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Una sonata in re minore per i silenzi del Nutini di Raffaele Iosa Come ci insegna il mitico Benigni nella “Vita è bella”, rispondendo all’allucinato medico tedesco attratto dagli indovinelli: “Se fai il mio nome, non ci sono più”. Così Massimo Nutini rompe il silenzio, anzi tre minuti di silenzio, nel suo recente articolo sul Decreto per la Legge 53 dal punto di vista dell’ANCI, rivelando alcune amnesie sulla scuola che toccano tutti. Per questo, una breve sonata (in re minore) Nutini se la merita, se non altro per il coraggio avuto, rompendo il silenzio, di rischiare alcune impopolarità. Del primo silenzio, sul tempo dei bambini, ho già scritto pensieri nel mio precedente articolino. Dov’è il centro dell’attuale discussione sul tempo? Solo sullo scolasticismo e la sua modellistica organizzativa? Oppure sulla qualità non del tempo scuola da sé solo, ma di tutta invece la condizione dei nostri attuali bambini con il loro convulso e adultistico tempo complessivo di vita? Interessano a qualcuno i fine settimana passati nei centri commerciali? Non ci dovrebbero anche interessare le fiabe, i pianti, le ginocchia sbucciate, le piazze-parcheggio sottratte ai giochi, le equivalenze sempre difficili, i quadernoni diventati contenitori di schede fotocopiate? Su Repubblica del 12 febbraio, anche Pietro Citati canta per i bambini un tempo più loro, con l’elogio del tempo vuoto e l’amara constatazione che per molti adulti i bambini sono noiosissimi. Grande verità. Per questo li si imbottiscono di tempi frenetici e controllati. Soprattutto per evitare il pericolo che i bambini pensino da soli. E vogliano parlare troppo con noi. Piacerebbe qui un sussulto di colpevolizzazione della nostra nevrosi adulta, utile per lasciare ai bambini respiro, lentezza, sogno, pazienza. Tempo slow, dicevo.
Aggiungo solo un rigo, di banale cronaca, sulle cosiddette tre ore opzionali. Che saranno mai tre ore su 27 o su 40? Eppure le scuole sembrano imbarazzate perchè di questa opzionalità non sentono vera domanda sociale. C’è oggi, al suo posto, una vastissima gamma di risposte opzionali calde, che nascono in forma diversa da una fredda croce messa a gennaio in un modulo di iscrizione. La scuola elementare pullula di calembour didattici in cui non c’è la lezione ex cathedra. Può essere una gita fuori porta, o una ricerca sulle immondizie, o quel carnevale patetico che raccontavo nel precedente articoletto. Questo “tempo bizzarro” e opzionale non nasce da un modulino. Nasce, invece, da una fittissima contrattazione quotidiana tra genitori, bambini, insegnanti, assessori, nonne vogliose di raccontare la loro infanzia, amici appena tornati da un safari. Il Regolamento dell’autonomia ha esploso queste opzionalità partecipate, a volte eccessive e non sempre belle, al punto che (in tempi ormai remoti) Luigi Berlinguer temeva l’effetto “Club Mediterranèe”. Ma si tratta di attività nate secondo il tempo (non “a tempo”), che determinano una dinamica “opzionale” calda e vissuta tra diverse classi e diversi bambini. La sonata in re minore merita qui uno stacco. Gli impliciti sono evidenti: si rischia di inaridire l’evento educativo nato dal basso e dalla comunità, sostituito in parte da un neo tempo deciso in partenza e da soli. Speriamo almeno che la pratica didattica ammorbidisca questo tempo freddo e separato con la magia dei momenti educativi flessibili, creativi, e soprattutto imprevedibili. Qualche notte fa, sono andato al circo, con un tendone un po’ scalcagnato, assieme ai miei bambini bielorussi che ho a Ravenna in questi giorni felici. Come sempre i clown ci hanno insegnato molto. Il loro farci sorridere è nato dall’imprevisto, dal non atteso, dall’illogico. Quando siamo usciti, la splendida e fredda notte stellata ha affascinato i bambini e siamo stati un po’ là a cercare disegni tra le stelle. Merito della scuola o dei clown? E se c’erano nuvole?
