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Umano. Troppo umano "Il sangue versato nel continente europeo durante gli ultimi trecento anni è sproporzionato a quel che ne è derivato per ogni nazione: in fondo, la Francia è rimasta la Francia, la Germania la Germania, la Polonia la Polonia, l’Italia l'Italia. Ciò che con lo spargimento di fiumi di sangue è stato conseguito dall’egoismo dinastico, dalla passione politica, dal cieco patriottismo, in fatto di mutamenti politici, anche se in apparenza considerevoli, ha solo toccato la superficie delle nazioni, non ha sostanzialmente modificato i caratteri fondamentali di esse. Se questi stati avessero dedicato anche una piccola parte dei loro sacrifici a scopi più sensati, i risultati sarebbero stati certamente maggiori e più duraturi." Tralasciamo i preliminari sull’Olocausto e il nazismo: conosciamo gli avvenimenti e conosciamo i protagonisti di quella storia, e ognuno di noi ha la propria idea di quanti siano, e quali, i mille fili che la legano agli avvenimenti di oggi, oltre a quelli della memoria e dell’immodificabile orrore. Io credo che valga la pena di dedicare una particolare riflessione su un aspetto di quella storia e del modo in cui è stata trattata, e della sintassi concettuale con cui è entrata a far parte della coscienza collettiva: il tema della follia, ossia del nazismo come anomalia e come manifestazione del potere di un genio del male, di una maschera diabolica, di un grottesco ometto con la bava alla bocca e della sua cricca di depravati. Anche molte analisi approfondite, e non propagandistiche, della storia tedesca del periodo hanno sostanzialmente avallato questa interpretazione diabolica e psicopatologica del periodo nazista - certo, con molti suggestivi argomenti e con l’aiuto del comportamento di numerosi singoli personaggi, e per l’appoggio dell’iconografia gotica del regime, e non da ultimo per l’enormità stessa di certi crimini. Il tanto celebrato film di Chaplin, per esempio, sceglie esattamente questa chiave grottesca per fare il ritratto del Grande Dittatore: i soli momenti di umanità, di normalità sono quelli delle sue vittime, e per contrasto il grottesco risalta ancora di più. La storia del film e il momento in cui fu girato raccontano di una grande e coraggiosa ostinazione di Chaplin, e il risultato artistico fu buono: ma storicamente e culturalmente io credo che appartenga alla categoria delle letture sbagliate. Il nazismo non fu follia. L’Olocausto non fu follia, né opera di un satana che si aggira nella storia degli uomini e di tanto in tanto riesce a fare capolino. Il nazismo fu politica, una lucida e circostanziata politica, che si pose in continuità con quella precedente e che prefigura in modo drammatico quella successiva. Le parole citate in apertura di quest’articolo furono pronunciate da Adolf Hitler, nel parlamento tedesco, nel marzo del 1935. A quelle parole se ne possono aggiungere altre, tra le quali i tanti discorsi che precedettero e accompagnarono l’Anschluss e portarono a Monaco e ai suoi esiti: nessuno di quei discorsi è il discorso di un pazzo, ma anzi di un politico accorto, furbo, che sa calcolare bene i punti deboli dei suoi interlocutori e sa porgere il pretesto che essi possono cogliere per far finta di non capire quale sia la reale situazione. Il riarmo della Germania non fu concepito e attuato da un regime di pazzi, ma fu un esemplare programma tecnico-produttivo, realizzato in pochi anni e in una situazione non propriamente favorevole. A questo proposito, è cosa nota che i suoi generali erano ben consapevoli che l’opera di riarmo non era ancora completata, e tentarono di sconsigliare Hitler dal compimento degli ultimi passi decisivi verso la guerra. Ma è anche vero che l’azzardo hitleriano poggiava su argomenti politico-strategici nient’affatto peregrini, che i successi dei primi anni e le novità tattiche nell’uso delle panzer divisionen hanno in buona parte giustificato – insomma, il suo azzardo era da considerare assai inferiore a quello compiuto da Mussolini, nel gettarsi in eventi verso i quali l’Italia era totalmente inadeguata. L’analisi di tutti gli eventi e i discorsi hitleriani, e dei comportamenti individuali della gerarchia di regime, negli anni che vanno dal ’33 al ’43, quest’analisi ci racconta la storia di un uomo e di un partito anomali rispetto alla generalità delle classi dirigenti politiche diffuse in Europa, essendo costituita dalla più grande varietà umana, dalle biografie più diverse, tutte accomunate da arrivismo e