Prima Pagina
Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
Direttore responsabile: Dario Cillo

Ricerca

 

Il Volontariato ai tavoli di concertazione: Istruzione per l'uso

Studi Zancan

Politiche e servizi alle persone

di Alessandro Castegnaro

 

Robin Hood e lo sceriffo di Nottingham

 

Possiamo immaginare due modi molto diversi, ma ugualmente sbagliati, di concepire il rapporto volontariato-istituzioni.

Il primo è quello di chi ama stare lontano dalle istituzioni e punzecchiarle dall'esterno, evitando di farsi coinvolgere. Lo sceriffo di Nottingham fa le sue nefandezze - tassa rovinosamente i poveracci, li deruba, non li protegge dalle disgrazie della vita - e Robin Hood lo punzecchia con le sue frecce, segretamente contento di essersi ritagliato questo ruolo. Lo sceriffo di Nottingham del resto, per definizione, non fa che corbellerie e a ogni nuova nefandezza Robin Hood gode segretamente dentro di sé perché sarà l'occasione per scoccare nuove frecce, sempre più avvelenate. Robin Hood, infatti, non si sente responsabile.

Il secondo è quello di chi lungi dal contrapporsi alle istituzioni, lascia fare. Suo compito non è certo quello di criticare, ma di occuparsi dei bisogni della gente. <<Poche polemiche e rimbocchiamoci le maniche>>. Lo sceriffo di Nottingham continua con le sue nefandezze, e Robin Hood, deposte le frecce, corre in giro per la foresta di Nottingham a curare le ferite.

 

Non è mio compito occuparmi di ciò che lo sceriffo fa, mio compito è <<aiutare il prossimo>>. Tanto più che molte delle ferite che il prossimo manifesta, a ben guardare, non dipendono nemmeno dalle nefandezze compiute dallo sceriffo, ma da altre cause che possono colpire, più o meno casualmente, tutti: l'incidente, la malattia, l'handicap, il disagio personale.

 

Quando lo sceriffo di Nottingham, in seguito a una improvvisa conversione, reso finalmente consapevole delle ingiustizie compiute, come Budda colpito dalle dimensioni del dolore umano, apre le porte del castello e chiama Robin Hood a discutere intorno ad un tavolo come si possono affrontare insieme i mali del mondo:

 

il primo tipo di volontariato correrà il rischio di continuare a starsene fuori in attesa che lo sceriffo <<rinsavisca>>, ritorni ai suoi antichi usi e consenta di riprendere lo sport preferito, il tiro con l'arco;

il secondo tipo di volontariato dirà che non ha tempo da perdere in vane discussioni perché i suoi bisogni sono molti e c'è tanto da fare. Ben venga la conversione dello sceriffo. Potremo finalmente dedicarci, senza più essere disturbati, all'unica cosa che ci interessa: aiutare il prossimo, possibilmente senza pensare troppo; perché se aiutare il prossimo, costa fatica, pensare è ancora più faticoso. Del resto noi siamo <<buona gente>> e non siamo molto capaci di occuparci di cose troppo complicate.

 

Si possono poi immaginare altre due possibilità, forse più realistiche.

La prima possibilità è quella che si determina nel caso in cui la conversione dello sceriffo non sia stata completa. Egli si è accorto che, effettivamente, i dolori del genere umano sono grandi ed estesi, ma pensa che molti mali la gente se li cerca per colpa sua, e vuol metterci il meno possibile del suo per stanarli: egli ha aperto le porte del castello, perché non ce la fa ad affrontare tutti i bisogni sociali e ha bisogno di aiuti a poco prezzo. Il primo tipo di volontariato, dopo un attimo di incertezza, ne sarà felice perché potrà continuare nel suo sport preferito. Sapete già quale esso sia.

Il secondo compiangerà lo sceriffo e tamponerà le falle con il suo lavoro <<socialmente utile>>, trasformandosi in un <<portatore d'acqua>> a sostegno di chi non vuole assumersi le responsabilità che gli gravano addosso.

 

La seconda possibilità suppone invece che la conversione dello sceriffo sia stata effettivamente completa, che il volontariato collaborativo entri di buon grado nel castello, felice di poter partecipare ai tavoli, ma che vi entri con le brache in mano, senza aver riflettuto, senza sapere esattamente cosa dire, oppure in ordine sparso, in competizione con se stesso, con le idee troppo diverse al proprio interno.

Il suo apporto non servirà molto allo sceriffo, il quale si troverà a decidere sostanzialmente da solo e subirà tutte le <<tentazioni>> del caso. Qualche volontario, dal canto suo, si sentirà blandito dall'idea di potersi sedere al tavolo dove si decide, anche se la sua presenza non incide. Le frecce ammuffiranno inesorabilmente nella faretra, diventeranno sempre meno acuminate, e il volontariato perderà quel suo ruolo critico, di stimolo e di denuncia, che prima svolgeva.

 

La morale della favola è abbastanza evidente ed è duplice.

Quando le porte del castello si aprono non si può restare fuori: si perde un'occasione per influire su scelte importanti, di affrontare finalmente i bisogni al livello in cui devono essere affrontati e si corre il rischio che lo sceriffo ritorni ai suoi antichi costumi.

 

Quando si accede al castello non solo si deve entrare sapendo cosa si va a fare e attrezzandosi di conseguenza, ma bisogna tenere gli occhi ben aperti, evitare il rischio di sentirsi troppo blanditi dalla posizione conseguita, e anche adottare un modo diverso di lavorare, che coinvolga tutto il mondo del volontariato e non solo i membri più influenti.

