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Una tutela giudiziaria per i disabili stranieri di Mario Pavone ** *** 1.Premessa L’Italia sta diventando un Paese multietnico.Le ondate migratorie degli ultimi anni hanno condotto nel nostro paese milioni di persone dalle caratteristiche fisiche e dalle origini etniche molto diverse dalle nostre. Nei confronti dei cittadini stranieri, i cui figli frequentano le nostre scuole e sono a tutti gli effetti nostri concittadini, il nostro Paese intende assicurare la necessaria tutela da ogni forma di discriminazione. Va sottolineato come la discriminazione sia sempre dolorosa e come, in alcuni casi, possa divenire anche violenta. Essa può assumere mille volti e nella maggior parte dei casi è impossibile individuarne una forma ben connotata. Talvolta anche il semplice disprezzo e la discriminazione quotidiani e sottili offendono e arrecano danno alle vittime. La discriminazione, inoltre, può manifestarsi nella vita quotidiana e nei rapporti di dipendenza: durante la ricerca di un impiego, sul posto di lavoro, alla ricerca di un alloggio, nel vicinato, a scuola, nei con tatti con le autorità e all’interno della famiglia. La discriminazione razziale è, per fortuna, raramente diffusa in Italia ed ancora più raramente essa è dettata da un’ideologia razzista e, nella maggior parte dei casi, essa si manifesta con paure diffuse, pregiudizi e atteggiamenti aggressivi. Non mancano, tuttavia, episodi isolati che meritano di essere segnalati all’attenzione degli operatori del diritto per evitare in avvenire il ripetersi di accadimenti che minano alla radice i principi di civile convivenza e di rispetto della dignità umana che sono fondamentali per ogni società multietnica. In tale direzione assume un importante rilievo la sentenza n. 46783/2005, con la quale la Suprena Corte ha condannato alla pena di quattro mesi di reclusione un barista che si era più volte rifiutato di servire le consumazioni richieste da cittadini nord africani. L’esercente del bar rifiutava sistematicamente di servire i cittadini extracomunitari, finché un giorno due di questi hanno richiesto e ottenuto l’intervento della polizia. Così il barista, che aveva rifiutato di servire due caffè e aveva invitato i due a uscire dal locale, si è ritrovato in tribunale accusato di aver commesso atti di discriminazione razziale. Il Tribunale lo ha ritenuto colpevole e condannato a quattro mesi di reclusione. La sentenza è stata successivamente confermata in appello e dalla stessa Suprema Corte che ha ribadito che il comportamento dell’esercente non può trovare alcuna «ragione giustificatrice» se non quella di «offendere la dignità dei cittadini extracomunitari a causa della loro diversa razza ed etnia». La Suprema Corte ha anche fatto riferimento, in sentenza, alla Convenzione Onu di New York del 1966 volta alla eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale per assicurare la stessa dignità sociale ai cittadini di ogni stato e per reprimere penalmente i comportamenti che costituiscono espressione di discriminazione razziale. L’Italia, ha osservato la Corte, oltre ad aver firmato questa Convenzione, ha anche varato proprie norme che mirano a far cessare «in tempi rapidi, con l’azione civile, comportamenti di privati o della pubblica amministrazione che producono discriminazione». Tali norme prevedono anche il diritto al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per chi abbia subito atti discriminatori.(1) Ogni vittima di episodi di discriminazione ha diritto di avere una tutela specifica per il proprio caso ed a maggior ragione se si tratta di un soggetto disabile che già affronta con difficoltà la propria esisten za quotidiana. Di recente, la Corte Costituzionale, con sentenza 02.12.2005 n° 432, ha dichiarato la illegittimità dello art. 8, secondo comma, della legge della Regione Lombardia n. 1/2002, come modificato dall’art. 5, co. 7, della legge della Regione Lombardia n. 25/2003, che escludeva i disabili stranieri dalla circola zione gratuita sui servizi di trasporto pubblico di linea in quanto la norma risultava emanata in violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione, ed in conseguenza ha esteso tale principio a tutte le Regioni d’Italia. Secondo la Corte delle Leggi, il principio della parità di trattamento, sancito dall'articolo 3 della Costituzione, comporta che non può essere praticata alcuna discriminazione in pregiudizio delle persone con disabilità.