da una buona dose di casualità, da cinismo e da una inclinazione alla violenza, e da un livello culturale piuttosto scadente o eterogeneo. Un partito di espliciti avventurieri. Ma non era un partito di pazzi, nonostante che gli junker e l’alta borghesia storcessero il naso di fronte alla rozzezza delle camicie brune e dei parvenu della nomenklatura di regime. Un partito, in ogni caso, che non poté realizzare ciò che realizzò in termini di riarmo e di riorganizzazione sociale senza l’opera determinante della classe media tedesca, della burocrazia statale, della tecnocrazia industriale: complici – forse interamente consapevoli, forse agnostici o perfino ingenui – ma certamente neanche loro erano pazzi. C’è poi il capitolo della guerra, nelle sue tre fasi e tre dimensioni – fase di aggressione, di equilibrio e di sconfitta; dimensione militare, diplomatica ed economica. Nel suo insieme si trattò di una guerra che era assurda già per il fatto stesso di essere stata concepita e iniziata, per le ragioni che lo stesso Hitler espone nei discorsi a cui abbiamo accennato e per altri che gli strateghi dello stato maggiore tedesco si sforzarono di far valere. Le ragioni politiche che spingevano Hitler non erano però così assurde, non più di qualunque altro calcolo cinico che ha guidato le decisioni di re e imperatori in secoli passati, o quelle dei suoi alleati del momento. La paranoia dell’uomo e la cupio dissolvi si manifestarono nelle ultime fasi della guerra, specialmente a partire dal periodo di Stalingrado: ormai tutti, ovviamente a partire dallo stesso von Paulus, avevano capito che la strategia di guerra doveva cambiare, ma nessuno ebbe la forza o l’intraprendenza di disobbedire, di imporre la propria opinione, e un’intera classe dirigente ben consapevole non fu capace di cambiare il corso delle cose. Possiamo chiamare tutto ciò "pazzia"? Certamente possiamo, ma in gran parte solo come metafora, come invettiva, che dovremmo applicare anche al Giappone, al quale invece vengono applicate le categorie dell’antropologia culturale. La stessa paranoia del Fuhrer appare un dato sopravvalutato, rispetto allo status istituzionale che era stato creato dal regime. E’ la rigidezza del regime, le complicità incrociate che aveva creato, la sua inerzia corazzata, la sua stessa cinica efficienza, che portarono alle estreme conseguenze la cupio dissolvi e impedirono che la razionalità di molti (se non la loro buona fede e umanità) si potesse liberare dell’ormai irrazionale capo e dei suoi più stretti camerati. Il disegno imperialistico, la sventatezza dell’Operazione Barbarossa, erano destinate a fallire. Ma cosa dovremmo dire allora, in termini di "pazzia", a proposito di Napoleone e Carlo XII, che ugualmente non si resero conto dell’enormità dell’orso russo e delle sue pianure e dei suoi inverni e delle sue distanze? E cosa diciamo della Gestapo e delle SS che non possa essere detto – scegliendo tra pazzia e vergogna - delle polizie segrete, dei corpi speciali, dei torturatori in divisa della Lubianka e quelli di Vichy, e delle bande di Pavelic, e dei mercenari in Congo, dei parà in Algeria, e della milizia di Papadopulos, di Salazar, di Pol Pot, di Pinochet, e dei vari tipi di berretti verdi e teste di cuoio addetti alle operazioni sporche, e dei "consiglieri" in blazer e valigetta? Ma, nonostante tutto, non è qui – nella storia del regime e dei suoi atti – che si gioca la partita tra la pazzia e la vergogna, tra la politica e la psicoanalisi. Alla metà degli anni ’20 accaddero tre cose che segnarono, ognuna suo modo, la storia del secolo: Lenin lasciò il posto a Stalin, Hitler scrisse e diffuse il Mein Kampf, e Kafka pubblicò il Processo – ovvero, la storia e il suo commento. Del Mein Kampf molto, ma non troppo, si è parlato, poco si è letto, e ancor meno analizzato in termini politici – se non nella cerchia ristretta dell’accademia, forse. Io credo che, da molte parti, ci sia una sorta di paura nel diffondere il testo hitleriano, perché si rivelerebbe l’arcano di concetti, parole, giudizi di un’agghiacciante "normalità". In particolare i capitoli IV – VI – VII – XI ci danno la misura di un partito che non ha niente di folle, che analizza lucidamente la psicologia di massa, le aspettative xenofobe della piccola borghesia, le strategie per la conquista del consenso, il valore dei simboli nella comunicazione. In questi capitoli e nel resto del libro è raccontato, in sintesi ma in forma estremamente chiara, quello che succederà negli anni successivi e le ragioni ideologiche