 

Un Welfare in profonda trasformazione

 

L'idea che sia sbagliato stare alle porte è motivata anche dal fatto che siamo, da tempo ormai, entrati in una fase di profonda trasformazione dello stato sociale.

Tutti i paesi europei stanno vivendo un periodo di gravi difficoltà dei loro sistemi di protezione sociale; difficoltà che sono causate da fenomeni di grande portata: l'invecchiamento della popolazione, le modificazioni nei modi di produzione (l'eclissi del fordismo), le trasformazioni della famiglia e nei rapporti tra i generi, la crescita rallentata dell'economi, la perdita di centralità dello stato nazione (globalizzazione e integrazione europea da un lato, spinte autonomistiche e localistiche dall'altro).

Oltre a ciò lo stato sociale viene messo in discussione più dall'interno. Si assiste cioè a una sua crescente crisi di legittimazione, perché appare troppo costoso (basti pensare al dissesto finanziario dei sistemi previdenziali); perché la logica prevalente nelle politiche sociali è ancora molto risarcitoria e poco promozionale; perché in campo sanitario continua a prevalere l'assistenza ospedaliera <<pesante>>, di tipo più curativo che preventivo, un tipo di assistenza che appare non in grado di affrontare adeguatamente i problemi posti dalla cronicità, perché vi è uno scarto crescente tra i bisogni associati a rischi non tradizionali e non protetti, uno scarto che è anche tra gruppi sovraprotetti e gruppi esclusi.

Ma lo stato sociale è messo in discussione anche perché - è doveroso dirlo oggi come mai la <<ricchezza>> rialza la testa e può permettersi di ritornare a incolpare la <<povertà>> del suo essere tale. Da parecchio tempo cioè operano concezioni, interpretazioni, ideologie che rifiutano di vedere la povertà come un prodotto sociale, che attribuiscono a fattori meramente personali le origini dell'emarginazione, che negano l'esistenza di tendenze strutturali a emarginare, con ciò assolvendo pregiudizialmente la comunità dalle sue responsabilità.

 

Un riordino a spesa invariata

 

Dobbiamo essere perciò consapevoli che i tavoli di concertazione cui anche il volontariato è chiamato si aprono in un contesto che, per motivi diversi, è di ristrutturazione della protezione sociale e che tale <<riordino>> avverrà a spesa che, nella migliore delle ipotesi, rimarrà invariata. Vi dovranno essere perciò scelte di tipo esplicitamente redistributivo (tolgo ad A per dare a B) oppure di tipo sottrattivo (tolgo ad A per il bene collettivo) (Ferrera M., 1999). E queste ovviamente suscitano reazioni pesanti. La più evidente oggi forse è quella in base a cui ogni area territoriale tende a pensare solo a se stessa, soprattutto se può permettersi di farlo perché ne ha i mezzi.

C'è da aggiungere che il welfare italiano si è consolidato molto tempo dopo quello di altri paesi europei.

Lo stato sociale comincia in Europa a dare segni di crisi nella seconda metà dgli anni Settanta (dopo il primo shock petrolifero), mentre il primo assetto di tipo universalistico viene impostato in Italia con la <<riforma sanitaria>>del 1978 (costituzione del Servizio Sanitario Nazionale). Lo stato sociale fa, almeno sulla carta, il suo ingresso in forma compiuta nel settore dell'assistenza solamente nel 2000, con la legge quadro (legge 328/2000) che <<sostituisce>> la legge Crispi (17 luglio 1890), quando ormai da tempo i vincoli di convergenza europea e la necessità di contenere il debito pubblico accumulato hanno drasticamente tagliato le risorse disponibili.

 

Il welfare italiano e il suo bisogno di una riforma più profonda

 

Oltre a ciò il sistema di protezione italiano presenta alcune peculiarità che inducono a pensare da una parte a una esigenza di riforma che agisca sempre più in profondità, e dall'altra all'esistenza di bisogni che sono stati troppo a lungo trascurati.

La spesa totale, contrariamente a quanti molti credono, non è molto alta; anzi è inferiore alla media UE (nel 2000 rappresenta il 24,9% del Pil contro il 27,1% della media europea). Ma l'incidenza della spesa previdenziale è senza confronti con qualsiasi altro paese europeo (71,4% della spesa totale contro il 53,5 della media UE). Mentre le quote di spesa rivolte a tutelare la disoccupazione e le famiglie sono incurabilmente più basse (disoccupazione 1,9 contro 7,6 medio; famiglie 3,5 contro 8,4) (rapporto Istat 2000, elaborazioni su dati Eurostat).

La spesa sanitaria complessiva pro-capite, dal canto suo, non è in Italia né alta, né bassa. Appare piuttosto perfettamente in linea con il livello di reddito. Ma la spesa privata è passata in 18 anni dal 19,5 al 32% (dal 1980 al 1998) (fonte Ocse, Health Data, luglio 2000).

Quasi una lira ogni tre, pardon, quasi un euro ogni tre, esce direttamente dalle tasche dei cittadini, dato che nel nostro paese non c'è un sistema sviluppato di assicurazioni private.

 

La particolare situazione delle famiglie con figli minori in Italia

 

A ciò si possono aggiungere, perché meno spesso rilevate, due altre osservazioni viste da un angolo visuale particolare, quello delle famiglie con figli minori (cfr. tabella 1).

