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Reg. Tribunale Lecce n. 662 del 01.07.1997
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PIERGIOGIO WELBY CI HA LASCIATO... E CON TANTI INTERROGATIVI

di Salvatore Nocera

             La drammatica vicenda umana di Piergiorgio Welby  ha molto scosso tanta gente sensibile, lasciando nel loro isolamento  di  mancanza di humanitas i “soloni dei codici civili e canonici”.

            Io  mi sento fortemente interpellato dalla sua vita di sofferenza e dal desiderio, finalmente esaudito, di porvi fine, per tre motivi: sono una persona con disabilità, anche se  di gran lunga meno grave, sono un credente  cattolico,  sono uno  che studia e pratica il diritto.

            Di fronte  agli illustri teologi e giuristi che si sono confrontati a favore o contro le posizioni di Welby, io umilmente confesso tutti gli interrogativi che  si agitano in me, impedendomi di dare un giudizio chiaro e sicuro sui problemi sollevati dalla sua  vicenda umana, che invece mi sono sforzato di aver compreso e condiviso.

            1- Gli interrogativi giuridici sono, per me, i meno complessi. Infatti l’art 32 della Costituzione è chiarissimo nell’enunciare il principio che nessuno può essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà. Se Welby, fosse stato in grado fisicamente di staccare la spina, lo avrebbe fatto da solo, al pari di quanti liberamente decidono di abbandonare la vita divenuta per loro un peso insopportabile. Però egli fisicamente non poteva. E qui, giuridicamente i problemi si pongono per il medico che ha  reso possibile l’attuarsi della sua volontà. I Giuristi  si scontreranno, come già sta avvenendo,  sui principi di bioetica e sulle norme penali da applicargli, se le norme sull’omicidio del consenziente, neppure con le attenuanti,  se  i principi sulla sospensione dell’accanimento terapeutico,    o se gli orientamenti in materia di eutanasia “ attiva”( cioè morte provocata dal medico) o “passiva”( cioè morte  naturale non impedita dal medico col ricorso a farmaci o a mezzi tecnologici)

Comunque mancando in Italia una norma espressa sull’eutanasia, la discussione sempre più si restringerà sulle altre due ipotesi e soprattutto sull’applicazione o meno della norma dell’art 579 del Codice penale  relativo all’omicidio del consenziente.

Sul diritto al  rifiuto dell’accanimento terapeutico sono fortunatamente tutti d’accordo.

Il problema dibattuto è circa il concetto giuridico di accanimento terapeutico, specie in presenza delle nuove terapie e tecnologie mediche. .

Personalmente sono contrario ad una norma penale che autorizzi un soggetto terzo a decidere a quali condizioni una persona non in grado di esprimere più una volontà libera e certa, possa essere condotta dolcemente a   morire. Se però la persona è in grado di intendere e volere,   come è stato Welby,  ritengo che un ordinamento giuridico debba consentirle  di raggiungere   la morte che , a suo avviso, la libera da un’insopportabile sofferenza, senza nuocere ad alcuno; a meno che non si abbia della vita umana la visione sovietica  secondo la quale, essendo ogni cittadino un bene dello stato,  il suo suicidio danneggia quest’ultimo.

Anche il cosiddetto “testamento biologico”, cioè la volontà espressa liberamente di voler morire qualora si dovesse verificare uno stato di salute che non consenta di manifestare una libera volontà al momento di una grave malattia, già ipotizzata nelle “ultime volontà” espresse  dall’interessato, mi sembra debba essere riconosciuto dal legislatore,   per il rispetto dovuto alla libertà di ogni uomo, a meno che non si voglia pensare  , come fa il nostro Codice penale che una persona non possa liberamente disporre della propria vita. E però  come mai la coscienza sociale non considera   tentativo  di suicidio  il partire come volontario per una guerra, né suicidio il darsi come volontario in un’azione militare che comporta la sicura morte? Qui però gioca il valore di solidarietà per la patria attuato dall’eroe militare.  Ma gli ordinamenti giuridici liberali odierni non sono ancora in grado di recepire come bene giuridico il rispetto della libera volontà di un essere umano, anche con riguardo al solo valore del rispetto della sua volontà che non nuoce ad alcuno?