Il secondo silenzio di Nutini è meno romantico. Il rapporto tra dirigenti scolastici e insegnanti, e degli insegnanti tra loro è ormai una leggenda metropolitana. Tocca il core knowledge della scuola in modo anche un po’ patetico. Grottesca la sua descrizione di come si deciderà il tutor. Facile parlare male dei dirigenti ormai quasi sergenti, assediati da burocrati che li considerano "cosa loro" e non della scuola. Facile parlar male dei docenti che lavorano poco, sono un clan, pensano per sé. Tutto vero e tutto falso, naturalmente. Ma forse dopo dieci anni di ingegneria e managerialità, dopo tante figure e figurine, forse una nota stonata ci voleva. La nota suona così: è il pensiero educativo che lega dirigenti e insegnanti, non l’organizzativo. Se l’educativo c’è, anche se dialettico e confuso, sarà semplicemente una scuola che funziona. Se non c’è pensare e parlare educativi, il dirigente scolastico è solo un noioso orpello. E’ l’idea di comunità di umani, bastardi quanto si vuole ma umani, alla ricerca di senso educativo, l’anima di una buona organizzazione scolastica. Sto riflettendo da tempo sul fatto che l’egualitarismo, a dismisura da tempo considerato un danno, non può nascondere solo una difesa corporativa di gentaccia supergarantita. Rivela anche una trama profonda, che ha una sua dimensione positiva. E’ una trama intessuta di comico e tragico: essere tutti, bene o male, dentro la stessa barca chiamata scuola, nella quale contano più i dolori e i piaceri comuni che i piccoli poteri che dividono. Sto riflettendo su un nuovo egualitarismo educativo; sto cercando la colla che unisce, non le forbici che dividono. Ammetto che sarebbe bene licenziare qualcuno, ma smettiamola con i pre-giudizi sugli insegnanti; si sviluppi invece di più il sogno professionale alzandolo più in alto possibile. Per farlo si deve riconoscerli come persone serie, creative, capaci di fare il bene del bambino, non solo a litigare sul giorno libero. Il Regolamento autonomia questo voleva fare: partire dall’ottimismo della fiducia. I vari tentativi di diversificazione di questi ultimi anni, d’altra parte, non hanno aumentato la qualità degli insegnanti. Paradossalmente allontanano il fine che gli amanti della diversificazione desiderano, magari in buona fede: i docenti non migliorano, si incattiviscono, insegnano peggio. Questa sonata in re minore pensa al “re” come repubblica. Ripensare alla scuola come territorio comune di professionalità, di etiche, di valori, non è romanticismo. E’ la scuola.
Il terzo silenzio del Nutini è, invece, l’oggetto più delicato. La sentenza della Corte Costituzionale che affida alle regioni la gestione degli organici applica la nuova Costituzione votata nel 2001. A quei tempi, alcuni governatori regionali già volevano gestire in proprio gli insegnanti. Non c’è nulla di nuovo nella futura devolution. Eppure c’è per ora silenzio. Ha ragione Nutini a sostenere che la sentenza va oltre il dispositivo tecnico, perchè pizzica le corde di parole ormai consumate dal logorio su federalismo sì/no/come/quando/perché. Ha ancora ragione Nutini, infatti, a sostenere che la chiave non è la disarticolazione dello Stato sulle diverse competenze, ma più sottilmente il rapporto profondo e quotidiano tra poteri e cittadini. Nel dibattito degli anni scorsi sull’autonomia scolastica, solo pochi erano consapevoli che questa non poteva ridursi ad un artificio organizzativo qualsiasi, né ad una delega in bianco alle diverse anarchie delle corporazioni scolastiche. Era ben altro. Partiva da un’idea mite del rapporto tra servizi pubblici e cittadini, pensava alla possibilità che i primi fossero più efficienti e qualitativi se le decisioni vere venivano prese il più possibile vicino ai secondi. L’obiettivo non era tanto di una qualche architettura che spostava poteri dallo Stato alle regioni, dalle regioni alle province, dalle province ai comuni, dai comuni ai consigli di circoscrizione. No, la sfida, nata dalla crisi (molto italiana) del rapporto tra “cosa pubblica” e cittadino era quella di creare fiducia tra i due con una diversa modalità del decidere. Decidere vicino ai cittadini, decidere con loro, rendere possibile il controllo sociale e la partecipazione ai servizi. Insomma, vera sussidiarietà orizzontale. Si sognava un paese capace di uscire dal familismo, dall’elefentiasi delle burocrazie, dalle lentezze del potere, dai garantismi garantiti dall’alto, dai servizi pubblici che si concedono come “piaceri”. Come per i comuni oggi (a sentire Nutini), ieri anche per le scuole erano molte le cassandre che lamentavano grandi rischi nel dare loro l’autonomia perché