Il nostro paese è quello in cui il reddito familiare dipende maggiormente dall'impegno lavorativo delle famiglie. La differenza con la Svezia è di quasi 27 punti percentuali. Le entrate derivanti da sicurezza sociale sono le più basse in assoluto, circa 175 di una famiglia svedese. Al loro interno più di due terzi sono derivanti da pensioni.

Questo spiega sufficientemente perché in Italia il tasso di povertà familiare cresce al crescere del numero dei figli (dal 10% delle famiglie con un solo figlio minore al 27% delle famiglie con tre o più figli minori) e perché ad essere poveri siano più spesso i minori.

Queste rapide annotazioni sul welfare italiano suggeriscono che, con ogni probabilità, la concertazione nei tavoli locali avverrà all'interno di un quadro generale in forte movimento. L'esigenza di por mano al welfare era stata del resto sottolineata con forza dalla Commissione Onofri, al tempo della presidenza Prodi.

 

Tab. 1 - Formazione del reddito disponibile per le famiglie con minori

 

Paese

Da lavoro

Da capitale

Da sicurezza sociale

Di cui da pensioni pubbliche*

Da pensioni

private

Altri redditi

Svezia

61,8

3,3

32,1

3,5

0,5

2,3

Norvegia

77.6

4,6

15,6

13,8

0,3

1,9

Finlandia

69,0

4,0

24,1

5,0

1,3

1,6

Germania

85,3

3,1

10,6

12,2

0

1,0

Belgio

76,5

5,2

17,5

8,2

0

0,8

Francia

80,1

3,3

15,7

9,3

0

0,9

Italia

88,5

3,8

6,6

71,5

0,1

1,0

Olanda

78,1

2,2

18,2

4,7

0,2

1,3

Regno U.

77,3

2,3

17,7

2,9

0,8

1,9

 

*Sono compresi: indennità di malattia, invalidità, pensioni, assegni al nucleo familiare, disoccupazione, maternità e altri benefici.

Fonte Isae su dati Lis

 

Esse permettono inoltre di rilevare che un cambiamento è da tempo auspicabile e necessario, nei limiti in cui vi sono bisogni scoperti che vanno tutelati, e infine, ma fondamentale da comprendere per il volontariato, che ben difficilmente si riuscirà a rispondere positivamente ai bisogni della popolazione - e soprattutto a quelli dei soggetti più deboli - semplicemente <<rimboccandosi le maniche e dandosi da fare>>. Questo <<al netto>> di quanto la nuova maggioranza parlamentare deciderà.

 

Il nuovo contesto istituzionale

 

Il quadro è in movimento anche a seguito di una serie di provvedimenti legislativi di grande rilievo che modificano la distribuzione dei poteri e configurano un diverso ruolo del settore pubblico, oltre che prevedere nuovi spazi - decisamente di maggiore responsabilità - per il volontariato e per il terzo sistema nel suo insieme. La riforma del Titolo V della Costituzione introdurrà ulteriori elementi di forte innovazione.

I provvedimenti si riferiscono a:

la riforma Bassanini (legge 59/97 e d.lgs n.112/98), cui vanno aggiunti quelli che saranno gli effetti della norma di riforma costituzionale sul federalismo approvata con referendum dall'elettorato e le future, ancora incerte devolution;

la legge di modifica (legge 265/99) dell'ordinamento delle autonomie locali (legge 142/90);

la riforma ter della sanità (d.lgs n. 229/99);

la legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali (legge 328/2000);

 

I punti rilevanti in sintesi

 

Una analisi di questi singoli provvedimenti sarebbe ovviamente troppo lunga.

Sottolineo i punti che mi paiono centrali per il nostro tema:

il ruolo centrale assegnato ai comuni nel campo delle politiche sociali;

l'attuazione del principio di sissidiarietà nelle sue due versioni, verticale e orizzontale, con tutte le potenzialità ma anche con i rischi che esso comporta;

la distinzione tra livelli essenziali e uniformi di protezione sociale-sanitaria e livelli ulteriori (o integrativi) di protezione da finanziare per altra via;

il concetto di sistema integrato e servizi sociali;

la nuova configurazione e la crescente importanza dei piani di zona all'interno di un sistema che si avvia ad essere di welfare municipale o comunitario;

il nuovo ruolo assegnato al volontariato e al terzo settore nel suo insieme.

Vediamo di delineare un quadro di sintesi di tutto ciò che questo comporta.

 

La centralità del comune

 

L'applicazione del principio di sussidiarietà in senso verticale ha condotto a privilegiare i livelli dell'amministrazione pubblica più vicini al territorio e più vicini ai cittadini nella gestione delle politiche sociali, in base alla regola spetta al comune tutto quanto non è espressamente riservato alla regione e allo stato.

E' il singolo comune il nuovo protagonista? No, sono i comuni associati in ambiti territoriali, che consentano politiche efficaci, basate su economie di scala adeguate, ma anche sull'esistenza di una comunità connotata in modo unitario (o relativamente tale) per ragioni storiche, economiche, culturali, sociali. Di norma ciò avviene a livello, distrettuale.

