STATO POLITICO, STATO AMMINISTRATIVO, FEDERALISMO

di Giovanni Cominelli

 

1. In autunno sarà indetto il referendum confermativo sul disegno di legge costituzionale intitolato "Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione". Mentre le trombe del centro-sinistra suonano, postume, Bossi ha incominciato a suonare le campane della "devolution". Tutta la discussione gira attorno a quante materie debbano essere attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello stato centrale, quante alla potestà legislativa esclusiva alle Regioni, e quante alla legislazione "concorrente" e condivisa tra Stato e Regioni, sulla base del principio di sussidiarietà (istituzionale, fiscale, sociale) di differenziazione, di adeguatezza. A ciò si aggiunge l’ipotesi di Bossi e dei "governatori" del Nord di un federalismo a geometria variabile e a velocità variabile. Il testo del centro-sinistra non va molto oltre il vecchio "regionalismo al limite del federalismo", mentre Bossi spinge per una devolution totale di scuola, sanità, sicurezza alla potestà legislativa delle regioni. Il centro-sinistra tende a far entrare un terzo soggetto: gli Enti locali, Bossi punta di più su una forma di neo-centralismo regionale, federalista verso lo Stato, centralista verso i Comuni e le Province.

2. Il testo sottoposto a referendum, approvato in zona Cesarini dal governo di centro-sinistra, è tutto ciò che resta di una progettazione istituzionale che parte da lontano, dagli anni ’80.

Nel 1982 (VIII Legislatura) sono istituiti i Comitati di studio Riz-Bonifacio per le riforme istituzionali, nel 1983 (IX Legislatura) la Commissione Bozzi, nel 1992 (XI Legislatura) la Commissione bicamerale De Mita-Jotti, nel 1994 il Comitato Speroni (XII Legislatura). Tutte queste commissioni hanno prodotto un sacco di carta, nessuna decisione.

L’ultimo tentativo è quello della Commissione Bicamerale, istituita con legge costituzionale del 24 gennaio 1997, con il compito di rivedere la II parte della Costituzione (L’Ordinamento della Repubblica) e, in particolare: la forma di stato, la forma di governo, il Parlamento e le fonti normative, il sistema delle garanzie. Il 4 novembre del 1997 la Commissione trasmette alle Camere le proprie proposte. E lì restano. Dopo il fallimento, vengono presentati in Parlamento vari testi, relativi soprattutto alla "forma di stato", la maggior parte dei quali intitolati "L’ordinamento federale della Repubblica". Il Governo presenta il 9 marzo 1999 un disegno di legge costituzionale, intitolato "Ordinamento federale della Repubblica", che recepisce proposte di varia provenienza e tiene conto della legge approvata alla Camera, che prevede l’elezione diretta dei Presidenti delle regioni.

3. Statalismo, centralismo, municipi e regioni

Sul tema esiste una letteratura vastissima, soprattutto dopo la crisi del 1989, che ha provocato il crollo del sistema politico della Prima repubblica, la disintegrazione dei partiti storici, l’insorgenza leghista, il movimento giustizialista, i movimenti di riforma istituzionale ed elettorale. Questa letteratura storica e politologica va a lambire i temi dell’identità nazionale, del senso di patria e di nazione, del rapporto tra stato politico e stato amministrativo.

Il modello di stato amministrativo prevalso in Italia è quello di ascendenza giacobino-napoleonico-sabauda. La lotta tra girondini e giacobini durante la Rivoluzione francese (i primi più attenti alle particolarità locali, alle autonomie e all’autogoverno, i secondi portatori, con la legge Le Chapelier del 1791, di una concezione della cittadinanza come legame biunivoco monopolistico tra cittadino e stato) si risolse con la vittoria dei secondi: indivisibilità dello stato, uniformità del decentramento, piramidalità dell’organizzazione amministrativa. Napoleone portò all’estremo questo modello in Francia e lo esportò in Europa.

Che esso sia stato adottato anche in Italia, si deve a due ragioni:

- la prima dipende dalle modalità di unificazione statale del Paese, ridottasi ad annessione allo stato sabaudo di tutti gli altri stati. La burocrazia piemontese ha adottato il modello napoleonico e incrociato al Sud la burocrazia centralistica borbonica. L’unificazione avviene sull’asse Torino-Napoli, sono tagliati fuori il Lombardo-Veneto e la Toscana, forti di un modello più centrato sui municipi.