2.Il quadro normativo Tale principio è, invero, contenuto nella Carta dei diritti fondamentali proclamata solennemente dai Presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione a nome delle tre istituzioni nel corso della Conferenza intergovernativa tenutasi a Nizza nel dicembre 2000. La Carta comprende 7 Capi, il terzo dei quali dedicato all'Uguaglianza (articoli da 20 a 26). Accanto all'articolo 21, relativo al tema della discriminazione in tutti i suoi aspetti (razziale, etnico, religioso, ecc.), gli articoli seguenti sono dedicati a categorie specifiche (bambini, anziani, disabili, ecc.). In particolare, recita l’art. 21: 1. È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali. 2. Nell'ambito d'applicazione del trattato che istituisce la Comunità europea e del trattato sull'Unione europea è vietata qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza, fatte salve le disposizioni particolari contenute nei trattati stessi." Il Decreto Legislativo n. 215 del 9 luglio 2003 ha recepito quanto previsto dalla normativa comunitaria in materia, stabilendo delle relazioni tra trattamento discriminatorio e atti di razzismo (molestie, intimidazioni, ecc.). L’Italia ha, quindi, adottato integralmente la nozione di discriminazione applicata in abito comunitario, distinguendo tra - discriminazione diretta, rivolta al singolo individuo che viene trattato in maniera sfavorevole rispetto a quanto dovrebbe accadere in una situazione analoga; - discriminazione indiretta, quando ‘una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone’. L’articolo 3 del medesimo decreto stabilisce anche l’ambito di applicazione della norma, individuando il lavoro, l’accesso ai servizi, l’accesso alla casa, la sanità e l’istruzione come ambiti di intervento. Anche il Testo unico sull’immigrazione (Legge 189/2002) ha introdotto una norma di tutela con l’art.43 “Discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che dispone: 1. Ai fini del presente capo, costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica. 2. In ogni caso compie un atto di discriminazione: a) il pubblico ufficiale o la persona incaricata di pubblico servizio o la persona esercente un servizio di pubblica necessità che nell'esercizio delle sue funzioni compia od ometta atti nei riguardi di un cittadino straniero che, soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionali, lo discriminino ingiustamente; b) chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire beni o servizi offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; c) chiunque illegittimamente imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire l'accesso all'occupazione, all'alloggio, all'istruzione, alla formazione e ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione, etnia o nazionalità; chiunque impedisca, mediante azioni od omissioni, l'esercizio di un'attività economica legittimamente intrapresa da uno straniero regolarmente soggiornante in Italia, soltanto in ragione della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, confessione religiosa, etnia o nazionalità;
e)il datore di lavoro o i suoi preposti i quali, ai sensi dell'articolo
15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, come modificata e integrata dalla
legge 9 dicembre 1977, n. 903, e dalla legge 11 maggio 1990, n. 108,
compiano qualsiasi atto o comportamento che produca un effetto
pregiudizievole discriminando, anche indirettamente, i lavoratori in
ragione della loro appartenenza ad una razza, ad un gruppo etnico o
linguistico, ad una confessione religiosa, ad una cittadinanza.
Costituisce discriminazione indiretta ogni trattamento pregiudizievole
conseguente all'adozione di criteri che svantaggino in modo
proporzionalmente maggiore i lavoratori appartenenti ad una determinata
razza, ad un determinato gruppo etnico o linguistico, ad una determinata
confessione religiosa o ad una cittadinanza e riguardino requisiti non
essenziali allo svolgimento dell'attività lavorativa. 3.La tutela dei disabili stranieri In questo quadro normativo si inserisce la nuova Legge 01.03.2006 n° 67 (2) che prevede una tutela giurisdizionale contro gli atti ed i comportamenti discriminatori nelle forme previste dall'art. 44, commi da 1 a 6 e 8, del Testo unico sull'immigrazione in favore dei disabili stranieri. Le nuove disposizioni stabiliscono che:
Il provvedimento, anzitutto, stabilisce il comportamento cui le istituzioni sono tenute, nei confronti dei disabili, per garantire il rispetto effettivo del principio di parità di trattamento e la promozione delle pari opportunità. Il provvedimento descrive la condotta discriminatoria fissando la nozione di discriminazione sia diretta che indiretta, facendo riferimento alla direttiva n. 2000/43/CE relativa alla parità di trattamento fra le persone, indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, ed alla direttiva n. 2000/78/CE relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro. Il provvedimento inoltre delinea il quadro della tutela giurisdizionale con la relativa legittimazione ad agire. In tal senso il provvedimento prevede la possibilità di attivare la procedura giurisdizionale di cui all'art. 44 del decreto legislativo n. 286/98 ai casi di discriminazione connessi alla disabilità, al fine di garantire al disabile una tutela celere e spedita. Di particolare rilievo risulta appare la previsione che estende la legittimazione ad agire in giudizio, sia per i casi di discriminazione individuale che collettiva ad associazioni ed enti costituiti a tutela dei disabili. Tale estensione è prevista sia su delega del disabile, sia nell'ipotesi in cui i suddetti organismi abbiano interesse ad intervenire nei giudizi per danni subiti dal disabile, o ritengano di ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l'annullamento di atto. A tal proposito va ricordato che per contribuire a conseguire questo obiettivo ed in attuazione ad una direttiva dell’UE, dal 16 novembre 2004 è stato istituito presso il Ministero delle Pari opportunità l’ “Ufficio per la promozione della parità di trattamento e la rimozione delle discriminazioni fondate sulla razza o origine etnica” (UNAR). Scopo della iniziativa è quello di assistere, in collaborazione con le associazioni e gli enti presenti su tutto il territorio nazionale, le stesse vittime anche nel percorso giurisdizionale, ove esse decidano di agire in giudizio, per l’accertamento e la repressione del comportamento discriminatorio. Presso l’Ufficio è stato istituito un apposito registro presso il quale gli enti e le associazioni possono iscriversi per ottenere il riconoscimento di agire in giudizio in nome e per conto delle vittime dei fenomeni discriminatori. Significative sono anche le disposizioni normative introdotte nell’ordinamento con le quali si stabilisce un quadro generale per le parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. Con tali disposizioni non solo si ribadisce il divieto di discriminazione dei lavoratori per fattori legati alla religione, alle convinzioni personali, alla disabilità, all’età o all’orientamento sessuale, ma si prevedono specifici meccanismi processuali per garantire alle vittime di tali discriminazioni una rapida ed efficace tutela giurisdizionale.