 

<<Pensare>> il sistema locale dei servizi

 

Compito primario dei comuni è programmare, progettare, realizzare il sistema (integrato) locale dei servizi sociali. Prima di tutto, dunque, pensare, immaginare un complesso logico di risorse, di attori, di prestazioni, di servizi e di modalità regolative. Poi programmarne la realizzazione, definirne le modalità di funzionamento, individuare i soggetti erogatori e la parte giocata direttamente dall'Ente locale nell'erogazione; verificare le condizioni perché altri soggetti possano diventare soggetti erogatori (autorizzazione e accreditamento), vigilare infine sul funzionamento del sistema, sulla qualità delle prestazioni offerte, sul grado di accessibilità e di equità negli accessi, in particolare dei soggetti più deboli.

 

Gli aspetti da definire

 

Cerchiamo di capire meglio di che cosa si tratti. Il sistema locale non è semplicemente una somma di servizi e di prestazioni, ma un sistema, un complesso organico, un piano regolatore dei servizi se è detto anche (Vecchiato T., 2000) che dovrà prevedere le condizioni di accesso (chi?), i criteri in base a cui individuare le priorità nell'accesso (chi per primo?), dei punti chiaramente delineati attraverso cui dovrà avvenire l'accesso in caso di bisogno (dove?), un sistema di offerta (servizi+interventi) reso noto a tutti i cittadini, i quali devono essere messi in condizioni di sapere che cosa si possono aspettare, a titolo gratuito o eventualmente con la loro compartecipazione (quando, cosa e con quale apporto monetario?).

In questo senso è la realizzazione del sistema locale dei servizi che definisce in concreto l'esigibilità dei diritti, che da <<la repubblica assicura alle persone e alle famiglie>>, ed è in questo senso che esso si configura come la base di quella che possiamo chiamare la <<cittadinanza sociale>>.

Quali sono i contenuti del sistema? I contenuti del sistema si dispongono a due livelli, il primo dei quali necessario, il secondo opzionale, ma non per questo poco importante.

Il primo livello è formato dai livelli essenziali e uniformi di protezione sociale assicurati ai cittadini. In regime di risorse scarse è necessario distinguere quelli che vanno ritenuti come livelli non essenziali di assistenza da quelli che devono essere considerati come livelli essenziali, e che vanno individuati in base a criteri di (Foglietta. E altri 2001 - I livelli essenziali di assistenza in un sistema di welfare universalistico e solidaristico, in Studi Zancan, n.1):

 

efficacia, intesa come la capacità di conseguire un effettivo miglioramento dello stato di salute e di benessere dell'utente;

appropriatezza, intesa con il grado in cui un trattamento assistenziale risponde con piena efficacia e qualità, in condizioni di efficienza ottimali, ai bisogni espressi dalla persona;

essenzialità, intesa come il grado in cui i risultati di un trattamento assistenziale appropriato rispondono all'esigenza di massimizzare l'equità distributiva delle risorse tutelando le condizioni di bisogno più acute e/o socialmente rilevanti;

integrazione, intesa come il grado in cui i servizi e gli operatori appartenenti all'area sanitaria e sociale programmano unitariamente e realizzano in modo coordinato gli interventi che richiedono una pluralità di soggetti e di professionalità, permettendo per questa via di conseguire i risultati migliori, con il minimo dispendio di risorse e il minor disagio per la persona in stato di bisogno.

 

Le prestazioni non comprese nei livelli essenziali

 

I livelli essenziali vengono delineati a livello nazionale (in parte già dalla legge 328 nel caso del sociale, in parte attraverso i piani nazionali, sociali e sanitari), in modo da tendere all'uniformità su tutto il territorio nazionale, ma diventano reali, nel senso di concreti ed esigibili - torno a dire - a livello locale.

Il secondo livello è quello delle prestazioni non essenziali volte a soddisfare bisogni ulteriori oltre a quelli da considerarsi essenziali.

Non essenziali non vuol dire non necessari. Concretizzati i livelli essenziali, che cosa intende offrire una comunità ai suoi cittadini, ed eventualmente con quale loro apporto? Penso qui in particolare alla tutela delle condizioni di cronicità e non autosufficienza e alle necessità di assistenza derivanti che non sempre possono essere accollate alle famiglie.

Si tratta, di nuovo, di immaginare delle prestazioni, degli interventi, dei servizi che corrispondano a bisogni socialmente diffusi e profondamente sentiti dalla popolazione.

Non è detto che l'accesso a questo secondo livello debba necessariamente significare un impegno finanziario diretto a carico di ciascun singolo utente ogni-qualvolta egli si trovi ad avere bisogno di una prestazione peraltro non <<essenziale>>, ma per lui <<necessaria>> (Foglietta F. e altri, 2001).

 

I fondi integrativi

 

La riforma ter della sanità prima (art.9 d.lgs n.229/99) e la legge 328/2000 poi prevedono la possibilità di istituire fondi integrativi (accantonamenti di risorse in forma mutualistica) <<finalizzati a potenziare l'erogazione di trattamenti e di prestazioni non comprese nei livelli essenziali e uniformi di assistenza>>. La promozione di fondi mirati alla costruzione di varie forme di assistenza integrativa rappresenta la modalità attraverso la quale si possono accendere nuovi sistemi collettivi di finanziamento.

I soggetti che possono realizzare questi fondi sono diversi. Tra questi un ruolo fondamentale potrebbe/dovrebbe essere giocato dai comuni (ma anche dalle regioni e dalle province) promovendo e partecipando alla costruzione di fondi integrativi. Ciò consentirebbe di raggiungere un duplice risultato:

garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali che si collocano al di fuori delle prestazioni essenziali senza che il loro onere ricada sulle disponibilità dei singoli utenti;

mantenere attivi i servizi sociali e sanitari, già presenti sul territorio, posti (dalla normativa e dalla programmazione nazionale e regionale) al di fuori dei livelli essenziali, ma che i comuni ritengono di dover comunque rendere disponibili.