e quelle politiche di ciò che succederà, ossia più propriamente di quello che il partito nazional-socialista metterà in esecuzione. Non si può capire il Novecento – e neppure forse l’inizio di questo XXI secolo – se, tra i libri di testo nella scuola, non si porta anche il Mein Kampf. Non è un libro di filosofia, né un libro "politico-intellettuale" , ma è il libro che mette in fila le idee della "gente comune", una certa parte oscura e dominante di cultura diffusa, di sindromi e di semplificazioni, di livori, di orgoglio nazionalistico, di vulgate storiche false e faziose, di xenofobie e di qualunquismi, il tutto mescolato con giudizi inoppugnabili, talvolta ovvi e talvolta acuti. E’ il manuale per la fondazione di un partito, speculare e quasi contemporaneo al Che fare? di Lenin, eppure assai distante, perché è tanto proiettato verso la modernità della società di massa, quanto quello di Lenin riflette la concezione di un partito etico ottocentesco. Un insieme agghiacciante non per la sua "follia", ma per la sua riconoscibile normalità. Normalità della politica e dei capi-popolo, ma anche normalità della stessa gente comune che li vota nelle elezioni, normalità dell’ideologia piccolo-borghese, con le stesse eccezioni e con le stesse ambiguità, con le stesse giustificazioni, con la stessa interpretazione della grandeur. La normalità di cittadini che vogliono essere ben amministrati da un borgomastro, ma che coltivano sempre il sogno di un imperatore, e dunque di una nazione già di per sé divisa tra la diligenza modesta dei bravi maestri di scuola e le visioni millenariste dei suoi filosofi, e che vive le sue trasgressioni divisa tra la birreria e il misticismo. All’inizio dell’era industriale, scriveva Goethe: "Ho sempre provato un’amara tristezza nel pensare al popolo tedesco, un popolo così degno di stima nei singoli individui e così miserabile nel suo insieme". Alla vigilia delle due guerre che avrebbero devastato l’Europa - e segnato il tramonto prima dell’era imperiale, poi di quella industriale - Nietzche scriveva cose analoghe della nazione e della cultura tedesca, specialmente nelle pagine delle Inattuali, e già il loro titolo ci promette cose che il contenuto mantiene. Giudizio durissimo, che è in realtà un giudizio che non riguarda la sola "nazione tedesca", ma tutta la società occidentale e l’incombente modernità, e che – in questo senso – dobbiamo rifiutare nel suo apparente nihilismo: in un caso e nell’altro è il caso forse del "poeta che esagera per amore il proprio disamore". Goethe e Nietzche, e tanti altri, costituiscono la prova che la nostra cultura è capace di produrre una forte coscienza e una critica decisiva verso se stessa. Ma ci forniscono anche la prova che questo avviene sempre al di fuori e contro quella "normalità", di quella "cultura diffusa" e prevalente che è terra di manovra per la demagogia e per gli avventurismi. Una lunga e illustre catena di intellettuali, di critici, nei quali c’è la preveggenza di ciò che costituisce il male oscuro e il punto debole della democrazia, specialmente nella sua versione di massa e post-industriale. L’ascesa e l’avvento di Hitler segnano la materializzazione di queste preveggenze, nella forma più nuda e plateale, e nella nazione forse più a rischio in questo senso, ma dopo che già numerosi segni si erano già avuti in molte parti d’Europa. Non bisogna dimenticare, infatti, che il nazional-socialismo andò al potere con l’assenso del vecchio presidente, dopo aver riportato un grande successo elettorale: la gente, la Germania "sapeva" o almeno era perfettamente in grado di sapere chi stava eleggendo e quali erano i suoi programmi, quali i suoi giudizi sugli ebrei, sulla guerra, e il ruolo strumentale delle sue programmate doppiezze e della propaganda. Non c’è nulla di surrettizio nel nazismo. Non è un inganno perpetrato ai danni degli elettori. E’ stato discusso e si discuterà ancora sul rapporto tra il consenso esplicito e volontario di un elettorato – o almeno di una massa molto grande di cittadini – e la superficialità, l’illusione, la prevalenza di un sentimento legittimo che oscura una visione chiara e razionale, i limiti dell’informazione e delle "opinioni" in un sistema democratico e parlamentare, e il peso che correnti sotterranee di pensiero e sopravvivenze antropologiche possono avere in un gioco democratico che si fonda invece su principi liberali che prevedono una società di uomini liberi e ragionevolmente limpidi, almeno sotto il profilo civile. Tuttavia il nazismo e la sua