Va pure ricordato che l'inserimento lavorativo dei disabili è stato
recentemente disciplinato dalla L. 68/99 che promuove l'inserimento e
l'integrazione lavorativa delle persone disabili attraverso servizi di
sostegno e di "collocamento mirato" in funzione delle esigenze aziendali
e delle capacità del singolo. 4.La tutela giurisdizionale In base all’art.3 della nuova Legge “ La tutela giurisdizionale avverso gli atti ed i comportamenti di cui all'articolo 2 della presente legge e' attuata nelle forme previste dall'articolo 44, commi da 1 a 6 e 8, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286. Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, puo' dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all'articolo 2729, primo comma, del codice civile. Con il provvedimento che accoglie il ricorso il giudice, oltre a provvedere, se richiesto, al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, ordina la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, e adotta ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione, compresa l'adozione, entro il termine fissato nel provvedimento stesso, di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate. Il giudice può ordinare la pubblicazione del provvedimento di cui al comma 3, a spese del convenuto, per una sola volta, su un quotidiano a tiratura nazionale, ovvero su uno dei quotidiani a maggiore diffusione nel territorio interessato”. La norma richiama espressamente alcuni commi dell’art.44 del TU sull’immigrazione che stabiliscono testualmente: 1.Quando il comportamento di un privato o della pubblica amministrazione produce una discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, il giudice però, su istanza di parte, ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. 6. Contro i provvedimenti del pretore è ammesso reclamo al tribunale nei termini di cui all'articolo 739, secondo comma, del codice di procedura civile. Si applicano, in quanto compatibili, gli articoli 737, 738 e 739 del codice di procedura civile. 8. Chiunque elude l'esecuzione di provvedimenti del pretore di cui ai commi 4 e 5 e dei provvedimenti del tribunale in composizione monocratica di cui al comma 6 è punito ai sensi dell'articolo 388, primo comma, del codice penale. Il rito previsto dall’art.44 del TU in materia di immigrazione predispone, quindi, a protezione del sogget to discriminato, un percorso giudiziale estremamente agile col quale egli potra', a termini del co.1, non solo ottenere una tutela di tipo inibitorio, ma “ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione”, come, ad esempio, la disapplicazione dell’atto amministrativo illecito e l’ordine rivolto alla p.a. di provvedere a ripristinare o riconoscere l’interesse leso o negato.(3) Contro comportamenti che producono discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, la parte lesa può rivolgersi al Tribunale dove si trova il proprio domicilio per chiedere che sia ordinata la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottato ogni altro provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione. Con la decisione che definisce il giudizio il Tribunale può condannare il soggetto che ha posto in essere il comportamento discriminatorio al pagamento, in favore della vittima, oltre che dell’eventuale perdita patrimoniale, anche del cosiddetto danno morale. Tale ultimo profilo rappresenta una novità per il nostro ordinamento, così svincolando il risarcimento del danno morale dalla sussistenza degli estremi di reato.(4) L’azione civile contro la discriminazione è un procedimento di volontaria giurisdizione, pertanto libero nelle forme e azionabile direttamente dall’interessato, senza il bisogno dell’obbligatoria assistenza tecnica di un avvocato. In tal senso la procedura risulta rapida e semplificata ma incontra comunque il grave limite del principio dell’onere della prova previsto dall’art. 2697 Codice Civile, che continua a gravare sul soggetto che ritiene di aver subito un comportamento discriminatorio.atteso che, secondo la norma introdotta “Il ricorrente, al fine di dimostrare la sussistenza di un comportamento discriminatorio a proprio danno, puo' dedurre in giudizio elementi di fatto, in termini gravi, precisi e concordanti, che il giudice valuta nei limiti di cui all'articolo 2729, primo comma, del codice civile”. 