 

Gli strumenti programmatori con cui è possibile delineare il sistema integrato di assistenza sono il Piano di Zona (legge n.328/00) e il Piano delle attività territoriali (d.lgs n.229/99).

Il Piano di Zona finora, nelle regioni dove lo si è introdotto, è stato prevalentemente orientato a delineare le modalità dell'integrazione sociosanitaria e a definire alcuni progetti specifici da realizzare nel periodo di vigenza. Da ora in avanti esso dovrà essere lo strumento attraverso cui si delineano le caratteristiche di quello che possiamo chiamare welfare comunitario. La sua progettazione deve perciò diventare non un fatto burocratico, ma uno dei momenti forti della vita comunitaria, oggetto di comunicazione e di discussione pubblica, più che una questione tecnica da assegnare esclusivamente ai tecnici.

 

Gli attori

 

Inteso in questo senso il sistema locale di assistenza, delineato attraverso il Piano di Zona, ha bisogno di attivare tutte le risorse presenti in una comunità, di metterle in rete nello sforzo di soddisfare i bisogni che essa manifesta, ma nel contempo ha bisogno, per essere realizzato, che esso si fondi su una sorta di patto che assuma il senso di un vero e proprio <<patto sociale>>, e che perciò veda quanti più soggetti possibile coinvolti nella sua ideazione, programmazione, realizzazione e controllo.

In questa logica va inteso quanto previsto dalla legge 328 all'art. 1 (comma 4), dove si dice che gli enti locali, le regioni e lo stato riconoscono e agevolano il ruolo delle Onlus, della cooperazione sociale, dell'associazionismo prosociale, delle organizzazioni di volontariato ecc. nella programmazione, nell'organizzazione della gestione del sistema integrato di interventi e di servizi sociali, e (comma 5) dove si dice che alla gestione e all'offerta dei servizi provvedono soggetti pubblici, nonché in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, Onlus, organismi della cooperazione, volontariato associazioni, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati.

 

Un ruolo diverso dell'ente locale

 

Queste formulazioni da un lato individuano un ruolo partecipativo inteso in senso forte di tutti questi soggetti, dall'altro, unite a quanto previsto in materia di accreditamento e nella legge n.265/99 di riforma della n.142/90, dove si dice <<i comuni e le province svolgono le loro funzioni anche attraverso le attività che possono essere adeguatamente esercitate dall'autonoma iniziativa dei cittadini e delle loro formazioni sociali>> (art.2, comma 1), configurano un ruolo diverso dell'ente locale che possiamo delineare come segue (Meloni G. 2000, Il governo locale del welfare comunitario, in Studi Zancan, n. 1 Padova).

 

Un nuovo modello amministrativo

 

I comuni conservano, anzi assumono, un ruolo centrale nel campo del welfare locale. Si configura però un nuovo modello amministrativo: dalla gestione diretta e dall'esclusiva pubblica dei servizi a rete pubblico/privati (for profit o non profit che siano). In un sistema di protezione sociale che appare fortemente ancorato alla dimensione comunitaria, locale, dei bisogni, delle risorse e delle risposte, il comune appare dunque collocato al centro, come snodo tra bisogni e risposte, ma cede parte almeno della gestione diretta in favore di soggetti privati. E' l'applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale.

 

Apertura ai privati nell'esercizio di funzioni pubbliche

 

Non si tratta solo di affidamento a privati dell'erogazione, ma dell'apertura a privati nell'esercizio di funzioni pubbliche: non solo attività imprenditoriali a scopo di remunerazione, ma partecipazione alla programmazione e alla valutazione.

I comuni sviluppano compiti di governo del welfare comunitario più che esercitando un ruolo autoritativo (di government), secondo uno schema che prevede la supremazia sul pubblico nei confronti dei cittadini, sviluppando un ruolo regolativi nel quale l'autorità si esercita attraverso la programmazione e la progettazione concertata, e tale ruolo viene rafforzato dalla capacità di associare i soggetti sociali nella definizione delle politiche da realizzare (governance).

Si configura, in sostanza, il passaggio da un'amministrazione di attività a una di relazione, che si manifesta nella capacità di interagire, indirizzare, nel ricevere elementi conoscitivi e apporti decisionali, nel canalizzare risorse e per la vicinanza dei bisogni. Qui di nuovo c'è un ruolo fondamentale per il volontariato.

 

I rischi della sussidiarietà orizzontale

 

Tutto questo apre possibilità molto vaste alla società civile di nuovo protagonismo, e di fatto configura un rapporto maggiormente paritario tra ente pubblico e le espressioni della società civile. Queste ultime ben difficilmente potranno stare alla finestra. Se lo facessero rischierebbero di lasciare campo libero solo alle organizzazioni for profit.