- la seconda ragione fa dipendere lo statalismo centralistico dalla debolezza di egemonia della borghesia liberale italiana, che va a cercare nella sfera dello stato quella "forza" che non riesce a costruire nella società civile. L’incapacità di avviare un vero e proprio processo politico costituente scarica sullo Stato amministrativo centralizzato la funzione di baluardo unitario rispetto ai processi di frammentazione territoriale e sociale. Insomma: il centralismo diviene una risorsa delle classi dirigenti liberali per fronteggiare i rischi della frammentazione nazionale. Cassese nel libro "Lo stato introvabile" parla di modello étatiste, con un apparato statale centralizzato, sottratto al diritto comune, con una preponderanza dell’esecutivo-amministrativo rispetto al legislativo-rappresentativo. Non che mancassero, già all’epoca dell’unificazione, ipotesi e tentativi federalisti e autonomisti. I ministri Minghetti e Farini nel 1860 e Jacini nel 1868 provarono ad elaborare una terza via tra il centralismo francese e il modello svizzero americano: costituzione delle Regioni, considerate circoscrizioni amministrative dello Stato, sostanzialmente coincidenti con i vecchi stati pre-unitari. Ma l’idea liberale di self-governement si arenò, soprattutto dopo la scoperta da parte delle classi dirigenti liberali del Sud, là dove i settori sociali più reazionari, legati alla Chiesa e ai Borboni, invocavano l’autonomia e il federalismo e usavano il ribellismo delle plebi meridionali contro la politica di annessione garibaldina e sabauda. Perciò tutte le correnti federaliste laiche (Cattaneo) e neo-guelfe (Gioberti) furono sconfitte, perché finirono per apparire come forze antisistema. Lo stato unitario, da fine ultimo dell’unificazione reale del Paese, divenne il suo strumento fondamentale.

Di qui la legislazione centralistica sugli Enti locali, che affonda le sue radici nella legislazione pre-albertina del 1847, passa nella legge Rattazzi del 1859 (senza discussione in Parlamento, perché è in corso la seconda guerra di indipendenza), poi nella legge del 1865, nel Testo unico del 1915, nel Testo unico della legge comunale provinciale del 1934 e si prolunga fino agli anni ’90 del 1900.

Con Crispi il centralismo statalista ha altri bersagli: non più le tendenze secessioniste del Sud, ma l’insorgenza del movimento contadino e operaio, cattolico e socialista. Salvemini e Sturzo rilanciano dal Sud il federalismo, come teoria politica e asse portante del nuovo meridionalismo. Al Congresso di Venezia del 1921, la Regione è descritta come "ente elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo e legislativo".

Giolitti corregge in parte il centralismo statale, in due modi. Istituendo amministrazioni parallele, con la creazione di enti pubblici economici e aziende municipali, e favorendo la mediazione politica del notabile locale, eletto su basi uninominali, che by-passa la burocrazia. Con ciò il centralismo giolittiano, che mentre al Nord concede spazio al municipalismo storico, al Sud si allea con il notabilato locale e pratica la politica delle clientele dei mazzieri (cfr. Salvemini: Giolitti, ministro della malavita).

Nel 1926/27 il fascismo cancella le autonomie locali, introduce il podestà e soprattutto la figura del segretario comunale come funzionario statale. Il Comune diviene un organo ausiliario dello stato.

Nel dibattito costituente, dal 1943 al 1948, si registra una significativa inversione delle parti: i cattolico-democristiani, favorevoli sulla linea di Sturzo a un regionalismo forte e alle autonomie locali (cfr. Codice di Camaldoli e Idee ricostruttive della Democrazia cristiana – 1943), rafforzano viceversa il centralismo statale, nel timore che il regionalismo finisca per concedere spazi ai comunisti in alcune regioni centrali del Paese. Il Pci, a sua volta, culturalmente più vicino a un modello giacobino-leninista di stato, diviene strumentalmente regionalista per ricavarsi una nicchia territoriale e istituzionale nel sistema politico nazionale.