5.Conclusioni Secondo le direttive impartite dalla UE (5), le discriminazioni basate sulla razza o sull'origine etnica possono pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato istitutivo della Comunità Eurpea, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà. Esse possono anche compromettere l'obiettivo di sviluppare l'Unione europea in direzione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia. In particolare il 15 luglio 1996 il Consiglio Europeo ha adottato un'azione comune (96/443/GAI) nell'ambito dell'azione intesa a combattere il razzismo e la xenofobia in cui gli Stati membri si impegnano ad assicurare un'effettiva cooperazione giudiziaria per quanto riguarda i reati basati sui comportamenti razzisti o xenofobi. Per assicurare lo sviluppo di società democratiche e tolleranti che consentono la partecipazione di tutte le persone a prescindere dalla razza o dall'origine etnica, le azioni specifiche nel campo della lotta contro le discriminazioni basate sulla razza o l'origine etnica dovrebbero andare al di là dell'accesso alle attività di lavoro dipendente e autonomo e coprire ambiti quali l'istruzione, la protezione sociale, compresa la sicurezza sociale e l'assistenza sanitaria, le prestazioni sociali, l'accesso a beni e servizi e la loro fornitura. Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata sulla razza o l'origine etnica dovrebbe pertanto essere proibita in tutta la Comunità. Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l'ingresso e il soggiorno di cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all'occupazione e all'impiego. Nell'attuazione del principio della parità di trattamento a prescindere dalla razza e dall'origine etnica la Comunità dovrebbe mirare, conformemente all'articolo 3, paragrafo 2, del trattato CE, ad eliminare le ineguaglianze, nonché a promuovere la parità tra uomini e donne, soprattutto in quanto le donne sono spesso vittime di numerose discriminazioni. La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autorità giudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali. Tali norme possono prevedere in particolare che la discriminazione indiretta sia stabilita con qualsiasi mezzo, compresa l'evidenza statistica. È importante proteggere tutte le persone fisiche contro la discriminazione per motivi di razza o di origine etnica. Gli Stati membri dovrebbero inoltre, se del caso e conformemente alle rispettive tradizioni e prassi nazionali, prevedere una protezione per le persone giuridiche che possono essere discriminate per motivi di razza o origine etnica dei loro membri. Il divieto di discriminazione non dovrebbe pregiudicare il mantenimento o l'adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone di una determinata razza od origine etnica e tali misure possono permettere le organizzazioni delle persone in questione se il loro principale obiettivo è la promozione di speciali necessità delle stesse. In casi strettamente limitati, una differenza di trattamento può essere giustificata quando una caratteristica collegata alla razza o all'origine etnica costituisce un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell'attività lavorativa, la finalità è legittima e il requisito è proporzionato. Tali casi dovrebbero essere indicati nelle informazioni trasmesse dagli Stati membri alla Commissione. Le vittime di discriminazione a causa della razza o dell'origine etnica dovrebbe disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative a rappresentanza e difesa in giustizia. L'efficace attuazione del principio di parità richiede un'adeguata protezione giuridica in difesa delle vittime. Le norme in materia di onere della prova devono essere adattate quando vi sia una presunzione di discriminazione e, per l'effettiva applicazione del principio della parità di trattamento, l'onere della prova debba essere posto a carico del convenuto nel caso in cui siffatta discriminazione sia dimostrata. Gli Stati membri non sono tenuti ad applicare le norme in materia di onere della prova ai procedimenti in cui spetta al giudice o ad altro organo competente indagare sui fatti. I procedimenti in questione sono pertanto quelli in cui l'attore non deve dimostrare i fatti, sui quali spetta al giudice o ad altro organo competente indagare. Gli Stati membri dovrebbero, infine, promuovere il dialogo tra le parti sociali e con organizzazioni non governative ai fini della lotta contro varie forme di discriminazione.
NOTE (1) come riferisce Anna Teresa Paciotti in studiolegalelaw.it (2) pubblicata sulla G.U. 06.03.2006 e da Altalex.it (3)v.P.Morozzo, Gli atti discriminatori nel diritto civile, alla luce degli artt. 43 e 44 del t.u. sull’immigrazione, Università di Urbino (4)v.L.Mughini, Discriminazione e contesto normativo internazionale e nazionale. (5)v. Direttiva 2000/43/CE Consiglio del 29 giugno 2000 -Parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica
Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilita' vittime di discriminazioni. (GU n. 54 del 6-3-2006) |
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