Naturalmente nasconde dei rischi. Lasciando perdere in questa sede il rischio che la sussidiarietà (verticale9 conduca a un'eccessiva differenziazione territoriale dei sistemi di cittadinanza sociale, essi possono essere così riassunti (molte delle considerazioni che seguono sono ampiamente sviluppate in De Stefani P. e Piazza S. - 2000 -"I servizi alla persona davanti alla sfida della solidarietà", in Studi Zancan, n.2 Padova):

 

il rischio che soggetti privati della più varia natura operanti nel campo dei servizi privati si sentano legittimati a far considerare i propri interessi come interessi di natura pubblica, mentre al contrario essi possono essere nient'altro che interessi a massimizzare il proprio tornaconto;

il rischio che l'interesse preminente dei destinatari dei servizi alla persona passi in secondo piano rispetto ad altri interessi pur legittimi;

il rischio che un'eccessiva frantumazione di servizi alla persona che, essendo offerti da una molteplicità di soggetti, richiedono inevitabilmente uno sforzo maggiore per favorire l'integrazione degli interventi in modo che il sistema <<integrato>> sia veramente tale;

il rischio che non vengano esercitati adeguati controlli sulla qualità dei servizi resi, fatto che sarebbe particolarmente grave in quel genere di servizi che, per il loro elevato contenuto tecnico, non possono essere adeguatamente valutati dall'utente (qui c'è un campo fondamentale per il volontariato);

il rischio - ed è quello che più preoccupa - che un'evoluzione delle sensibilità politiche e culturali pregiudizialmente e ideologicamente contrarie al ruolo del settore pubblico e altrettanto pregiudizialmente favorevoli al privato trasformino in buona sostanza il sistema dei servizi in un mercato dei servizi, cosa che renderebbe ben arduo parlare ancora di cittadinanza sociale, e anche ben difficile il perseguimento di obiettivi di equità sociale e di tutela dei soggetti deboli.

 

La natura sociale del bisogno

 

A quest'ultima possibilità si può obiettare, sul piano si può obiettare, sul piano teorico, che i servizi sociali corrispondono a un modello sostanzialmente diverso dal modello puramente imprenditoriale privatistico, proprio per il ruolo decisivo degli interventi operati dall'ente pubblico al fine di creare diritti sociali e di rappresentare interessi collettivi, dando così la possibilità al bene comune di affermarsi. Questo ruolo dell'ente pubblico si fonde sulla natura sostanzialmente sociale che, in qualsiasi società, riveste la cura del bisogno, dato che essa è sempre e prima di tutto il prodotto delle reti informali comunitarie e familiari, le quali, lungi dall'essere bisognose di assistenza, sono in primo luogo coproduttrici di assistenza, e dunque meritano di diventare codecisori nell'allocazione delle risorse assistenziali.

 

Compiti di vigilanza

 

Ma, naturalmente, le considerazioni di ordine teorico non basteranno. Se questi rischi, da cui neppure il terzo settore è del tutto esente, occorre sviluppare un ruolo attento di vigilanza orientato:

a far sì che non si oscuri nella coscienza collettiva l'idea, riaffermata anche recentemente (legge n. 328/00 art.1, comma 3), che la responsabilità di garantire i diritti dei cittadini in stato di bisogno è compito della comunità organizzata nelle sue istruzioni pubbliche e che questo compito non è delegabile;

a evitare che, anche involontariamente, il pericolo di sovrastimare l'importanza del terzo settore nelle sue varie espressioni contribuisca ad oscurare questo punto centrale; le tentazioni saranno molte, temo, nei prossimi anni, ma si deve ricordare, come ama dire mons. Nervo, che "il terzo settore è un fenomeno spontaneo e volontaristico, e perciò precario nella presenza: c'è se c'è, quando c'è, se può, quando può, se vuole" (Nervo G. ; 2000);

a verificare in sede di progettazione prima, in sede di controllo poi, come viene delineato il sistema dei servizi alla persona; questo a livello locale, mentre a livello nazionale occorre non perdere d'occhio le decisioni che verranno prese in materia di riforma del welfare per assicurare una sua deriva in senso assistenzialistico e smodatamente privatistico.

 

Suggerimenti per una partecipazione attiva del volontariato alla programmazione territoriale

 

Tornando a Robin Hood…. La tentazione maggiore, oggi, per Robin Hood penso sia quella di ritenere che suo compito è solo quello di darsi da fare per cui ha bisogno in forma diretta e che per tutto il resto sia una perdita di tempo.

Mentre tutto sta cambiando nel sistema di welfare, dal livello europeo a quello locale, l'utilità sociale del volontariato non si misura solo dal numero di interventi assistenziali che riesce a sviluppare, ma dalla capacità di stare dentro questi cambiamenti facendo sentire alta la sua voce, che non può essere quella di chi si trova in condizioni di bisogno.

Ciò vuol dire considerare la presenza nel castello (i <<tavoli>>) importante almeno tanto quanto il radicamento nella foresta di Sherwood (i quartieri e le corsie). E attrezzarsi per essere all'altezza del compito.

Propongo qui alcuni suggerimenti che possono risultare utili in questo senso.

 

Approfondire l'analisi dei bisogni sociali

 

C'è oggi un bisogno assoluto di condurre un'analisi approfondita dei bisogni sociali. Di solito questo aspetto viene trascurato nell'elaborazione dei piani. Per lo più non si fa e quando viene realizzato si fa con troppa fretta. Il volontariato può dire molto in questo campo. Ma deve anche convincere le istituzioni che questa analisi non si può fare solo quando se ne ha il tempo e in modo episodico. Deve essere un processo permanente che si realizza raccogliendo opinioni degli attori, ma anche dotandosi di strutture adeguate.