Le Regioni incominciano effettivamente la loro storia solo nel 1970. La costruzione del sistema regionale finisce per riflettere la nuova stagione consociativa, che deforma il profilo istituzionale delle Regioni, trasformandole in sedi di riproduzione del centralismo statale, della burocrazia, dell’inefficienza, del clientelismo, del personale politico-partitico. Le Regioni sono il prodotto più evidente della partitocrazia degli anni ‘70/’80.

Lo sconvolgimento del 1989 sottoproduce una crisi profonda dei sistemi politici e istituzionali regionali, cui il referendum d’autunno e la devolution tentano di fornire una risposta.

Ciò che appare decisivo annotare, concludendo questo breve résumé di storia istituzionale, è che alla costruzione di uno stato liberale di diritto si è sovrapposta quella dello stato amministrativo centralistico. Da Vittorio Emauele Orlando, fondatore della giuspublicistica italiana a Santi Romano, poi grande giurista del fascismo, il fondamento della statualità non è la sovranità popolare, ma la sovranità dello Stato-persona. Alla base della formazione dello Stato unitario non sta un processo costituente contrattualistico liberale e democratico e neppure una libera trasposizione della sovranità da parte degli stati pre-unitari. Secondo Santi Romano stanno la sovranità originaria e la personalità dello stato sabaudo.

Il liberalismo centralista della seconda metà dell’Ottocento, saldandosi con la pratica normativa sabauda, con la scuola hegeliana napoletana e con l’ossessione della disgregazione dello Stato di fronte ai conflitti territoriali, sociali e politici, ha finito per costruire uno stato politico solo formalisticamente liberale e uno stato amministrativo illiberale. Il che spiega per certi aspetti gli elementi di continuità con il fascismo successivo e con il regime repubblicano a direzione democristiana prima, consociativa poi. Tra i due "stati" si tende l’arco perverso del sistema politico-partitico del momento, prima liberale, poi fascista, poi democristiano, poi consociativo, il cui destino è profondamente consustanziale e piegato sullo stato amministrativo, il quale per un verso diviene strumento di dominio e di puro arbitrio, per l’altro costituisce un vincolo ad ogni tentativo di riforma. Nelle pieghe di questo stato amministrativo, fondato oggi su 150.000 leggi e regolamenti e amministrazioni dirette o parallele, si è formata una classe sociale e una burocrazia di alto livello, che rappresentano l’ostacolo principale ad ogni riforma che ne metta in discussione l’insediamento e il potere sociale e "politico".

La trasformazione radicale della democrazia italiana non è possibile senza ricondurre lo Stato amministrativo sotto il controllo dello Stato politico liberale. Il che è come dire che le riforme politico-costituzionali sono destinate a fallire e saranno comunque sempre ostacolate, se non sia avvia un profondo processo costituente volto a spezzare il nucleo oscuro e illiberale dello stato amministrativo. La fase costituente è il tema di questi anni a venire così come lo è stata negli anni ’90. L’avvio dell’assetto bipolare del sistema politico con una possibile stabilità e capacità decisionale dei governi costituisce una base favorevole per l’avvio del processo costituente.

4. Ipotesi per una posizione politica

Le vicende dell’ultimo decennio, a partire dal 1989, hanno fatto esplodere la Costituzione materiale della Prima repubblica e richiedono una revisione profonda della Costituzione formale, in tutte le sue parti. La costruzione di una moderna democrazia liberale, fatta di stato politico liberale e di stato amministrativo fondato sul self governement, sulle autonomie, sulla sussidiarietà, sul federalismo continua ad essere il compito principale delle forze politiche. Questo è oggi il patto costituente come dovere primario della politica.

E’ concreto il rischio che un assestamento bipolare, per il momento stabile, del sistema politico possa oscurare il fatto che la posta in gioco della politica, in Italia, è quella sopradescritta. Non di meno. Se la riforma si fermasse al traguardo, ormai raggiunto, del bipolarismo, l’incertezza e la labilità dei rapporti tra le forze politiche potrebbero pregiudicare il passaggio agli stadi costituenti successivi e, forse, fare precipitare la situazione italiana in nuove e originali forme di intreccio illiberale tra amministrazione, economia e politica più vicine al Sud America che all’Europa.