2- Più difficili divengono gli interrogativi per me , disabile. Infatti tutto il movimento della disabilità , a livello mondiale, si batte  per il superamento dell’emarginazione dei disabili e per  la loro integrazione  scolastica, lavorativa e sociale, anche nei casi di persone in situazione di “particolare gravità( quelle cioè che come dissero alla mamma di Claudio Imprudente,   sono  dei  “vegetali” ( vedi la sua autobiografia “una vita imprudente”. E Claudio ed altri come lui , malgrado la totale dipendenza da altri per tutti gli atti della vita quotidiana e di relazione, continuano a vivere, malgrado tutto; anzi ci danno lezioni di impegno culturale sociale e politico.  E chi non ricorda Rosanna Benzi, costretta a vivere in un polmone d’acciaio, la cui  voglia di vivere ha documentato nella sua autobiografia “ Il vizio di vivere”, nel quale ha narrato con delicatezza inconsueta una sua  voluta esperienza sessuale?

E chi non rimane sbalordito di fronte ai genitori di bambini con gravissime minorazioni che, invece di depositarli in istituti speciali, li tengono in famiglia e lottano per la realizzazione  dei loro diritti che sono riusciti a strappare al Parlamento ed ai Governi con tante lotte ,umiliazioni e fatiche?

Di fronte a queste testimonianze, talora eroiche, la richiesta di Welby può sembrare rinunciataria. Ma chi , anche se disabile grave, può ergersi   a giudice  delle sofferenze di un essere umano? Anche il Capo dello Stato, Napolitano, ha recentemente graziato un genitore che,   non potendo più sopportare le sofferenze del figlio gravemente disabile, lo ha ucciso. Diremmo allora che “ disabile è brutto?” Ma si può dire al contrario che “ disabile è bello?”

Io sono fra quelli che si battono per la piena integrazione sociale delle persone con disabilità;  chi  sono però io  per condannare chi tale integrazione non è riuscito a trovare per carenze dei servizi e della società o per non sentirsi realizzato nelle condizioni di vita che non si sente di accettare?

3- Molto più intriganti sono gli interrogativi che mi pongo come cattolico non solo anagrafico. Certo, per noi credenti in Dio, la vita , qualunque vita, è un Suo dono e quindi non  possiamo disporne liberamente. Mi ha colpito a tal proposito il pronunciamento  del reverendo anglicano Butler di  Londra,   secondo il quale l’eutanasia di un neonato disabile grave  non sarebbe  moralmente illecita.

Però , per altro verso, secondo il Cristianesimo,la vita non và idolatrata, come testimoniano tanti Martiri , che l’hanno immolata per la fede.

Ma per chi non crede in Dio? Posso pretendere che abbia la stessa visione della vita e del suo valore trascendente che ne  abbiamo noi  cristiani?

Posso condannare moralmente  quanti non riescono a trovare nell’amore di Dio un senso alla loro vita di sofferenze?

E’ questo mio modo di pensare espressione di relativismo morale?Se lo fosse, sarebbe forse migliore, per il rispetto della dignità della persona di Dio, suo creatore, l’intransigenza di chi condanna senza neppure la remora di un piccolo dubbio? Oppure , per non condannare, occorre pretendere un segno di “ravvedimento”?

Eppure Gesù,  di fronte all’adultera,  non le disse che non la condannava, prima ancora di aver ricevuto un segnale di  un suo cambiamento di  vita ?

Welby ha  ripetutamente scritto parole di denuncia a Dio per la sua malattia.  Chi di noi , persone con disabilità, specie se credenti, non ha chiesto a Dio il perché della nostra “ diversità”? Vorranno , allora, gli arcigni soloni della legge comportarsi come  i saccenti amici di Giobbe che vogliono dare risposte e spiegazioni meschine e non degne di Dio, alle domande più alte che sono state rivolte al mistero di Dio e della vita?

Certamente Welby era stato educato religiosamente , come me che ho quasi dieci anni più di lui, in un periodo in cui la pastorale e la catechesi cristiane rivolte alle persone con disabilità ed alle loro famiglie  erano esclusivamente incentrate sul “valore salvifico della sofferenza e della Croce”.