storia rappresenta un caso di studio politico e culturale simile a ciò che è una grande cava a cielo aperto per un geologo. L’ascesa del nazismo non è la storia di una dittatura, ma di una fase o di una dimensione della democrazia – sia pure rapportata al tempo e al luogo. Una normalità, dicevamo, che dunque non è – non può essere – soltanto normalità statistica e sociologica, ma che nasce innanzi tutto da antefatti culturali, ossia dal fatto stesso che certe idee, certi processi mentali e verbali "possono" verificarsi e in un certo senso "sono destinati" a verificarsi. Hitler non fa che raccogliere e dare la forza di partito a una malevolenza e una "cultura" che pre-esistono a lui, e che altre istituzioni e altri statisti, intellettuali, maestri e borgomastri hanno praticato, avallato, insegnato. Il suo insistere con "il marxismo", in qualità di Nemico Assoluto della nazione, eredita la paranoia politica dell’ancien regime, delle oligarchie ottocentesche e l’avversione delle plebi borboniche (o prussiane) per i nemici di allora, ossia il liberalismo e il socialismo romantico. Nessuno in questi casi ha parlato di "pazzie". Dell’antisemitismo è perfino inutile trattare, tanto sono noti gli antefatti che hanno coinvolto le corti, le cancellerie, le sagrestie e i villaggi di mezz’Europa. Nessuno di questi casi viene additato come "pazzia". L’Olocausto avviene già qui, in queste pagine del Mein Kampf e nel consenso o nella "distrazione" di tanti cittadini verso il NSDAP, e sarebbe un Olocausto terribile anche se non ci fossero stati Varsavia e Mauthausen, e la notte dei cristalli, perché non è la paranoia di un piccolo caporale austriaco o di un dittatore che si esprime, ma è il condensato di un intero filone di storia, di un intero modo di pensare. Con il crollo della Germania si è pensato che la xenofobia, il razzismo, l’antisemitismo fossero sepolti insieme con la "follia" nazista – o meglio, a molti è piaciuto pensare che così fosse e soprattutto lasciare che l’opinione comune dell’occidente democratico lo pensasse. Ma la normalità, l’agghiacciante familiarità e riconoscibilità di quelle parole, le singole normali parole – se fossero conosciute, lette, studiate, al posto dell’horror gotico – farebbe capire a molta gente che certe idee e certe "follie" (e i loro camuffamenti, le loro giustificazioni) sono state fra noi e sono fra noi oggi: nei parlamenti, nei governi, nei telegiornali, nei discorsi al bar o in ufficio, allo stadio, sulle portarei, al supermercato, tra la letizia e la pigra quotidianità di tutto ciò che è "normale". Se, oltre a "sapere", potessimo "conoscere", forse ci accorgeremmo che ci sono forze politiche che in questi ultimi anni hanno usato il Mein Kampf esattamente come un manuale, per dire e fare ciò che lì viene suggerito, per organizzare il partito e per radicarsi nella società sfruttando esattamente quei meccanismi così chiaramente descritti. Forse ci accorgeremmo, diciamo così per semplice "evidenza visiva", che c’è qualche Kampf dalle somiglianze e dalle assonanze inquietanti, che trova sostegno e applausi anch’essi assonanti e inquietanti. Eppure così "normali". Non possiamo leggere i giornali dell’epoca, e non possiamo parlare con i frequentatori dei cabaret e delle birrerie, delle fabbriche, delle botteghe e delle campagne di Weimar - ormai sono andati e noi siamo qui. Leggiamo ciò che possiamo, e soprattutto ciò che conosciamo troppo poco in relazione al ruolo che ha avuto e a ciò che ci può raccontare. Anna Frank ci racconta del nazismo. Questa bambina e gli ebrei in fila davanti alle "docce" di Mauthausen avevano il diritto di sentirsi nelle grinfie della pazzia, perché questa è la normalità vista dalla parte delle vittime. Il Mein Kampf ci racconta di noi. Non di "loro", ma di noi e della nostra "normalità". Anche certe bolle papali e certi ghetti ben organizzati ci raccontano di una certa normalità. Che cosa andiamo a dire alle piccole Anna Frank che muoiono sotto i bombardamenti, o nelle pulizie etniche in Kosovo, nel Tibet, in Cecenia, o di aids in Nigeria, o di fame in Sudan e Mozambico? E che raccontiamo alla piccola Anna Frank, figlia di un barista israeliano massacrato da un kamikaze palestinese, o alla figlia del kamikaze palestinese, o alla piccola Anna Frank, figlia di un marocchino ammazzato a bastonate in un parco di Milano da quattro vigilantes? Che sono vittime di una pazzia? O che questa è la normalità del mondo, la "nostra normalità"? Piero Di Marco |
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