi nuclei si aggiungono anche quelli dove i redditi sommersi si combinano con le pensioni minime, magari di invalidità, si sale a 1milione270mila nuclei pari al 5,9% (tab. 5).

In questo contesto, non sembra agevole prevedere se i provvedimenti per l’emersione avranno successo: le ragioni fondamentali che inducono ad emergere sono essenzialmente centrate sul timore di essere sanzionati, anche se una quota significativa di imprese si ritiene abbia anche l’esigenza di emergere per poter crescere (tab.6).

Le principali ragioni di diffidenza riguardano più strutturalmente la stessa capacità di sopravvivere nella normalità: ciò dipende, infatti, da una possibilità di competere e stare sul mercato che, per l’impresa sommersa, resta spesso un miraggio.

"E’ indispensabile accompagnare gli automatismi degli sgravi fiscali e contributivi, con un’azione di verifica e sostegno alle condizioni di sviluppo dell’impresa e dell’area", ha commentato Giuseppe Roma, esponendo i risultati dello studio, "altrimenti anche questo tentativo, come i precedenti si può prestare a distorsioni e forse deludenti risultati.

In definitiva, nei diversi settori di attività gli incentivi per l’emersione potranno interessare lo strato intermedio del sommerso, il sommerso di lavoro presente in aziende con livelli organizzativi strutturati, già avviate verso una logica di mercato. La convenienza contributiva e fiscale dovrà combinarsi con il nuovo rapporto di lavoro che si istaurerà con i dipendenti regolarizzati, visto che il lavoro irregolare oltre ad essere meno costoso è soprattutto estremamente flessibile. Difficilmente potrà riguardare piccole aziende per le quali la regolarizzazione a regime (dopo il triennio di riduzione) porterebbe a un incremento dei costi valutabile pari all’87% a fronte di ricavi "bloccati" da una committenza che paga poco più di 1 euro una cravatta (rivenduta in negozio a 30-50 euro), 3-4 euro una camicia o 25 euro un cappotto".


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