 

Costruire indicatori di salute

 

Allo stesso modo c'è bisogno che il costituendo sistema locale dei servizi si doti della capacità di costruire indicatori di salute, benessere/malessere, che ci consentano di gettare uno sguardo un po' più rigoroso sui risultati delle azioni intraprese e dei progetti realizzati. Non riusciremo a definire livelli essenziali se non saremo capaci di identificare le azioni efficaci, perché essenziale non è solo ciò che è più necessario, ma anche la dotazione di strumenti e strutture di tipo tecnico.

 

La necessità di strutture per la pianificazione

 

In sostanza non si dà pianificazione territoriale senza strutture permanenti di pianificazione, che devono essere create (qui il rapporto tra comuni associati e Asl è fondamentale) e produrre informazioni pubbliche utili alla progettazione e alla valutazione del sistema.

 

Dalla cura alla prevenzione

 

L'analisi e la riflessione sui problemi e sui disagi sociali è la condizione essenziale per poter spostare l'attenzione dalla cura alla prevenzione, dove con questo termine non si deve intendere solo la diagnosi precoce, ma l'intervento sulle determinanti della malattia e del disagio (prevenzione primaria). E' opinione condivisa oggi che, in tutti i paesi a sistemi sanitari avanzati, un miliardo in più speso nella prospettiva delle cura non produca alcun miglioramento nei livelli di salute (Se si legge <<Il rapporto mondiale sulla salute>> curato dall'Organizzazione mondiale della Sanità, non si nota un rapporto diretto tra livello di spesa e livello di salute:De Sandre G.e Bertinato L.- 2000 - "Il rapporto mondiale sulla salute", in Studi Zancan, n. 6, Padova) e che miglioramenti effettivi potranno intervenire solo da una azione decisa sulle determinanti della malattia (alimentazione, stili di vita, incidenti ecc.). Sul piano sociale la nostra società deve cominciare a chiedersi non (solo) come si può curare il disagio, ma che cosa lo produce. Prima di chiedere alla scuola, ad esempio, che cosa fa per prevenire il disagio dobbiamo chiederle se non sia il caso di smettere di crearlo. Oltretutto costerebbe molto meno.

 

Dare il necessario rilievo al lavoro culturale

 

Agire sulle determinanti del disagio vuol dire, in un contesto di ricchezza diffusa come il nostro, dare il necessario rilievo al lavoro culturale.Il disagio ha sempre più spesso origini di tipo socioculturale e i processi di emarginazione sociale sono di natura eminentemente culturale, hanno a che fare con le immagini e le rappresentazioni che la comunità si fa di un problema sociale. Impiegare tempo ed energie per modificare queste rappresentazioni non è <<altra cosa>> rispetto al quotidiano impegno nell'assistenza alle persone. Produrre rappresentazioni corrette, realistiche e condivise dei problemi sociali è un compito importante, che potrebbe venire grandemente rafforzato se assunto congiuntamente da servizi e volontariato. Oltre ai tavoli politici, deve discutere di programmazione dei servizi, c'è cioè un compito più propriamente culturale, che potrebbe trovare grande giovamento dalla creazione di tavoli in cui i servizi, volontariato, famiglie e cittadini confrontano le loro definizioni del bisogno, delle sue origini, dei modi più corretti per affrontarlo, e per questa via provano a immaginare soluzioni nuove.

 

Le tematiche della quarta età

 

Nel discutere nel merito dei problemi che le nostre comunità dovranno affrontare, sappiamo tutti che un posto di primo piano verrà assunto dalle tematiche dell'età anziana, in particolare della quarta età con problemi di perdita di autonomia. E' abbastanza ovvio che sia così e certamente le risorse di cui disponiamo oggi per affrontare questo problema risulteranno largamente inadeguate. Non c'è stato un dibattito esplicito sufficiente nel nostro paese su questo problema, come invece si è avuto in altri. Ad esempio in Germania, dove ha condotto a forme di assicurazione obbligatoria contro la non autosufficienza e anche alla rinuncia di una giornata di ferie da parte dei lavoratori per finanziare i fondi costituiti.

 

Spostare risorse verso giovani generazioni

 

E tuttavia penso che si debba evitare il rischio, tipico delle società che invecchiano, di dimenticare le fasce di età più giovani. La nostra società ha bisogno che si spostino risorse in favore delle giovani generazioni e delle famiglie con figli minori. La legge n.328, all'art.16 (Castegnaro A., 2001), dedicato alla valorizzazione e al sostegno delle responsabilità familiari, offre numerose indicazioni in questo senso, ma questa parte della legge, più di altre, corre il rischio di rimanere inapplicata. La definizione del sistema locale dei servizi deve prevedere invece una parte importante dedicata a questa linea di azione, volta a delineare programmi per il sostegno alle responsabilità familiari.

 

La valutazione dei servizi

 

Un apporto fondamentale del volontariato dovrà essere sviluppato nella valutazione dei servizi, nel controllo del funzionamento del sistema e della qualità delle prestazioni erogate. Questo compito sarà tanto più importante quanto più si andrà verso un sistema pubblico-privato di welfare comunitario. Si deve chiedere agli organismi responsabili - comuni e aziende ASL - che investano risorse in questo senso, per il controllo della qualità e per sorvegliare l'accesso ai servizi in modo che questo non sia troppo influenzato dalle disuguaglianze esistenti nella società. Si deve in particolare rivendicare che vengano predisposti sistemi per ascoltare punti di vista dell'utenza. Sistemi seri, perché per lo più quelli usati non lo sono. Il volontariato potrebbe dare il suo contributo alla realizzazione di indagini in questo senso, come già si sta facendo in qualche caso.