La mia valutazione politico-culturale sul referendum è che si tratta di un passo in avanti, che muove nella direzione che anche noi condividiamo: quella federalista. Tuttavia è necessario, mentre diciamo "SI", segnalare tutti i nodi irrisolti e i conseguenti rischi.

Il primo è che rimane una notevole indeterminatezza non solo nella partizione tra materie di competenza esclusiva (dello stato o delle regioni), ma, soprattutto e necessariamente, nella definizione delle materie concorrenti. Il che può aprire la strada a un contenzioso defatigante. Ma, soprattutto nel progetto Bossi, non è chiaro dove si situi la difesa del Bill of Rights.

Il secondo: non è immaginabile che il disegno federalista si attui immediatamente e per tutti allo stesso modo. La geometria variabile delle competenze e la velocità variabile della loro recezione sono inevitabili, senza che perciò stesso suoni come presupposto per una secessione silenziosa, come viene accusando la sinistra. Ovviamente tutto ciò può complicare i conflitti, contribuire a far crescere disuguaglianze. Occorrerà perciò un forte esercizio dell’autorità centrale per comporre i conflitti verticali e orizzontali (Corte costituzionale, Senato delle Regioni, Presidenzialismo). Ma l’alternativa a questa rischi resta quella di un immobilismo completo.

La costruzione federale deve avere le gambe nelle regioni, ma la testa nel sistema politico di rappresentanza nazionale: il bicameralismo "perfetto" va abolito, una delle due Camere deve diventare la Camera delle Regioni, eletta con il sistema americano. Diversamente le Regioni tenderebbero a funzionare solo come decentramento amministrativo (è questa la logica delle leggi Bassanini, a Costituzione invariata), unificate politicamente dal capo dell’esecutivo, ma non avrebbero legittimazione nel sistema democratico-rappresentativo. Inaccettabile l’idea di una terza Camera delle autonomie, con la quale, con l’alibi di introdurre una rappresentanza nazionale degli Enti locali accanto alle Regioni, si finirebbe per depotenziare la rappresentanza delle Regioni, ma, soprattutto per aggiungere al bicameralismo un tertium barocco.

Occorre anche avvertire che la variabile della dimensione territoriale-demografica, come la Fondazione Agnelli da molti anni ha dimostrato, è decisiva per la costruzione delle Regioni, che vogliano esercitare poteri fiscali effettivi e avere capacità di entrate.

Resta un’obiezione molto forte a questa posizione federalista: che la condizione delle Regioni, per la filosofia partitocratrica, consociativa, clientelare con cui sono state costruite, è così mal messa che un’ulteriore devoluzione di poteri finirebbe solo per peggiorarla, favorendo il saccheggio ambientale, lo spreco di denaro pubblico, la costruzione di enormi burocrazie inefficienti e corrotte, la violazione dei diritti individuali. Fenomeni del genere si realizzano già ora, in proporzione diversa, in tutte le Regioni, soprattutto in quelle meridionali. Il che significa che il solo federalismo verticale e istituzionale non è in grado di produrre un cambiamento. E’ vero! Ma si deve superare in avanti, aprendo il discorso, già formalmente avviato in tutte le Regioni, dei "nuovi statuti" regionali. Dobbiamo lanciare l’idea delle "Costituzioni regionali", nelle quali il sistema politico, il sistema elettorale e il sistema istituzionale siano, a loro volta, ispirati ai principi del federalismo, della separazione dei poteri, del check and balance, della difesa dei diritti individuali.

Ciò impone un'elezione separata di Presidente e Consiglio regionale, la delega di tutti i poteri adeguati e sufficienti alle unità municipali e alle aree metropolitane, la costituzione di una "Corte suprema" regionale e di una "Corte dei conti" regionale.

Insomma: ci sono molte ragioni per nutrire preoccupazioni e timori, ma la più grande che dovremmo avere è quella dell’immobilità conservatrice.

La Seconda repubblica è incominciata, una politica all’altezza deve assumere questo terreno come il suo più proprio.