immature. Eravamo in pochi a dire che il miracolo sarebbe arrivato se le lasciavamo fare. La sfida che circonda la sentenza è storica, non di cronaca, vale di più dell’angusta discussione se i posti di sostegno in deroga li decideranno l’assessore regionale o il burocrate ministeriale. Sembrano invece incerte le prime reazioni, anche di chi condivide il ricorso. Si dice di non volere strappi, di voler mantenere “nazionale” la scuola. Come se il problema fosse, ancora una volta, di difendere la scuola statalista e non invece di costruire dal basso “la scuola pubblica di tutti”. Originale, nel Nutini, la citazione della rousseiana democrazia diretta come idea federale normale. Per me democrazia diretta è la disabile Antonella che non trova parcheggio davanti alla scuola, Thomas che è un po’ dislessico e la maestra crede sia pigro, Mattia che porta i game boy in classe. Ma anche l’autistica Marina che è accarezzata dai compagni, i bambini che vanno dai vecchi dell’ospizio, una ricerca archeologica su cosa c’è sottoterra, un problema di matematica divertente perché difficile, una festa simpatica senza bambine veline o maschietti atletici. Una scuola che ha le fioriere all’entrata, che ha le pareti giallo limone e verde pisello. Un computer accesso, ma in un angolo, da usare in giuste dosi, altrimenti si impara in modo onanistico. Cosa c’entra tutto questo con i palazzi romani o quelli regionali? C’è una scuola che assomiglia a quell’Italia che De Rita descrive benissimo nel rapporto Censis dell’anno scorso, quella di Bevagna e di Montefalco. Orizzontale ed umana. Per questo non è eretico, ma stimolante, pensare che i comuni italiani possano diventare nuovi soggetti delle scuole. Come le scuole autonome nuovi enti locali del territorio. Questa sonata ritorna sempre al re minore della parola guida di queste poche note: “comunità”. E che altro ci resta davanti alla surmodernità? Stare un po’ più insieme coi vicini di casa e di strada. Perché lì, soprattutto da lì, è possibile ri-creare un po’ di buono.
Ho portato i miei bambini bielorussi a Venezia, assieme ad una classe di coetanei italiani. Intercultura in corriera e in vaporetto. Magico obiettivo: vedere Venezia con gli occhi dei bambini, da ex bambino veneziano. Tutto perfetto: il traghetto in gondola, le calli, i campi, i gatti, le fritole, le maschere. Il mio lagunare amico Alvise, maestro caro dei nostri anni giovani, apriva la fila chiacchierando amabilmente con due bimbetti che lo tenevano per mano. Chi faceva strada? Inorriditi, abbiamo detto no ad un giovane, con la telecamera, che voleva riprendere i bambini facendoli gridare “Italia Uno”. Vicino ad una vera da pozzo! Stramberia o moderna normalità? Tutto bene fino in piazza San Marco, dove il mio ego adulto ha sbagliato. Lo stupore dei bambini non era per la Basilica, ma per i colombi e per quei sacchettini di mais che si erano portati da casa. Ho cercato (solo per un attimo però) di fermarli per guardare prima i mosaici e il campanile, con quella presunzione adulta che spesso ci pervade (anche se amiamo i bambini) quando, per troppo intellettualismo, consideriamo “turistico” tutto quello che noi abbiamo già fatto e visto. Fortunatamente i bambini sono scappati di mano agli adulti. E, miracolosamente, sono passati venti minuti di perfetta beatitudine: con i colombi in testa, nelle mani, insieme in una danza di gesti antichi e suoni leggeri. Non c’erano che loro e i colombi. Piazza San Marco semplice cornice. Commosso, mi sono ricordato di Umberto Saba, e della sua poesia dedicata alla figlia: “Ed io pensavo: di tante parvenze che s’ammirano al mondo, io ben so a quali posso la mia bambina assomigliare. Certo alla schiuma, alla marina schiuma che sull’onde biancheggia, a quella scia ch’esce azzurra dai tetti e il vento sperde; anche alle nubi, insensibili nubi che si fanno e disfanno in chiaro cielo; ed altre cose leggere e vaganti” Io non amo il bambinismo, né mi piace il naturalismo fanciullesco. Credo che diventare adulto sia una bella e difficile impresa, e che l’educazione sia una sfida forte e dura per entrare nel mondo. Ma che altro dire dopo questi versi? Non stiamo facendo scomparire i bambini reali in una melassa di adultismo insopportabile ed esagerato? Se li vogliamo adulti saggi e felici, dobbiamo forse dar loro un’infanzia più realisticamente saggia e felice con tempi, modi, stili decisamente diversi dalla frenesia dell’attuale surmodernità. Lasciare ai bambini respiro, lentezza, sogno. Per rompere i nostri assordanti silenzi adulti, basterebbe ascoltare un po’ di più i bambini. |
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