Fortunatamente ,dopo il Concilio ecumenico Vaticano II° ( 1962- 1965), la riflessione teologica e quindi la pastorale e la catechesi verso di noi sono cambiate, invitandoci a dare un senso alla Croce attraverso  la Resurrezione di Gesù, e della Sua testimonianza, che si concretizza nella condivisione  dei problemi di vita di noi disabili da parte di gruppi sempre più attivi di volontariato e di comunità. La Comunità di Capodarco, il cui presidente, don Vinicio Albanese, ha inviato a Welby una bellissima lettera  aperta, richiamando il valore francescano di “ nostra sora morte corporale”, è intitolata a Gesù risorto.    Non per nulla il recente convegno ecclesiale svoltosi a Verona è stato intitolato “”Testimoni di Gesù risorto” ed il senso di questa testimonianza verso il mondo e le  persone  con fragilità è stato chiaramente esposto nella relazione introduttiva del Vescovo di Milano , Card. Tettamanzi; peccato che tale senso sia andato annacquandosi durante i lavori verso una visione più legalistica e di presenzialismo trionfalistico, come può rilevarsi dalla lettura degli atti, curata  dall’Avvenire in un bel volume dal titolo “ Una speranza per l’Italia”.

Se Welby avesse avuto  da noi credenti una maggiore testimonianza del valore salvifico della Resurrezione  di Gesù, avrebbe potuto forse accettare responsabilmente   la sua sofferenza sino alla fine?Egli comunque ha fatto di tale sofferenza un’occasione di lotta civile , fortemente sostenuto dai  Radicali.  Per questo  il Vicariato di Roma gli ha rifiutato  i funerali religiosi.  Ma non è questa  una visione più legalistica  che orientata  verso la misericordia divina?     Però, a proposito della salvezza annunciata e realizzata da Gesù, non è  san Paolo, il grande apostolo di Gesù risorto,   che insiste nel dire che “ la legge uccide, mentre   lo Spirito vivifica”?

Queste sono alcune delle domande più intriganti , cui non  so dare risposte sicure ed invito chi vuole a darne di più esaurienti.