 

 

Contenere il distacco tra chi partecipa ai tavoli e chi fa assistenza

 

Ma il volontariato può esercitare un ruolo diretto di grande rilievo nella valutazione dei servizi. I volontari che fanno assistenza dovrebbero assumere un atteggiamento che li conduca a esercitare un'attenzione continua rispetto a ciò che succede loro attorno, a come i bisogni vengono affrontati dai servizi, alla qualità delle risposte e alle mancate risposte. Per questo c'è bisogno di fare formazione, per poter sviluppare un'attenzione competente e rendere i volontari <<terminali intelligenti>> in grado di cogliere ciò che cambia nei servizi. E le associazioni dovrebbero strutturarsi come dei collettori delle osservazioni raccolte operando sintesi valutative da riproporre agli interlocutori pubblici che hanno la responsabilità del sistema. Questo è anche il modo di contenere il possibile distacco tra chi partecipa ai tavoli e chi si dà da fare nelle corsie e nelle abitazioni.

 

Le carte dei servizi sociali

 

La legge 328 all'art.13 prevede la redazione in tutti i servizi di una carta dei servizi sociali, come già avvenuto nel settore sanitario. Essa costituirà condizione per l'accreditamento. E' un altro campo di azione interessante per il volontariato, che da un lato può contribuire alla sua redazione, dall'altro potrà trovare in essa la base da cui muovere per svolgere quel ruolo di controllo che ho appena richiamato. Occorre evitare che l'adozione di queste carte avvenga in modo burocratico, ed essere consapevoli che le carte dei servizi esercitano tre funzioni potenzialmente molto importanti (De Ambrogio U., -2000): di tutela, attraverso azioni informative, di conoscenza dei diritti e delle opportunità di rimborso; di sviluppo della partecipazione, attraverso forme di coinvolgimento dei cittadini utenti nella valutazione; di miglioramento della qualità delle prestazioni, attraverso la realizzazione periodica e documentata di valutazione della qualità e attraverso la dichiarazione di obiettivi periodici di miglioramento.

Un cenno infine a due condizioni necessarie per una partecipazione corretta e non subalterna ai tavoli della concertazione.

 

Contenere la competizione all'interno del terzo sistema

 

La prima è rafforzare il coordinamento tra le associazioni di volontariato e contenere la competizione all'interno del terzo sistema, so che è un tema difficile, ma penso anche che le volontà di operare in questo senso sono state finora un po’ troppo tiepide. Come chiediamo ai servizi un maggiore grado di integrazione, così deve essere per il terzo settore o, almeno, per il volontariato. I protagonismi di associazioni o personali non servono, serve collaborazione.

 

Garantirsi condizioni di autonomia

 

La seconda è garantirsi condizioni di autonomia rispetto alle istituzioni con cui si interloquisce. E' una questione ancora più delicata. Sotto il profilo strutturale essa richiede da un lato che si sviluppi un settore dell'economia sociale non troppo dipendente dalla spesa pubblica (Giordano M., 2000) (qui lo sviluppo di fondi integrativi potrebbe essere di grande aiuto) e dall'altro una capacità di competere con le imprese lucrative senza peraltro che la ricerca di economicità porti all'abbandono dei settori più deboli. Probabilmente occorre anche pensare a una più chiara demarcazione dei ruoli tra volontariato e cooperazione sociale. Il primo ha, da questo punto di vista, meno problemi e può essere più libero nei confronti della pubblica amministrazione, perché è per l'appunto <<volontariato>>, e può ritrovare proprio nella sua specificità originaria le motivazioni per riscoprire le sue ragioni essenziali: cogliere nuovi bisogni, offrire prime risposte, non sostituirsi a servizi professionalmente più attrezzati, ma semmai denunciarne l'assenza, operare perché si affermino logiche di prevenzione primaria, salvaguardare i diritti dei cittadini in modo particolare di quelli più deboli.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Castegnaro A. (2001), Famiglia e servizi sociali, in <<Studi Zancan>>, n.2, Padova

De Ambrogio U. (2000), <<Carta dei servizi sociali, e sanitarie>>, n.20/22, Milano.

De Sandre G. E Bertinato L. (2000), Il rapporto mondiale sulla salute, in <<Studi Zancan>>, n. 6, Padova.

De Stefani P., e Piazza S. (2000), I servizi alla persona davanti alla sfida della solidarietà, in <<Studi Zancan>>, n.2, Padova.

Ferrera M. (1998), Le trappole del welfare, Il Mulino, Bologna.

Foglietta F. e altri (a cura di) (2001), I livelli essenziali di assistenza in un sistema di welfare universalistico e solidaristico, in <<Studi Zancan>>, n. 1, Padova.

Giordano M. (2000), Stato sociale e terzo settore: dalla supplenza alla cittadinanza, in <<Studi Zancan>>, n.2, Padova.

Meloni G. (2000), Il governo locale del welfare comunitario, in <<Studi Zancan>>, n.1, Padova.

Nervo G. (2000), Alcuni interrogati sul terzo settore, in Studi Zancan, n.1, Padova.

Vecchiato T. (2000), Dall'assistenza ai servizi alle persone, in Studi Zancan, n. 6, Padova.


La pagina
- Educazione&Scuola©