WELBY, LA LIBERTA' CONSAPEVOLE

Welby è morto come aveva deciso, voluto. Una scelta di un uomo che ci ha costretto a pensare, a discutere. Su di lui e, quindi, su di ognuno di noi. Perché avremmo potuto essere lui, perché lui è stato come noi. Una malattia tragica, la sua, che imprigiona il corpo e lascia libera la mente, anno dopo anno, giorno dopo giorno. Non ce la faceva più. Lasciatemi andare, lasciatemi morire. Tante volte, quando facevo il medico in ospedale, ho sentito queste parole. Dette sottovoce, con gli occhi, con le mani. Forse si intuisce quando si è alla fine e si cerca un conforto, un aiuto. Aiutami, non farmi soffrire. E il medico può, deve. Saper accompagnare alla morte è il compito più difficile, che dovrebbe essere insegnato e imparato da ognuno di noi, di chi è medico
ma anche di chi non lo è. Morire senza dolore, senza soffrire, con accanto qualcuno che ti accompagni, che ti ama, che ti vuole bene: non è
così per tanti, per troppi. Ha ragione chi oggi, di fronte alla morte di Welby, insiste su questo; sulle scelte che si devono fare, sulla mostruosa carenza di risposte per garantire assistenza dignitosa per i malati terminali, per accompagnarli a vivere fino alla fine con serenità e dignità.
Gli /hospices/, l’assistenza domiciliare, le cure palliative, l’umanizzazione degli ospedali, gli ospedali senza dolore: siamo ancora indietro, troppo indietro. Certo, tutto questo è doveroso, ineludibile ed ancora terribilmente non scontato né garantito.
Ma per Welby, che c’entra? Welby è stato assistito, mai abbandonato, stava da anni nella sua casa, con accanto la moglie, i suoi amici, era supportato da una terapia contro il dolore. Ma non ce la faceva più.
Aveva chiesto di essere lasciato andare, aveva scelto di interrompere un trattamento terapeutico che gli permetteva artificialmente di respirare e quindi di sopravvivere, aveva deciso con la sua piena capacità di intendere e di volere. La libertà di decidere. E’ questa in discussione?
Si rimane sconcertati e indignati dalla confusione e dalla ipocrisia. Si è parlato di possibilità di sospendere un trattamento quando si configura come accanimento terapeutico: per Welby non si trattava di questo. Non era un malato terminale, in cui tutte le funzioni vitali sono compromesse e rispetto al quale, quindi, l’accanimento terapeutico diventa soltanto esercizio di una medicalizzazione onnipotente quanto disumana. Welby avrebbe potuto ancora vivere, forse ancora a lungo, perché solo la funzione respiratoria era del tutto compromessa. Il medico quindi non poteva staccare il respiratore, si è detto, perché non era accanimento terapeutico. Ma Welby poteva decidere, in coerenza con l’art. 32 della Costituzione (e anche con la più recente Convenzione di Oviedo) di interrompere il suo trattamento terapeutico. Anche D’Agostino (ben noto per il suo interventismo nel Comitato Nazionale di Bioetica, sempre fedele ai documenti della Conferenza Episcopale) ha ammesso che, sì, questo diritto è un diritto costituzionale intangibile. Ma,
continuava, il punto è quello che succede “dopo”, quando si fosse staccato il respiratore. Sarebbe stata eutanasia (o peggio, come alcuni hanno detto, omicidio). Se il medico fosse intervenuto con farmaci, sarebbe stata eutanasia. Ma di cosa si sta parlando?
E’ chiaro che la definizione di eutanasia prefigura un intervento attivo che interviene sui tempi naturali della morte. Nel caso di Welby, una volta staccato il respiratore, il tempo naturale della morte sarebbe sopraggiunto subito, perché non si può sopravvivere senza respirare. Il respiratore artificiale non è quindi accanimento terapeutico, ma neppure un semplice trattamento terapeutico. E’ un trattamento vitale, senza il quale non esiste sopravvivenza possibile. Non si trattava di interrompere quindi i tempi naturali della morte, ma solo di impedire che Welby morisse “naturalmente” soffocato. Per questo chiedeva di essere sedato. Allora, perché questa discussione sull’eutanasia? Se a Welby è stato riconosciuto il diritto a scegliere di interrompere il suo trattamento terapeutico, perché invocare l’eutanasia o, peggio, l’omicidio? E quale deve essere il dovere di un medico di fronte a
questa volontà? Accompagnare il malato alla morte naturale, senza farlo soffrire, o lasciarlo asfissiare come un pesce rosso senza l’acqua nel vaso?
Serve una legge per garantire questa libertà, per applicare un articolo della costituzione? Non credo. Nel caso di Welby non credo servisse una legge, come invece sarebbe necessario in tema di testamento biologico o come sarebbe ipotizzabile nel caso si discutesse veramente di eutanasia,
cioè la possibilità di accelerare in modo attivo i tempi naturali della morte. Serviva invece che la politica trovasse parole serie e chiare, radicate nel rigore dei principi e dei valori costituzionali. Abbiamo ascoltato invece l’impotenza di un pensiero e sopportato il rimpallo delle responsabilità dei poteri, tra quello legislativo e quello giudiziario. Con al centro l’ambivalenza del potere scientifico. Welby se n’è andato, agendo la sua libertà, per la sua dignità. E affidando a tutti noi questa sua domanda di libertà. Ricordarlo con rispetto vuol dire allora continuare a discutere, a pensare.
Welby oggi è davvero la figura emblematica e tragica del ventunesimo secolo. Mentre il sud del mondo combatte ancora contro la mortalità evitabile, mentre milioni di bambini di interi continenti muoiono per banali infezioni o dissenterie, mentre le morti per AIDS di milioni di contadini stanno precipitando il PIL dell’Africa a livelli di catastrofe, nel mondo sviluppato i progressi della medicina e della tecnologia dilatano il tempo della morte naturale. E la vita è alimentata da respiratori e tecniche di alimentazione artificiale, permettendo ai corpi di sopravvivere. Mentre nel sud del mondo le politiche demografiche dei governi impongono limiti alla naturale capacità riproduttiva, nei paesi sviluppati si possono persino superare i limiti naturali della stessa procreazione. Per questo la domanda di Welby di poter morire contiene tutta la tragicità della modernità. E’ stata ed è una domanda di libertà che
contiene tutte le domande di libertà, di ogni donna e uomo del nostro pianeta. La libertà di vivere e di morire, che separa tragicamente il mondo e interroga l’etica pubblica.
La bioetica è allora innanzitutto questo: lo scenario moderno delle mostruosità di uno sviluppo ineguale. Il diritto alla vita e il diritto alla morte si interrogano reciprocamente, senza che la politica decida di trovare risposte. La politica non sceglie di garantire il diritto alla vita di tutti, né di permettere il diritto alla morte di uno. La politica da una parte fa un passo indietro rispetto alle logiche di mercato delle multinazionali dei farmaci o dei diktat della Banca Mondiale e del Fondo Monetario; dall’altra rinuncia persino a parlare.
Un complessivo fallimento epocale.
Discutiamo, allora, innanzitutto di questo: della vita e della morte, di cosa è la bioetica, di cosa significa. Di quali conflitti parla, cioè di
quali soggetti. E di quale pensiero impegna, cioè se solo di filosofi, giuristi, antropologi, scienziati, o peggio - per sprofondare repentinamente nel provinciale contesto del nostro paese - se solo di laici e di cattolici. Il pensiero politico, il pensiero occidentale sembra disperdersi in primati spezzettati di pensieri specializzati, rinunciando alla multidisciplinarietà, esaurendo o perdendo la capacità complessiva di leggere le sfide del presente e del futuro. Questo pensiero sembra impotente ad affrontare la complessità e, anzi, sembra scegliere di semplificare quello che invece resta complesso. La
“verità” diventa l’imperativo della ricerca intellettuale, che si affida da una parte all’apparente oggettività della scienza e dall’altra all’assolutezza dei principi religiosi. E’ una verità che in entrambi i casi scavalca i soggetti, ne fa a meno, li trasforma in “oggetti” di discussione e di decisione. Questo pensiero occidentale è oggi piegato, umiliato.
Democrazia, uguaglianza, laicità, sono stati e sono i fondamenti del pensiero costituzionale, che oggi dobbiamo riuscire a inverare, rispetto alle sfide del presente e del futuro. Un pensiero che deve essere forte, capace di sancire l’universalità dei diritti come condizione della libertà, ma anche di riconoscere le libertà delle persone come il fine ineludibile dell’attuazione dei diritti. Un pensiero forte che parli al di là dei confini dei nostri paesi, per garantire gli stessi diritti anche ai popoli del sud del mondo, assumendo l’universalismo dei diritti dentro l’orizzonte di una cittadinanza globale. Un pensiero forte che consideri la laicità non come terreno di minimalismo etico, ma anzi come strumento per far recuperare alla politica la sua ricerca di senso, di significato, per impedire che la legislazione diventi etica. Senza laicità, la democrazia diventa autoritaria e l’uguaglianza si trasforma in assimilazione.
Tutto questo non solo non c’è, ma anzi si assiste a un rigurgito di arcaicità. Quelli che si dichiarano per la modernizzazione, abbandonano con leggerezza ogni coerenza sul piano della difesa dei diritti e delle libertà; quelli che si richiamano alla dottrina sociale della Chiesa, rinunciano al tema dell’equità e della giustizia sociale in nome del primato della verità religiosa. Non ci sono più i Dossetti o i don Milani, ma solo la Binetti, che diventa l’ago della bilancia, detta i condizionamenti ad una coalizione che si condanna all’afasia proprio sui principi e sui valori che dovrebbero ispirarla.
Teodem, teocon, sono gli unici interlocutori che trovano udienza, che appaiono essere gli unici detentori dei “valori”. Gli altri, se parlano di valori, sono solo ideologici. Allora, siamo davvero a un passaggio cruciale: prove di egemonia, per la ridefinizione di un pensiero dominante. Il pensiero occidentale viene distorto, piegato. Il secolo della “tirannia etica”, si è detto. Anche su questo Welby con la sua morte ci ha lasciati a pensare.

Grazie, Welby.

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